Parte quarta
Gli ultimi anni.
La Commedia, le epistole politiche e la Monarchia, la Questio, Cangrande e le Egloghe
I. La Commedia
1. Da solo rispetto a ciò che solo conta: Dante, Cino e la via solitaria.
In un passo incantevole del Purgatorio, Dante mette in rilievo quanto la sua sia un’umanità in viaggio, e come tale sia anche, nella sua concezione, l’umanità intera. Viaggiare – o più esattamente viaggiare nel vero senso del termine – significa issare le vele in anticipo rispetto a tutto ciò che potrebbe essere, ma anche volgere indietro con tenerezza lo sguardo verso tutto ciò che un tempo fu e tutti coloro che sono più cari. La speranza, come la grazia, è abbondante, ma nel percorso del pellegrino è in tal senso un elemento di melanconia, la melanconia della sera e del giorno che muore:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand’ io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: «D’altro non calme».
«Te lucis ante» sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
(Purgatorio VIII, 1-18)
Che quella di Dante fosse davvero un’umanità in cammino – un’umanità gelosa di tutto ciò che è stato raccolto e amato nel corso del viaggio, ma ciò nonostante un’umanità che si avventura – è confermato in modo non meno eloquente da un tardo scambio di sonetti col suo collega, ammiratore e, nel campo della poesia e della poetica, principale beneficiario, Cino da Pistoia, il Cynus Pistoriensis rappresentante della scuola dei postglossatori del diritto romano che culminerà, più o meno una generazione dopo, con Bartolo da Sassoferrato. Da stilnovista, Cino era ed è un caso di rilievo, perché la sua costituì una conferma e insieme una liquidazione del dolce stil novo, un omaggio reso ai principali accenti dello stil novo cavalcantiano e dantesco e tuttavia, nel contempo, l’elaborazione, partendo da essi, di qualcosa di diverso, di più propriamente sentimentale, più accordato alle vicende di un caso particolare, all’amore visto nell’aspetto degli eventi successivi e delle sue mutevoli sensazioni. Esemplare in tal senso è il sonetto Veduto han gli occhi miei sì bella cosa, in cui si riflette finemente la sostanza e la psicologia dello stile della lode dantesco, rivolto però ora alla dolce immaginazione e ai delicati turbamenti d’amore:
Veduto han gli occhi miei sì bella cosa,
che dentro dal mio cor dipinta l’hanno,
e se per veder lei tuttor no stanno,
infin che non la trovan non han posa,
e fatt’han l’alma mia sì amorosa,
che tutto corro in amoroso affanno,
e quando col suo sguardo scontro fanno,
toccan lo cor che sovra ’l ciel gir osa.
Fanno li occhi a lo mio core scorta,
fermandol ne la fé d’amor più forte,
quando risguardan lo su’ novo viso;
e tanto passa in su’ desiar fiso,
che ’l dolce imaginar li daria morte,
sed e’ non fosse Amor che lo conforta1.
E fu il carattere reiterativo, se non esattamente del verso di Cino (perché Dante mostrò anche apprezzamento per il suo stile di compositore di poesie amorose)2, del suo comportamento amoroso in generale, della sua incostanza affettiva, che spiega la nota d’insofferenza che alla fine s’insinua nella loro corrispondenza e che altera le ultime fasi di un rapporto altrimenti cordiale e generoso. Cino, dunque, ansioso di giustificare per quanto possibile un nuovo orientamento dei suoi affetti, aveva sollecitato nel suo sonetto Dante, quando per caso s’abbandona l’opinione dell’amico al riguardo, e questi, a sua volta amante sensibile, gli aveva dapprima risposto benevolmente. Io, gli dice, che ho vissuto con l’amore da quando avevo nove anni, conosco fin troppo bene come esso s’imponga ineluttabilmente; sii pronto, dunque, in questa materia, a seguire il tuo istinto:
Io sono stato con Amore insieme
da la circulazion del sol mia nona,
e so com’egli affrena e come sprona,
e come sotto lui si ride e geme.
Chi ragione o virtù contra gli sprieme,
fa come que’ che ’n la tempesta sona,
credendo far colà dove si tona
esser le guerre de’ vapori sceme.
Però nel cerchio de la sua palestra
liber arbitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco,
e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra,
seguitar si convien, se l’altro è stanco3.
Ma qua e là si coglie una nota di stanchezza, qualcosa che richiama sentieri ben battuti e modi di vedere e di intendere che sembrano ora scivolare nel passato. Questo, come che sia, è il succo del sonetto che conclude la serie, nella fase finale dell’ormai ampia corrispondenza di Dante con Cino, da lungo tempo suo compagno di strada, un sonetto che malgrado renda onore a un sodalizio cementato dalla comune sventura dell’esilio indica un nuovo punto di partenza, un gettar la rete in un’altra direzione:
Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
ché si conviene omai altro cammino
a la mia nave più lungi dal lito;
ma perch’i’ ho di voi più volte udito
che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
piacemi di prestare un pocolino
a questa penna lo stancato dito.
Chi s’innamora sì come voi fate,
or qua or là, e sé lega e dissolve,
mostra ch’Amor leggermente il saetti.
Però, se leggier cor così vi volve,
priego che con vertù il correggiate,
sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti4.
È, quindi, con una sorta di salto quantistico dello spirito che, senza alcun pregiudizio delle sue antiche fedeltà (Cino da Pistoia fra gli altri), Dante si accinge a dar nuova forma e sostanza alla propria esistenza come creatura investita di una suprema responsabilità, affrontando ora la strada solitaria dell’incontro con se stesso, della riconfigurazione di sé e della trascendenza di sé, fasi in cui consiste il significato fondamentale dell’inferno, del purgatorio e del paradiso in quanto strutture di consapevolezza morale e ontologica. Né questo è tutto, poiché avendo ormai tentato, sperimentato e fatto proprio ogni registro espressivo di cui poteva disporre, si trova in una posizione tale da rivolgersi alla forma nella sua totalità come strumento essenziale per chiarire l’oggetto del suo supremo interesse. Un sodalizio, quindi, certamente, poiché l’«intuarsi» e l’«inmiarsi» dell’io e del prossimo sussiste ancora come oggetto di contemplazione e motivo di gioia; ma, nonostante il beneficio che ne consegue, si tratta ora, in verità, di porsi da soli in rapporto a ciò che solamente conta.
2. La Commedia à la lettre.
Giunto a metà della propria esistenza – «in dimidio dierum meorum», come si legge nel versetto 38 di Isaia – Dante sentì di aver smarrito le ragioni della propria umanità, quello scopo definito che conferisce ordine all’esistenza. Costretto a peregrinare e assalito dalle forze del nulla operanti dal profondo del suo essere (la lonza, il leone e la lupa del primo canto dell’Inferno), il poeta si conosce solo nella sensazione da incubo del disorientamento, della paura, dell’inesplicabilità e, quale condizione limite di tutto ciò e di fatto della generale psicopatologia dell’inferno, della disperazione (il «ch’io perdei la speranza de l’altezza» al verso 54). Rinunciando dunque alla possibilità di qualsiasi via di fuga verso i soleggiati altipiani, nel folto della selva oscura incontra l’ombra del poeta Virgilio, cantore a sua volta di un grande viaggio, il quale lo sollecita, poiché è il solo adatto a un tale compito, a intraprendere un triplice viaggio: all’interno della cavità per prendere visione del totale degrado dell’uomo come creatura responsabile sul piano morale ed escatologico, percorrendo le cornici del monte Purgatorio per assistere alla lotta per una riconfigurazione dell’io sul piano dell’amore propriamente umano, e le sfere ruotanti del paradiso per contemplarvi la beatitudine degli eletti nell’immediata presenza del loro creatore. Preda inizialmente di ogni tipo di dubbio sulla saggezza di una tale scelta, ma rassicurato da quanto Virgilio gli racconta di Beatrice, che nel concistoro del paradiso si preoccupa per lui, il poeta pellegrino comincia così la sua discesa; i primi in cui si imbatte non sono gli spiriti rinnegati veri e propri ma a) coloro i quali, essendo in condizione di scegliere, non lo fanno, dandosi invece a una vita indifferente e neutrale, e b) coloro i quali, avendo vissuto prima della rivelazione cristiana o da essa non raggiunti, non avevano avuto per tale motivo possibilità alcuna di scegliere. Da una parte, quindi, vi sono gli ignavi, moralmente indolenti, che certo si sono dati da fare, ma in modo insignificante, e perciò non hanno mai realmente vissuto:
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa m...