Piccolo Manuale di Storytelling o del Raccontare con la Voce
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Piccolo Manuale di Storytelling o del Raccontare con la Voce

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Piccolo Manuale di Storytelling o del Raccontare con la Voce

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Informazioni sul libro

Uno strumento per capire e praticare l'arte della narrazione orale. Abbiamo bisogno di narratori e narratrici di questo tempo, per ricucire i fili che ci legano alle generazioni passate e per tessere i legami tra le persone nelle comunità di oggi. Siamo tutte e tutti storytellers, non occorre aspettare di avere le rughe. Ma c'è un metodo e una disciplina. Raccontare è il modo più sicuro, duraturo ed ecologico di lasciare la nostra buona impronta sulla terra.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9791280385000

Il repertorio

Nel costruire il proprio repertorio, ci sono tanti metodi, ma nella scelta c’è solo un principio fondamentale: le storie che scegliete di raccontare vi devono piacere, tanto che non vedete l’ora di raccontarle, siete impazienti di poterle trasmettere, ritenete che siano così preziose che sarebbe un peccato lasciarle mute sui libri o negli archivi. La narrazione di storie tra gli Homo sapiens è nata proprio così, da qualcuno che diceva all’altro: “Questa te la devo proprio raccontare!”.
Con il tempo sentirete che non siete voi a scegliere le storie, ma loro a scegliere voi. Vi si presenteranno come i sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, chiedendovi con insistenza di essere raccontate. A volte ci sono fiabe bellissime, che però rimangono inerti sul libro, in attesa. Altre, con quell’aria da niente, novelline quasi insignificanti che invece, nella narrazione, si trasformano in creature alate.
Il vostro personale repertorio andrà lentamente a formarsi e parlerà di voi, rivelerà chi siete, molto più di quanto immaginiate. Perciò prendetevela comoda, non forzate, lasciatevi guidare dalle storie. Non rischiate di raccontare delle storie di cui non siete (ancora) perfettamente innamorati/e.
Secondo principio per la selezione delle storie: le fiabe delle Mille e una Notte sono affascinanti, ma non è il vostro mondo. Partite da storie vicine a voi, al vostro contesto o meglio al vostro vissuto. La narrazione deve avere radici. E a volte siamo seduti sopra dei tesori senza mai scoprirli.
Poi pian piano sarete anche in grado di affrontare storie provenienti da culture diverse. È solo un consiglio, ma vale sempre la prima regola: se quella storia vi piace così tanto, anche se proviene da un mondo lontano, iniziate pure con quella!
È lecito appropriarsi di storie che non appartengono alla nostra cultura? Questo è un dibattito aperto tra gli storytellers professionisti. Soprattutto se pensiamo a bianchi europei farsi interpreti di storie che appartengono ai nativi americani o agli aborigeni australiani.
È una questione molto delicata che non posso affrontare in questo piccolo manuale, ma che va tenuta presente. Nella scelta dovremmo evitare di essere interpreti di storie che non ci appartengono, semplicemente perché vogliamo trasformarci in portavoce di quel determinato popolo. Noi possiamo raccontare in modo credibile solo se quelle storie ci appartengono, se quella storia ci parla in modo particolare e personale, e ci sollecita a raccontarla.
Quando decido di affrontare questi repertori, dovrei fare un profondo esame del perché. Perché racconto queste storie?
È vero che per i miti (e in genere tutti i racconti popolari) la formula traduttore-traditore tende a zero, come diceva Lévi-Strauss40, cioè si lasciano tradurre senza troppe difficoltà nelle altre lingue, tuttavia non per questo dobbiamo comunque essere superficiali rispetto alla cultura originaria della storia: ci sono concetti che sono difficilmente traducibili. Perciò se decidiamo di essere gli storytellers di racconti dei nativi americani, per esempio, significa che non solo abbiamo studiato molto a fondo la loro cultura, la loro Storia e ne abbiamo compreso i caratteri, ma ancora meglio abbiamo avuto contatti diretti, abbiamo trascorso qualche periodo con loro, abbiamo quanto meno stabilito dei legami con una delle loro comunità o “Nazione” (percorso molto lungo e arduo per noi “visi pallidi”!).
È vero che le storie hanno sempre viaggiato liberamente in tutto il pianeta. Ma, nella trasmissione orale, queste storie avevano il tempo di depositarsi in un nuovo paese, di adattarsi in una nuova lingua, e altri narratori le riprendevano in una forma nuova per poi trasmetterle a loro volta e così via. Nel nostro mondo, mi basta connettermi sulla rete per trovare una bella leggenda dei Navajo sull’origine del mondo. Mi bastano pochi minuti e poi la posso raccontare a mia volta in un contesto del tutto diverso. Viene a mancare il tempo dell’attesa, della gestazione, della lievitazione. Tutto quel tempo che impiegava una storia per passare da un narratore ad un altro, attraverso il viaggio sulle piroghe, nelle carovane, nelle piazze dei mercati.
“Le storie, bisogna avere il tempo di sognarle”
(Un vecchio narratore francese, in N. Belmont Poétique du Conte)
Dovremmo evitare nella pratica dello storytelling la nostra atavica mania di colonizzare le culture di altri popoli, ma anche i concetti e le idee di altri con le nostre lingue dominanti. Perciò c’è da fare uno studio approfondito anche sul lessico, alcune parole si manterranno nelle lingue originali, per l’intraducibilità del concetto nella nostra lingua.
Cerchiamo di partire dalle storie a noi più vicine in termini culturali per poter poi spostarsi ad altri ambiti, quando avremo più padronanza dell’arte dello storytelling. Cerchiamo tra le fiabe o racconti popolari della nostra regione, per esempio, o dei racconti del nostro quartiere/comunità per poi confrontarli con altri provenienti da altre culture e paesi diversi.
Cercate tra le storie registrate nelle lingue locali. Spesso sono testi dell’Ottocento: è bella anche questa parte della ricerca, da condurre nelle biblioteche e negli archivi. Ci sono anche delle ottime ricerche svolte a livello locale dalle scuole, soprattutto scuole primarie e secondarie di primo grado.
Non sempre riusciamo a risalire alla fonte originaria di una storia. In questo,la rete di internet purtroppo non aiuta, perché spesso (non sempre, per fortuna), si riportano racconti popolari senza indicarne la fonte, e purtroppo ciò coincide anche con versioni poco accurate, con errori evidenti, ecc. Quindi, meglio fare sempre riferimento a fonti attendibili.
Come storyteller avete la responsabilità di mantenere la filiera, siete degli anelli, bisogna ricordare chi ha contribuito alla trasmissione, che sia un narratore o un raccoglitore. Bisogna tramandare anche il modo in cui quella storia è arrivata fino a noi. Ciò è importante da un punto di vista filologico, ma anche da un punto di vista etico: in questo modo si mantiene la memoria del percorso, della migrazione della storia, e si può intravedere la meravigliosa mappa di una comunità spirituale riunita intorno ad una semplice storia.
Tutti i grandi storytellers rispettano spontaneamente questa regola. Ricordano sempre da chi hanno imparato la storia che stanno raccontando, anche se ne raccontano una interpretazione personale.
Nella costruzione di un repertorio possiamo scegliere di mettere insieme delle storie che semplicemente amiamo raccontare, senza che ci sia un legame specifico tra l’una e l’altra. Possiamo raccontarle singolarmente in varie occasioni, per esempio durante riunioni con altri storytellers o in situazioni dove abbiamo a disposizione solo pochi minuti.
Se invece abbiamo a disposizione un tempo più lungo possiamo raccontare più storie in una performance. In questo caso sarebbe utile dare una coerenza al tutto, magari con l’introduzione di una “storia cornice” che le tiene insieme. La storia cornice in genere determina la ragione per cui scaturisce la narrazione, se pensiamo alle Mille e una Notte e al Decameron, per ricordare le due più famose.
Oppure organizzeremo le nostre storie su un tema ben definito, “storie della volpe”; “storie di ragazze coraggiose”; “storie dell’orco stupido”, “storie della mia terra”, e così via.
In questa scelta, cioè nel cercare di dare una continuità tematica tra le storie, c’è sicuramente un impegno maggiore nella ricerca e nella costruzione del palinsesto, dovendo in qualche modo agganciare le storie l’una all’altra e dare una coerenza al tutto. Ma è un lavoro che vi ricompenserà della fatica.

Storie di paura

I racconti popolari, nelle loro versioni naturali, sono intrisi di sangue, schifezze e elementi coprolalici, cacca insomma! Poi, quando diventano prodotti editoriali, vengono ripuliti, riordinati e imbellettati.
Arrivano così alle menti dei bambini, spesso, dei racconti che hanno perduto i loro elementi naturali di ferocia e sporcizia, i quali poi, però, i nostri bambini ritroveranno nella vita vera, senza sapere come affrontarli o anche soltanto nominarli. Così, si ricorrerà ad integratori. È esattamente ciò che succede con l’alimentazione, sempre più povera di fibre naturali, che poi siamo costretti a reintegrare artificialmente in farmacia.
Con i bambini oggi si tende ad evitare le versioni originali di storie anche molto famose, e che, solo qualche generazione fa, facevano parte del normale curricolo scolastico e persino prescolastico: la fiaba di Barbablù è il caso più noto, ma anche altre fiabe come Cenerentola nella versione dei fratelli Grimm, amputata del motivo che mette in scena il taglio del piede e la traccia di sangue che lascia per terra.
“I profondi conflitti interiori che traggono origine dai nostri impulsi primitivi o dalle nostre violente emozioni sono tutti negati in gran parte della moderna letteratura per l’infanzia, e quindi il bambino non viene aiutato ad affrontarli. Ma egli è soggetto a disperate sensazioni di solitudine e d’isolamento, e spesso soffre di un’ansia mortale. Il più delle volte, è incapace di esprimere questi sentimenti a parole, o può farlo soltanto in modo indiretto: paura del buio, o di qualche animale, ansie circa il suo corpo. Riconoscere queste emozioni nel proprio figlioletto è motivo di disagio per un genitore, e quindi egli tende ad ignorarle, oppure minimizza queste paure come espressione della propria ansia, credendo di poter coprire in questo modo le paure del bambino.
La fiaba, invece, prende molto sul serio le ansie e i dilemmi esistenziali e s’ispira direttamente ad essi: il bisogno di essere amati e la paura di non essere considerati, l’amore della vita e la paura della morte. Inoltre, la fiaba offre soluzioni in modi che il bambino può afferrare in base al proprio livello intellettivo”
(Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 16)
La scelta delle storie e come raccontarle, che cosa lasciare delle versioni originali e che cosa modificare, sta tutta nelle mani dello storyteller. In questo, anche, consiste la sua arte.
Costruire diversi repertori che possano adattarsi a diversi uditori, ma senza andare agli eccessi del marketing, cioè focalizzandosi su un “target”. Eviterei anzi queste parole, le parole sono importanti. Pensiamo a degli ascoltatori, piuttosto, o a dei destinatari. Lasciamo anche la possibilità di disturbare, di far esprimere il “perturbante”, che c’è nella mente di tutti, anche dei bambini piccoli, e che non si dovrebbe negare, lasciamo la possibilità di causare esperienze in qualche modo nuove, non solo di piacere, di bellezza e poesia, ma anche di buio, di orrore, di vera paura. La fiaba, nel suo procedere ordinato e già tracciato, metterà ordine nel caos di pulsioni che lottano nel regno dell’infanzia.
Il segreto sta in quella relazione tra lo storyteller e i suoi ascoltatori, dove si entra in una sintonia tale da sentire le reciproche vibrazioni, e scegliere fino a che punto spingersi e dove è meglio suggerire, piuttosto che dire.
Ricordo due testimonianze a proposito dei racconti di paura: una partecipante, ricordando le lunghe narrazioni serali con storie paurose, osservò che però si tremava tutti insieme, non da soli, e questo fatto allenava al coraggio. Un’altra partecipante disse che nell’ascoltare una narrazione, la sua mente immaginava un orco terribile tanto quanto la sua mente poteva sopportare. Mentre in una visualizzazione che viene dall’esterno si impone un’immagine che può essere violenta per la mente di un bambino, perché è oltre ciò che può sopportare.

A proposito del significato delle fiabe

Ho già scritto che l’interpretazione delle fiabe non è argomento di questo manuale. Lascio solo una breve riflessione su un tema infinito. Che cosa vuol dire questa fiaba? A volte il significato è chiaro ed esplicito, più spesso siamo di fronte a immagini enigmatiche, oscure, ambigue. Quale sia il suo significato profondo non è immediatamente evidente. Non è certo quella giustapposizione di origine letteraria e di epoca recente introdotta da Charles Perrault alla fine dei suoi testi. Perrault nel ‘600 scrisse una piccola raccolta di fiabe che divenne per secoli il solo, o quasi, riferimento per questo genere e ancora oggi costituisce un classico. Ebbe l’abilità di sintetizzare un materiale popolare costituito da migliaia di varianti, multiforme e continuamente cangiante. In più scrisse la sua opera per un destinatario molto preciso, che era la corte del Re Sole. Ancora, vi aggiunse la sua “moralité”, con cui sanciva quale fosse l’insegnamento pedagogico di quelle fiabe. Privando così il testo di tutta la sua potenza recondita, che ci proveniva da secoli di trasmissione orale, e applicando una sua interpretazione che serviva ai costumi dell’epoca.
Le fiabe popolari autentiche sono naturalmente cariche di insegnamenti morali e pedagogici, ma non esplicitano una morale, lasciano piuttosto che l’ascoltatore mediti per suo conto e con i suoi tempi. Vedremo più avanti, invece, le formule di apertura e le formule di chiusura della narrazione tradizionale.
Il significato profondo delle fiabe lo capiamo man mano che ripetiamo, che scopriamo le diverse varianti, e poi con la narrazione davanti ad un uditorio: più raccontiamo una storia, più questa ci si rivela. Non solo, ma la stessa storia in epoche diverse della nostra vita può rivelare significati diversi.
Una narratrice (Gesuina Mele di Anela in Sardegna, una grande maestra), mi disse: “Io queste storie le racconto così come le ho imparate da mio padre e mio nonno. Certo, ci penso e rifletto molto a ciò che vogliono dire, ma è un mio pensiero, non lo dico mai agli ascoltatori. Io racconto solo la storia, poi chi ascolta troverà il suo significato”.
Come narratori e narratrici, interpreti di un patrimonio universale, evitiamo di dare, di imporre interpretazioni personali. Lasciamo che la storia parli a noi e agli ascoltatori, anche con messaggi diversi, inattesi. Ciò non significa che dobbiamo limitarci solo al racconto puro e semplice della storia, ma anzi è molto efficace circondarla da una sorta di “peritesto” che la racchiude, come avvolgiamo i doni in una bella carta colorata. Creiamo l’attesa con alcune informazioni o domande che lasciamo aperte, sugge-riamo ed evochiamo ciò di cui si parlerà. Al termine possiamo aggiungere da chi abbiamo imparato quella storia e in che contesto, o spiegare perché ci piace raccontarla, e così via. Evitando di dare invece una spie...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Sommario
  5. Introduzione
  6. Per chi
  7. Perché?
  8. Quanto è antica l’arte del raccontare
  9. Ascoltare
  10. Ciò che si perde
  11. L’improvvisazione
  12. Contesti e occasioni del narrare
  13. Il repertorio
  14. Tecniche della performance orale
  15. Costruire gruppi e comunità di storytellers
  16. Conclusioni
  17. Approfondimenti
  18. Bibliografia
  19. Sitografia