Potere e partecipazione
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Potere e partecipazione

Un'esperienza locale di amministrazione condivisa

  1. 120 pagine
  2. Italian
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Potere e partecipazione

Un'esperienza locale di amministrazione condivisa

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Il rapporto tra potere e popolo, governanti e governati, amministrazione e cittadino è profondamente cambiato rispetto al passato, perché la società non è più chiusa in se stessa, ma appare aperta ad affrontare qualsiasi questione in maniera attiva, perciò anche l'amministrazione pubblica deve organizzarsi in modo tale da divenire un'amministrazione dedita all'ascolto delle proposte e del sano confronto.È in questo contesto che la partecipazione dei cittadini sostanzia ed estende la democrazia che si svela in una nuova forma che è la democrazia partecipativa, diversa da quella rappresentativa, perché supera il modello della delega, ma non alternativa, e da quella diretta, in quanto i cittadini non assumono da soli e direttamente decisioni.Si parla dunque di "amministrazione condivisa", definizione, questa, che indica il sistema secondo il quale tra amministrazione e cittadini dovrebbe esistere un rapporto di assoluta collaborazione, affinché tutto proceda per il meglio, nell'amministrazione della "cosa pubblica". L'efficacia del rapporto di collaborazione è data dalla reciprocità e dalla fiducia delle parti, cittadino da una parte, amministrazione pubblica dall'altra, in un contesto in cui il cittadino non è più destinatario passivo dell'azione pubblica, ma risorsa umana ricca di competenze, capacità, esperienze delle quali l'amministrazione pubblica deve far tesoro per governare al meglio il territorio e la stessa comunità. Questo nuovo rapporto tra amministratore e amministrato richiede non solo fiducia, ma anche un comune senso di responsabilità e soprattutto un nuovo modo di partecipare, con assiduità e frequenza, ai processi decisionali che legano l'individuo alla comunità di appartenenza e legittimano l'affermarsi di una sovranità maggiormente partecipata.Il paradosso della democrazia partecipativa consiste però esattamente in questo: ambisce a includere tutti, ma in pratica riesce a coinvolgere solo qualcuno, spesso solo una piccolissima parte della popolazione interessata.Attraverso il racconto di una breve esperienza locale di amministrazione e governo del territorio, questo libro dimostra come il rapporto tra potere e partecipazione realizzi, da una parte, una democrazia aperta, matura e impenetrabile a spinte reazionarie e, dall'altra, un'amministrazione del territorio più chiara, più partecipata e più coesa, che diventa più forte e quindi più incidente sulla vita dei cittadini ai fini dell'assunzione di decisioni condivise.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788861536784

1

POTERE E PARTECIPAZIONE: ALCUNE RIFLESSIONI

1.1 Il potere

Quando si riflette sul potere, si è presi dalla tendenza o dalla tentazione di ridurne l’intera portata al suo “volto demoniaco”. Emblematico è, in tal senso, il libro di Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere (Die Dämonie der Macht), pubblicato nel 1940. Si stava, in quegli anni, al cospetto di una dittatura e di una guerra nelle quali l’“accanimento distruttivo” stava portando l’Europa e il mondo in un abisso senza ritorno. Molto lucidamente Ritter aveva tentato di smascherare le perversioni del potere, ravvisandone le matrici nella “mezza luce crepuscolare”, la morale ambigua di chi non sa decidere “sì, sì; no, no”, ma si permette in ogni situazione una “mutevolezza” di giudizi, che inficiano la prassi e i valori della vita quotidiana (cfr. D’Ambrosio, 2008, pp. 63-66).
A questa visione del potere, largamente diffusa, si connettono altri due atteggiamenti che caratterizzano l’esercizio del potere nei partiti e nelle istituzioni: la distinzione di amico e nemico e, consequenzialmente, l’incondizionata preferenza per il primo e il fanatico rigetto del secondo. Fu Carl Schmitt, ne Il concetto di politico (Der Begriff des Politischen, 1932), a elevare l’energia conflittuale (appunto amico-nemico) a norma dell’agire politico. Da una parte l’amico – politicamente inteso – colui che mi appartiene, colui che condivide valori familiari, sociali e obblighi reciproci; dall’altra il nemico, l’antagonista politico, l’estraneo, lo straniero, l’ospite ostile (cfr. D’Ambrosio, 2011, pp. 196-199).
L’energia conflittuale genera un atteggiamento dicotomico, ipersemplificato e ideologico che reca con sé l’attività dell’etichettare: da una parte, chi è affine a me, in un legame “familistico”, “clientelare” o “simil-mafioso”, qualificato bonariamente anche quando sbaglia e protetto a oltranza nei suoi errori; dall’altra, l’avversario politico, il nemico, sottoposto a un processo di classificazione che lo condanna come incapace di azione politica, come capace di corruzione, come bête noire da tenere a distanza (cfr. D’Ambrosio, 2011, pp. 192-196).
Questo significato “demoniaco” e “ideologico” del potere è talmente diffuso da non essere minimamente contestato, neanche da chi, almeno teoricamente, ne conosce significati alternativi.
Tuttavia, riteniamo che tale significato possa essere ridimensionato o, almeno, meglio compreso al cospetto di una visione più generale.
Norberto Bobbio (1909-2004), noto studioso italiano di filosofia politica, intese collegare strutturalmente la politica alla nozione di potere, ossia alla categoria del dominio di un uomo su un altro uomo (“la capacità di produrre effetti in qualche modo rilevanti, intenzionali e correlati agli interessi dei soggetti coinvolti”: Lukes 1996, pp. 722-745) e ha classificato il potere politico seguendo una definizione di Rousseau: esso è “l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti” (Bobbio, 1983, pp. 826-935).
Ebbene, secondo questa definizione, il potere si caratterizza come una pura “capacità di fatto” di comandare o eseguire quello che un’autorità, cioè una “capacità di diritto”, può giustificare e legittimare. In altri termini, se nell’autorità (una certa figura istituzionale, in forza delle leggi o del consenso popolare) risiede il diritto di dirigere e di comandare, di essere ascoltati e di essere obbediti dagli altri, con il potere si allude alla forza di cui si dispone e grazie alla quale si possono obbligare gli altri ad ascoltare o ad obbedire (Gatti, 2011, pp. 243-248).
Non esiste solo il potere politico, caratterizzato, come sosteneva Bobbio, e prima di lui Max Weber, dal monopolio o possesso esclusivo dei mezzi di coazione fisica, ma anche altri tipi di potere: il potere paterno, di carattere naturale o tradizionale; il potere dispotico o punitivo, quale conseguenza o sanzione di un delitto; il potere economico, che si vale del possesso di certi beni (per esempio i “mezzi di produzione”) per indurre chi non li possiede a una certa condotta; il potere ideologico che si fonda sulla capacità di influenzare con certe idee i propri consociati (membri di uno stesso “gruppo”) o l’opinione pubblica più in generale.
I diversi tipi di potere si servono solitamente di alcuni “meccanismi” che possono essere così individuati: l’uso della forza, che consiste nell’escludere possibilità alternative, riducendole nel caso limite a una sola, al fine di ottenere un certo scopo; la coercizione, ossia la capacità di ottenere il conformarsi degli altri alla nostra volontà, facendo ricorso a minacce o sanzioni; la manipolazione, che per un verso è indurre l’altro (allettandolo o corrompendolo) a modificare i propri desideri e a conformarli ai nostri, e per altro verso è influire sulle altrui credenze e preferenze mediante l’autorevolezza, o mediante la persuasione razionale, intesa come comunicazione della propria verità agli altri.
L’inquadramento appena proposto denota una tendenziale connotazione di volta in volta “persuasiva” o “violenta” del potere, quale esercizio di un “dominio” sull’altro.

1.2 Potere, nonviolenza e bene comune

Eppure, esiste una lettura alternativa del potere, incastonata all’interno della riflessione antropologica, pratica e pedagogica sulla nonviolenza (cfr. Dolci, 1974; Martin, 1990). Essa propone un meccanismo di tutt’altra natura, non più fondato sul dominio più o meno esplicito di uomo su uomo, ma riassumibile nella coesistenza dei seguenti principi: “nessuna violenza” (rinuncia al potere come dominio) e “il proprio potere” (il potere come affermazione delle proprie capacità individuali e originali) (cfr. Patfoort, 1988, pp. 4-7).
Il valore politico del principio nonviolento, lungi dall’essere inteso come pura passività, si coniuga con una concezione dell’uomo e della società fondata sul principio partecipativo, dialogico e universalistico.
Di qui si apre un varco verso una concezione più positiva del potere, dalla quale potremo trarre i lineamenti della partecipazione, quale fattore di azione e di cambiamento della realtà.
Nella sua analisi sulla fine dell’epoca moderna, il filosofo e teologo Romano Guardini (1885-1968) individuò i due fattori fondamentali del potere in una “energia, capace di modificare la realtà delle cose” e in una “coscienza che ne sia consapevole” (Guardini, 2015, p. 118).
Da questo punto di vista si potrebbe dire, parafrasando parole bibliche e senza temere di essere fraintesi: “In principio sta il potere” (cfr. Giussani, 2009, p. 10). Pertanto, chi detiene il potere o lo ha ricevuto o lo ha conquistato, ma in tutti e due i casi il potere gli proviene da altro (D’Ambrosio, 2008, pp. 18-28). Se colui che lo detiene riconosce che gli proviene da Dio, allora esso è riconosciuto come “mite”, non contempla alcuna sfrenatezza e viene esercitato con uno stile responsabile e promozionale del bene comune (D’Ambrosio, 2008, p. 19). Qui, peraltro, in questa dipendenza o “appartenenza all’Altro”, colui che esercita il potere trova il suo vero “destino”, che è un “destino comune” e non un destino di solitudine o di autoreferenzialità (cfr. Giussani, 2009, pp. 20-22).
Conseguentemente, colui che vive questa dimensione positiva del potere sa orientare le sue risorse alla realizzazione del bene comune. Non è facile identificare il “bene comune” in una società pluralistica e fondata in prevalenza sugli interessi egoistici. Bisogna, invero, evitare la tendenza sia all’ingenua assolutizzazione del bene comune, sia alla sua riduzione alla somma degli interessi particolari.
Il rapporto tra potere e bene comune è un rapporto dinamico, fondato sulla varietà e mutevolezza dei beni e sull’approssimazione a realizzarli per tutti. Potremmo, aristotelicamente, definire il bene comune come il realizzare se stessi, in quanto singoli e in quanto umanità, sopra e contro la minaccia del non-essere (cfr. D’Ambrosio, 2008, p. 52). Con altre parole, il bene comune è “l’insieme delle condizioni della vita sociale, che permettono ai singoli come ai gruppi di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (Gaudium et spes, 1965, n. 26; cfr. anche il n. 74, che individua tredici cose necessarie che costituiscono il bene comune: il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a scegliere liberamente il proprio stato di vita e a fondare una famiglia, il diritto all’educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della propria coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà).
Quando chi detiene il potere, lo radica sulla appartenenza a un Altro – al Mistero – allora costui sa orientare tale capacità di cambiamento non all’interesse proprio e dei propri affiliati (sodali, clientele, partiti) ma al bene comune, al bene di tutti e di ciascuno.
Quando invece chi detiene il potere non riconosce che esso gli proviene da altro, allora il suo esercizio può degenerare in forme autoreferenziali, idolatriche e ideologiche (D’Ambrosio, 2008, p. 31).
Questa consapevolezza dell’origine del potere e delle degenerazioni del potere consente, in ultima istanza, di giudicare i momenti più difficili e delicati dell’esercizio del potere all’interno delle istituzioni politiche, persino la decisione delicatissima delle dimissioni: un atto egoistico o una scelta altruistica? Un atto di debolezza o di coraggio? Se chi detiene una responsabilità o un potere riconosce che esso gli deriva da altro, allora egli può tener conto anche della possibilità, gravissima, della “rinuncia”: “il potere dimostra la sua grandezza nella rinuncia al potere” (Ratzinger, 1967, pp. 170-171).
In altri termini, nell’esercizio di una libertà consapevole e responsabile può manifestarsi una delle più alte forme di potere.

1.3 La partecipazione

La partecipazione in politica è costitutivamente connessa al potere, o non è partecipazione.
Il filosofo e politologo tedesco Eric Voegelin (1901-1985) lo ha spiegato chiaramente: la metaxý, termine greco che sta per “partecipazione”, designa lo stare tra la vita e la morte, la perfezione e l’imperfezione, l’eternità e il tempo. La condizione umana e quella sociale risiedono proprio nel situarsi, e nel dover scegliere, tra l’ordine e il disordine, la verità e la menzogna, il bene e il male, l’interesse privato e il bene comune. Chi nega la metaxý, la partecipazione, cade in una rivolta egofanica, cioè in un’esperienza di sovrabbondanza dell’Io, che nega, di conseguenza, qualsiasi valore comunitario e teofanico – l’appartenenza a Dio – dell’Io stesso (cfr. D’Ambrosio, 2008, p. 31).
Da un punto di vista empirico “partecipare” vuol dire “uscire dal particulare” e adoperarsi per qualcosa che trascende i propri diretti e immediati interessi. Le condizioni necessarie a una partecipazione sociale sono:
1) il superamento della distanza tra individui, ovvero l’aggregazione, e il superamento di situazioni di individualismo ed esclusione;
2) la riduzione dei rapporti di subordinazione, mediante una dislocazione o distribuzione del potere, ovvero l’uguagliamento.
Inoltre, mentre la partecipazione sociale è rivolta alle organizzazioni e alle associazioni della società civile (azienda, scuola, ospedale, mass media, ecc.), la partecipazione politica è mirata alla polity, cioè allo Stato e alle istituzioni e organizzazioni politiche (Parlamento, partiti, voto, referendum, ecc.) (cfr. Sani, 1996, pp. 502-508; Ceri, 1996, pp. 508-511).
La Costituzione italiana riconosce ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). La funzione dei partiti politici va dalla strutturazione del voto (campagne elettorali e organizzazione competitiva), all’integrazione, mobilitazione e partecipazione degli iscritti e dei cittadini alla polity (sistema di governo delle istituzioni pubbliche), al reclutamento del personale politico, all’aggregazione di interessi politici, alla programmazione politica o formazione delle policies, cioè delle politiche dei governi (Bartolini, 1996, pp. 516-532).
È noto, tuttavia, che i livelli di partecipazione politica in Italia sono estremamente bassi. Se chi parla di politica o si informa di politica (tramite TV, internet e giornali) supera il 70% della popolazione italiana, chi invece partecipa a comizi, svolge attività gratuita per un partito o versa soldi ai partiti non tocca il 10% (cfr. Istat, La partecipazione in Italia, 2013).
Questi bassi livelli di partecipazione politica a detta di alcuni sono “fisiologici” e difficilmente modificabili (per cui bisogna accontentarsi di inserirsi in uno dei canali partecipativi tradizionali e noti); per altri, invece, il deficit di partecipazione democratica dimostra la perfettibilità delle democrazie contemporanee: una maggiore e migliore partecipazione renderebbe i cittadini più informati, più competenti, capaci di limitare le pressioni lobbistiche o le forme partitocratiche e di dare voce a settori di popolazione altrimenti “muti” (cfr. Cotturri, 2005).
Qui ritroviamo, secondo una prospettiva empirica e “dal basso”, la legittimazione dell’attivismo civico o cittadinanza attiva come esercizio di poteri e responsabilità dei cittadini nella vita quotidiana della democrazia (cfr. Moro, 1998; Fondazione della Cittadinanza attiva, www.fondaca.org).
Esso ha molte e differenti forme: le organizzazioni di volontariato, i gruppi di auto-aiuto, i movimenti di base, le organizzazioni di tutela. Anche gli obiettivi sono vari: ambiente, esclusione sociale, salute, educazione, cultura, sviluppo locale, cooperazione internazionale, ecc. E pure le azioni concrete sono molteplici: ad esempio creare e animare centri di accoglienza per stranieri, organizzare servizi di strada per recupero tossicodipendenti, lottare contro l’abusivismo edilizio, promuovere commercio equo e solidale, dare assistenza legale, psicologica e materiale alle vittime di reati, eccetera.
I soggetti di tali azioni sono i cittadini comuni che investono tempo, risorse, conoscenze ed energie. Ora, secondo il nuovo modello di amministrazione condivisa, fondata su un paradigma pluralista, paritario e circolare, i cittadini non sono strumenti dell’amministrazione, ma suoi alleati. Il rapporto tra autorità (politici e amministratori) e cittadini non è più asimmetrico, ma fondato su trasparenza, rispetto reciproco e collaborazione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118 Cost.).
Mentre la forma t...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Presentazione di Rocco D’Ambrosio
  3. Prefazione
  4. 1. Potere e partecipazione: alcune riflessioni
  5. 2. Forme del potere e della partecipazione: decentramento e autonomia amministrativa
  6. 3. Prove di amministrazione condivisa: la Prima Circoscrizione di Bari dal 2009 al 2012
  7. 4. Partecipazione pubblica e governo del territorio
  8. Conclusioni
  9. Postfazione di Gaetano Veneto
  10. Bibliografia