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In questo numero: · Quanto costa la mediazione?· Mediazione in sanità· La giustizia per riparare o per sanare?· Sindrome da Alienazione Genitoriale· Per una convivialità delle differenze Con gli scritti di: A. Chmieliski Bigazzi, I.C. Iglesias Canle, A. Cimmino, P. Conese, V. Delle Foglie, A. Coppola De Vanna, A. Fanigliulo, M.R. Fascia, A. Fornasari, G. Gallone, I. Grattagliano, S. Ingrosso, S. Legrottaglie, N.D. Liantonio, M. Palmisano, G. Pisapia, R. Porfido, A.L. Tocco, D. Torelli, G. Tramontano, V. Trombini, G.M. Valenti

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788861533189

Dossier del mediatore

Visioni alternative della giustizia riparativa?

Gianluca Tramontano*

1. Premessa

Dalle prime riflessioni intorno alla giustizia riparativa della seconda metà degli anni Settanta1 c’è stato un aumento considerevole della ricerca e delle pubblicazioni su tale argomento, tanto da spingere una delle voci più accreditate in tale ambito, Catherine Daly2, ad affermare che mai nessuna altra pratica di giustizia abbia interessato tanti ricercatori e fatto produrre tante pubblicazioni in un periodo così breve di vita. Nel breve lasso di tempo che va dalla fine del 2006 agli inizi del 2007, ad esempio, sono stati pubblicati addirittura tre manuali sulla giustizia riparativa: uno a cura di Johnstone e Van Ness3, uno a cura di Sullivan e Tifft4 e uno pubblicato dall’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite5. Quest’ultima pubblicazione testimonia come il tema della ricomposizione privata dei conflitti sia diventato di interesse non solo dei professionisti del settore o dei ricercatori, ma anche delle istituzioni e della politica internazionali6.
Nel corso degli anni diversi studiosi si sono impegnati nella ricerca dei presupposti che hanno favorito la nascita e lo sviluppo della giustizia riparativa, sottolineando al contempo la difficoltà di isolarne uno in particolare. Non è oggetto del presente contributo analizzare tali presupposti, ma potrebbe essere utile almeno richiamarne alcuni che hanno certamente fatto parte delle «origini frastagliate dell’idea»7 e, seguendo del resto le indicazioni di una letteratura piuttosto vasta8, molto più concretamente, rintracciare alcune istanze, molto spesso anche difficili da conciliare tra loro, che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del paradigma riparativo.
Sicuramente ha avuto un ruolo determinante l’insoddisfazione nei confronti del sistema penale; come ci ricorda la Vianello:
Primo motivo ispiratore del nuovo modello sembra essere la consapevolezza dell’inefficacia dei sistemi di giustizia penale fondati su politiche di deterrenza o su programmi di riabilitazione: il paradigma compensatorio intende opporsi da subito all’idea della sanzione come unica risposta possibile al fenomeno criminale e alla confusione operata dal modello riabilitativo tra prevenzione, rieducazione e repressione, proponendo quale obiettivo irrinunciabile dell’intervento penale la restaurazione del legame sociale attraverso la riparazione del danno subito dalla vittima9.
Secondo Barton10 quelli che si pronunciano in favore di una risposta riparativa ai comportamenti violenti, piuttosto che a una risposta giuridica, solitamente giustificano la loro posizione partendo dal fatto che la giustizia penale è interessata solamente (o soprattutto) alla retribuzione e che, quindi, retribuzione e giustizia riparativa non sono compatibili. Afferma anche che la «deterrenza non è deterrente» e che la filosofia retributiva non riesce a controllare la crescita vertiginosa dei tassi di criminalità in molti paesi del mondo e che, quindi, il fallimento della giustizia criminale, richiede la ricerca di un’alternativa.
Altro presupposto è stato individuato nelle ricerche antropologiche.
Weitekamp, ad esempio, nel suo The History of restorative Justice, guarda alle origini antropologiche della giustizia riparativa e afferma che la giustizia riparativa sia esistita in quelle che lei chiama «società acefale» (non statali) o le prime «città stato». Weitekamp sostiene che alcuni dei programmi di giustizia riparativa siano davvero molto antichi. Queste le sue parole:
Forme antiche di giustizia riparativa sono state usate da società antiche e dalle prime forme di esseri umani. Gli indigeni, come gli Aborigeni, gli Inuit o gli Indiani nativi americani, hanno usato le Family Group Conferences o i Circles. Suona un po’ ironico che noi che viviamo in questo secolo dobbiamo tornare indietro a metodi e forme per la risoluzione dei conflitti che erano utilizzati qualche millennio fa11.
Allo stesso modo John Braithwaite12 afferma che la giustizia riparativa è stata considerata come lo sviluppo maggiore del pensiero giuridico dagli antichi arabi, dai greci e dai romani che la utilizzavano anche per i casi di omicidio. Fornisce esempi degli approcci riparativi nelle pubbliche assemblee dei popoli germanici che attraversarono l’Europa dopo la caduta dell’impero romano, degli indiani della civiltà Vedic (6000-8000 a.C.), delle tradizioni buddhiste, taoiste e confuciane.
Altra istanza alla base della nascita del modello riparativo di giustizia è la riconsiderazione del ruolo delle vittime. Come osserva Gianluigi Ponti:
Si sono accumulati nel corso degli ultimi vent’anni grossi debiti nei confronti delle vittime: debiti che la società non ha ancora onorato: e ciò è tanto più increscioso in quanto il debito era da pagarsi nei confronti di chi, essendo vittima di un reato, ha già subito un grave torto13.
Quest’osservazione nasce dalla constatazione del ruolo marginale della vittima, rimasta per molto tempo estranea agli interessi della dottrina penalistica, la quale ha sempre concentrato la sua ricerca sulla figura del delinquente. Infatti, sia la Scuola Classica che quella Positiva hanno trascurato la figura del soggetto passivo del reato.
Nelle teorizzazioni della Scuola Classica non c’è posto per la vittima del reato, poiché essa parte dal presupposto che il reato è un’offesa nei confronti dello Stato; mentre in quelle della Scuola Positiva l’assenza di qualsiasi riferimento alla vittime è dovuta alla centralità dell’indagine sulla personalità del delinquente, finalizzata al recupero del reo.
L’insoddisfazione rispetto ai modelli di giustizia penale precedenti a quello riparativo è anche all’origine della diffusione in Europa e negli Stati Uniti dei movimenti abolizionisti, le cui tesi molto radicali non sono state accolte, ma hanno comunque influenzato molti movimenti in favore delle vittime diffusisi in quel periodo. Solitamente, all’interno dei movimenti abolizionisti, si individuano due correnti: 1) l’abolizionismo radicale, che propone una profonda trasformazione del modo di concepire la pena e che individua nel sistema penale le cause stesse della criminalità, e per questo motivo ne chiede l’eliminazione e 2) l’abolizionismo istituzionale, che pur non intendendo rinunciare al sistema di giustizia penale, richiede però l’abolizione di tutte le istituzioni totali.
A proposito di quest’ultimo orientamento Eusebi scrive:
Ove non intenda, invece, negare aprioristicamente almeno un certo grado di autonomia del fenomeno criminale rispetto ai meccanismi ascrittivi del sistema punitivo, l’altro orientamento disponibile all’abolizionismo [quello istituzionale] per escludere la legittimità del ricorso al diritto penale è quello di disconoscerne, in qualsiasi caso, l’utilità preventiva: la pena assumerebbe, come si è sostenuto, un mero carattere declamatorio e rituale, del tutto inincidente, se non nei termini di un incremento della sofferenza, sulla diffusione della criminalità14.
Probabilmente, da quest’ultimo orientamento prese ispirazione il modello riparativo. Infatti questo, come osservano Ciappi e Coluccia:
Fa propria l’esigenza di sopperire ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla sanzione come risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello riabilitativo, che spesso confonde le reali esigenze della prevenzione con quelle della repressione, le ragioni della scienza con le ragioni del potere e dimostratosi inefficace15.
Anche alcune idee basate sulla religione sono state considerate nella spiegazione dell’emergere e dello sviluppo della giustizia riparativa. Chi ha insistito su tale aspetto ritiene che la giustizia riparativa riveste un ruolo centrale in tutte la maggiori religioni del mondo.
Ad esempio, McLaughlin nota che le ingiunzioni cristiane al pentimento, al perdono, ad «odiare il peccato e non il peccatore», a «non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facciano a te», sono tutte presenti nella visione della giustizia riparativa. I principi come la riconciliazione, la riparazione e la guarigione sono evidenti, sempre secondo McLaughlin, nelle religioni e soprattutto in quella cristiana. Allo stesso modo, questi ricercatori, affermano che anche l’islamismo incoraggia la riconciliazione, la negoziazione, la compensazione e la criminologia pacificatrice.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, di come l’influenza della religione (specialmente quella cristiana) possa essere ritrovata nei lavori di autori come Consedine16, Zehr17, Wright18 e in quelli di molti altri protagonisti del dibattito contemporaneo sulla giustizia riparativa.
E potrebbe anche essere che per questa ragione università come quella Cattolica di Leuven (dove insegna Ivo Aertsen), o la Eastern Mennonite University in Virginia (dove insegna Howard Zehr ) o la Fresno Pacific University, investono così tanto per finanziare ricerche sui programmi di giustizia riparativa.
In ultimo, un aspetto collegato allo sviluppo della giustizia riparativa ruota intorno al concetto di restitution19. Se le istanze dei victims’ movements invocavano un ampliamento del ricorso a forme di risarcimento a favore della vittima, l’approccio incarnato dalla restitution vuole fare del risarcimento il fine stesso della risposta punitiva al reato, facendogli perdere quella che nel diritto penale attuale è la sua «funzione ancillare» rispetto alla pena, sostituendola completamente a questa.
Van Ness e Strong hanno provato a riassumere i principali argomenti su cui si fonda la proposta del movimento per la restitution:
I) la vittima è il soggetto autenticamente colpito dal reato;
II) sono necessarie forme di pena meno intrusive, e comunque alternative al carcere;
III) richiedere all’autore di reato di risarcire la vittima può avere un effetto riabilitativo;
IV) la restitution è relativamente facile da ottenere e garantire (ad esempio attraverso azioni esecutive);
V) un adeguato risarcimento, reso in modo pronto e visibile, riduce istanze «vendicative» da parte di vittime e società civile20.
Il collegamento tra la restituzione e la giustizia riparativa non è sbagliato, in quanto la restituzione è spesso una parte importante nelle pratiche di giustizia riparativa. Ma la restituzione e la compensazione assumono lo stesso significato di quello che rivestono nella giustizia penale?
È bene forse soffermarsi brevemente sul significato di «restituzione» nel contesto del paradigma riparativo. Questa chiarificazione risulta necessaria anche perché all’interno del dibattito contemporaneo sull’efficacia e sulla originalità della giustizia riparativa, alcuni studiosi scettici intorno a queste caratteristiche sostengono che «la giustizia riparativa non è altro che il principio della compensazione per un torto subito». Questa argomentazione tende a considerare come riparative tutte le alternative alle sentenze penali che prevedono tra i propri esiti la compensazione. Ci sono però delle importanti distinzioni da fare. Llewellyn and Howse, ad esempio, affermano che la restituzione può essere utile al raggiungimento di diversi obiettivi all’interno del sistema penale, ma che tale restituzione non è affatto riparativa21.
Nella giust...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Editoriale di Anna Coppola De Vanna
  3. Studi e ricerche Andrea Chmieliski Bigazzi
  4. Maria Rosaria Fascia, Viviana
  5. Andrea Cimmino L’indennità di mediazione
  6. Alberto Fornasari Il doppio sguardo
  7. N.D. Liantonio, S. Ingrosso, S. Legrottaglie
  8. Dossier del mediatore Gianluca
  9. Itinerari del diritto Inés C.
  10. Rubriche Interdefinizione
  11. Biblioteca Anna Coppola De Vanna Un magistrato ispirato.
  12. Contiguità Donato Torelli
  13. Storie Anna Laura Tocco Pane, amore e mediazione