1.
Inviare manoscritti tramite raccomandata
Non importa quanto tempo gli si dedichi. I pacchi contenenti i manoscritti si accumulano in casa editrice come fanno i rifiuti, i detriti e i pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata. A differenza di quanto accade su una spiaggia, però, in casa editrice il mare è sempre mosso. E così, non appena l’editor si è illuso di aver messo mano ai plichi recapitati dal postino con la posta ordinaria della mattina, ecco che arriva il turno di quelli consegnati dai corrieri il primo pomeriggio, i quali, a loro volta, non concedono al lettore neppure il tempo di essere aperti per affrettarsi a passare il testimone ad altre buste, ripiene di manoscritti come le altre, ma pervenute alla redazione attraverso gli autori, venuti apposta per depositare le loro sudate carte direttamente nelle mani della persona «giusta».
Il risultato di questa costante ondata di piena, di questa incredibile e anche commovente voglia di esprimersi attraverso la scrittura, è una gigantesca pila di carta accatastata ovunque: centinaia e centinaia di manoscritti che, giorno dopo giorno, trasformano l’editor in un Sisifo delle altrui aspirazioni, o, fuor di metafora, in un impiegato delle poste frustrato per colpa di una stanza in cui tra buste, pacchi, scatoloni, involucri, fagotti e cartocci vari, riesce a malapena a entrare e a mettersi seduto alla scrivania.
A questo triste destino, grazie al cielo, la fortuna ha pensato di mettere un limite. Difficilmente, infatti, si diventa editor senza rinunciare a coltivare la speranza alla maniera dei bambini, sempre pronti, dopo la mareggiata, a correre sulla spiaggia incuranti del bitume o dei cocci di bottiglia, convinti che il ritrovamento di una splendida conchiglia valga comunque il prezzo del costume sporco di catrame o delle spine di riccio nei piedi. Perché questo sono i camion di manoscritti per l’editor: un riconoscimento, nella misura in cui i molti pronti a inviare il loro lavoro testimoniano il fatto di essere seguiti in ciò che si pubblica; e un’eterna speranza: quella di una splendida conchiglia nascosta tra le montagne di carta, materiale sempre ottimo se si tratta di documentare le oscure sfaccettature dell’animo umano, ma puro e semplice ciarpame quando ci si sveglia dai sogni e arriva il momento di affrontare l’impietoso giudizio delle librerie.
Comunque vadano le cose, la verità resta la stessa: i manoscritti seguono l’editor come fa la sega con il falegname, la farina con il fornaio, e le fedi nuziali con gli sposi il giorno del matrimonio. Quella quantità oceanica di plichi sigillati alla buona e spediti con ogni mezzo disponibile diventano le stigmate della propria vocazione artigianale, le insegne di una professionalità in fondo oscura, il manifesto del proprio lavoro. È in virtù di tutto ciò che, nel nome dei manoscritti, si passa sopra a intere raccolte di poesia ermetica cecoslovacca, a forbiti manuali per la manutenzione della mototrebbiatrice e a incredibili scatti fotografici dedicati ad episodi di coprofagia... anche questa, in fondo, al di là delle inesistenti possibilità di pubblicazione, è letteratura. E se, sfidando la statistica, impietosa nel ridurre una simile possibilità al lumicino, si continua imperterriti a sporcarsi di catrame e a riempirsi i piedi di spine di riccio pur di portare a casa una splendida conchiglia, è giusto passare sopra alle istruzioni manoscritte per la sbrinatura dei frigoriferi, ai poemi epici «neocavallereschi metropolitani» e ai romanzi «realistico-psicadelici a sfondo rosa con il cuore noir». Nel nome di una splendida conchiglia – o almeno di una dignitosa vendita in libreria (quello che serve per farsi rinnovare il contratto per un altro anno ancora) – è giusto passare sopra a tutto. A tutto. Tranne che alle raccomandate.
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Il fatto che un ente comunemente chiamato «Poste» si dedichi, nella realtà, ad operazioni di banca, alla telefonia mobile e alla vendita rateale di qualunque tipo di merce molto di più che non alle procedure di spedizione di pacchi, lettere e cartoline, potrebbe insospettire anche il più sprovveduto degli osservatori. Ma neppure un navigato cartomante riuscirebbe a dare una spiegazione convincente a quelli che sono gli imperscrutabili meccanismi di funzionamento delle Poste Italiane.
Prendiamo il caso delle raccomandate. Se l’ufficio di una casa editrice fissasse il proprio orario di apertura alle ore dieci, diventerà abitudine del postino passare nel medesimo ufficio alle nove in punto. Allo stesso modo, se la casa editrice convenisse di chiudere per la pausa-pranzo, poniamo dalle ore tredici alle ore quattordici, non ci sarà nulla di più facile che ritrovare, alla riapertura, un bel cumulo di posta ordinaria... e una certa quantità di avvisi di mancata ricezione delle raccomandate.
Già questo, in buona sostanza, è un ottimo motivo per odiare le raccomandate. Ma anche volendo tralasciare il fatto che ricevere una raccomandata, molto spesso, finisca per costringere qualcuno a recarsi in un affollato ufficio postale e a combattere con eserciti di agguerrite vecchiette in attesa di pensione soltanto per ritirare ciò che poi si scoprirà essere... un manoscritto! Anche volendo accantonare l’annesso corollario di imprecazioni e invettive destinate al mittente in simili circostanze, in genere la forma della «lettera raccomandata» è per sua natura associata a un problema e non certo a un’opportunità. Le multe, gli atti giudiziari e le denuncie arrivano per raccomandata e perciò, se avete scritto un romanzo, un saggio o una silloge di poesie, per quale motivo volete essere assimilati a un giudice, a un ausiliario del traffico o addirittura a un poliziotto?
Le acque in cui navigano le case editrici – specialmente quelle definite «indipendenti» – non sono mai particolarmente tranquille e di conseguenza, con quale simpatia credete possa essere accolto un vostro scritto dopo che per il suo ritiro è stato necessario trascorrere due ore in fila alla posta con l’incubo di essere stati querelati per diffamazione o citati per il mancato pagamento di una fattura?
E poi parliamoci chiaro: le raccomandate costano... e figuriamoci come può essere considerato, in casa editrice, qualcuno che ostenti soldi da buttare. Ormai dovrebbero saperlo tutti che non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri. E nelle case editrici in cui ho lavorato, ogni volta che è arrivata una busta cosparsa di francobolli sfuggiti alla timbratura, si è sempre provveduto a rimuoverli e a riutilizzarli. E invece c’è gente – o meglio: aspiranti scrittori... – che è persino disposta a spendere i soldi per le raccomandate. Il tutto nella convinzione che una raccomandata possa far prendere l’autore di un manoscritto più sul serio di quanto non accada con un plico spedito con la proletaria posta ordinaria. Una convinzione profondamente ingiusta, in realtà. Perché una raccomandata trasuda ansia di potere, la volontà di alzare la voce e la prepotenza di chi vuole essere ascoltato a tutti i costi. Un atteggiamento un po’ da sbruffone che, alla resa dei conti, non piace a nessuno, figuriamoci a un «cercatore di conchiglie»... quindi: NON INVIATE MANOSCRITTI TRAMITE RACCOMANDATA.
2.
Rilegare i manoscritti
Mi è successo, un giorno, di aspettare alla fermata un autobus diretto alla stazione. Dovevo prendere un treno per Firenze, dove, dopo una visita a una certa trattoria del centro storico, avrei assistito a un reading e incontrato un autore per discutere le bozze del suo ultimo romanzo.
Perso nei miei pensieri, non feci affatto caso di essere l’unica persona sotto la pensilina dell’autobus. E quando capii che i mezzi pubblici stavano scioperando ebbi appena il tempo di mettermi a correre per fare a piedi quel paio di chilometri che separano la stazione Termini da casa mia. Arrivato in vista dei binari, sentii una voce fare il mio nome: «Scusa... sei Cristiano Armati?».
Mi girai. E quella voce apparteneva a una ragazza meravigliosa, vista per caso, una volta, di sfuggita, e ora incontrata di nuovo lì.
Mentii a me stesso nel momento in cui – salito sul mio treno insieme al numero di telefono della ragazza – riconobbi di provare una grande simpatia per lei. E invece ero sincero quando capii quanto mi piaceva il suo modo di parlare, guardandoti dritto in faccia e, al tempo stesso, sorridendo come imbarazzata.
Questa ragazza ha anche grandi e meravigliosi occhi scuri.
E a volte, quando mi parla e mi guarda, io non sono più tanto sicuro di capire bene quello che ascolto, e forse è per questo che ci baciamo spesso.
Succede, in modo particolare, a casa mia. Nella stanza in cui, oltre al letto, ho il divano e una piccola scrivania. E dove tutto – tutto! – risulta carico di «atmosfera» grazie alle pile di libri che non entrano più negli scaffali destinati a contenerli e agli innumerevoli manoscritti, ammucchiati l’uno sull’altro e riposti sopra ogni spazio disponibile.
Questa ragazza, venendo nel posto dove dormo e dove leggo libri, non si è stupita di tutto quel disordine, come sottintendendo che non si aspettava altro dal posto in cui vivevo: il piccolo appartamento di un artista condannato dalla sua stessa natura ad abitare un ambiente bohémien.
Una simile sensazione, probabilmente, può essere giustificata dalle continue frane a cui i precari mucchi di fogli con cui lavoro sono soggetti. Smottamenti in grado di elidere ogni confine tra i libri propriamente detti e i posacenere, tra i manoscritti e le tazzine del caffé, tra i blocchi degli appunti e la biancheria sporca, questa capace anche di infilarsi sotto il letto trascinando con sé opere e autori, bollette scadute e multe per sosta vietata, progetti per future pubblicazioni e cd-rom contenenti apparati iconografici di lavori che non vedranno mai la luce.
Tutto vero, peccato solo che, se una residenza bohémien è frutto di un ricercato distacco da tutto ciò che riguarda il noioso ambito delle faccende quotidiane, lo stato del mio alloggio nasce esattamente dal contrario, e precisamente dalla necessità, diciamo pure dall’obbligo, di estendere l’orario dedicato alla produzione oltre ogni limite, finendo, giorno dopo giorno, per accumulare una quantità mostruosa di materiale destinato al lavoro in casa.
Al di la del letto, dove i fogli sparsi tendono a infilarsi tra le lenzuola con la stessa subdola persistenza dei coriandoli lanciati sul pavimento durante il carnevale, sul comodino è solito troneggiare l’oggetto responsabile del mio stato di lavoro permanente: il telefono cellulare.
Naturalmente non si tratta di un cellulare qualunque, ma, fin dai primordi del suo debutto sul mercato, di un Blackberry, fornitomi dall’azienda per barattare il vecchio obbligo di rispettare l’orario d’ufficio con un cordone ombelicale permanente tra me, la redazione, la proprietà e gli autori della casa editrice, tutti in grado di raggiungermi ventiquattro ore su ventiquattro per telefono o grazie ad un’e-mail.
«Tanto valeva studiare per diventare chirurgo», mi sono detto qualche volta, «perché uscire alle prime luci dell’alba per un delicatissimo intervento a cuore aperto avrebbe avuto un senso...».
A me, invece, alle prime luci dell’alba, succede di essere chiamato da autori presi dall’impellenza di informarmi che no, nella libreria del centro commerciale «Isola Felice» di Putignano il loro capolavoro non è stato esposto né in vetrina, né accanto alla cassa. E quando, magari nel cuore della notte, do uno sguardo alla posta elettronica inevasa, la maggioranza dei messaggi ricevuti appartiene ad aspiranti scrittori, e la loro domanda è sempre la stessa: «Pregiatissimo dottore», mi chiedono, i più esagerando in modo disgustoso con i titoli onorifici, «ha forse avuto modo di leggere il mio manoscritto?».
Sollevo gli occhi dal monitor e guardo la mia camera da letto. Forse chi mi scrive si riferisce esattamente a quel tappeto di fogli indistinti che ricopre il pavimento. Fino a un attimo fa, quegli stessi fogli, ancora mantenevano un ordine e, scorrendoli, si poteva riconoscere una demarcazione tra i vari autori, i vari generi, le diverse specifiche stilistiche... poi, la bellissima ragazza incontrata alla stazione è entrata in camera, leggera come un soffio di vento, e, ridendo degli occhiali che inforco quando leggo, me li ha tolti con un gesto di cui non mi sono neppure reso conto. Da quel momento in poi, ciò che ricordo è una specie di sogno. Una sensazione che provo tutte le mattine, ma che ancora non ho imparato a raccontare. Perché, come ho detto alla ragazza incontrata alla stazione un giorno in cui mi sentivo poeta: «Canterò tutto di te... tranne il tuo segreto. Che è anche il mio, adesso che lo vedo. E capisco come, la cosa più importante, è scoprire che il mio paese è sempre stato lì. Tra le tue gambe».
Poesia dopo poesia, dei manoscritti riportati a casa dalla redazione restano soltanto mostruose chimere. Disteso sul letto, scorro con le dita la curva dei fianchi della meravigliosa ragazza che dorme insieme a me, ascolto il suo respiro e vedo soltanto creature mitologiche con il volto da romanzo rosa, il corpo da saggio sulla storia romana e le zampe da libro noir.
Colpa degli aspiranti autori. Che hanno scritto ciò che volevano scrivere, hanno stampato ciò ch...