La rivoluzione di Papa Francesco
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La rivoluzione di Papa Francesco

Come cambia la Chiesa da don Milani a Lutero

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Come cambia la Chiesa da don Milani a Lutero

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Con Papa Francesco si sta assistendo a una riabilitazione di figure molto controverse del mondo cattolico. Personaggi che, più che la Chiesa, hanno rappresentato una sorta di "anti- Chiesa", soprattutto durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Sembra quasi che il Papa voglia ribaltare la scala dei modelli proposti dai suoi predecessori, al punto che molti si domandano se l'obiettivo di Francesco non sia proprio quello di rottamare la Chiesa di Wojtyla da lui stesso canonizzato. Ma non soltanto Bergoglio sembra affascinato da figure accomunate dalla loro ostilità e insofferenza verso la Chiesa, ma a sua volta riesce ad affascinare quanti sono lontani dalla fede. Questa politica è davvero vincente? Oppure, come molti ritengono, oltre a non convertire i "lontani" se non su un mero piano di ammirazione personale e convenienza politica, comporterebbe il serio rischio di allontanare i cattolici?

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788833372389

Capitolo 1
Don Lorenzo Milani

«Il gesto che oggi ho compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua rettitudine al Vangelo e nella sua azione pastorale. Oggi lo fa il vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani, non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco, ma la Chiesa riconosce in quella via un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».
Così Papa Francesco ha parlato il 20 giugno 2017 a Barbiana nei luoghi in cui don Lorenzo Milani ha svolto la sua missione sacerdotale, educativa, sociale e culturale. Frasi che hanno fatto molto discutere; da un lato i sostenitori di Don Milani e del modello Barbiana hanno gioito, visto che era la prima volta che un papa andava in visita alla tomba del sacerdote e ne riabilitava l’operato. Prima di lui lo avevano fatto gli arcivescovi di Firenze, l’amico Silvano Piovanelli e molto più tiepidamente, ma non meno efficacemente, Ennio Antonelli e Giuseppe Betori. Dall’altra parte molti cattolici tradizionalisti hanno storto la bocca visto che per loro don Milani resta il simbolo di un cattolicesimo imbevuto di comunismo sessantottino, lotta di classe, diritti civili e sociali, non del tutto compatibili con la dottrina della Chiesa. Al di là dell’opera e delle posizioni del priore di Barbiana che già molti scrittori, storici, teologici, giornalisti e sociologi hanno esaminato a fondo, quello che è apparso evidente a tutti è il cambio di strategia sul concetto stesso di santità; se con Giovanni Paolo II la santità era connessa indissolubilmente all’esempio di vita, con Francesco il criterio per definire la santità sembra diventare la profezia. Un uomo è santo più che per l’esempio, per la forza profetica e per la capacità di saper anticipare i tempi. E per Bergoglio Don Milani avrebbe anticipato i tempi della Chiesa, al punto da costituire un esempio oggi per chi come lui non si stanca di promuovere il modello di Chiesa in uscita aperta al mondo e dispendiosa di misericordia e perdono. L’esempio di vita dunque diventa elemento secondario rispetto alla forza profetica, le parole valgono più delle azioni, le azioni non sono più conseguenti alla santità ma sante in quanto frutto della forza profetica. Ma basta la capacità profetica a fare di un uomo un esempio se poi le idee e le azioni non sono propriamente quelle di un santo ma di un uomo pieno di limiti e contraddizioni?
Scrive Cristina Siccardi1 su “Corrispondenza Romana”: «Le lodi di Bergoglio a questo sacerdote sulla cui tomba di Barbiana è andato in preghiera il 20 giugno scorso, hanno creato malumori non certo infondati. Chi era don Milani? Come spesso accade ai rivoluzionari di impronta marxista, anche l’intellettuale e politicante impegnato don Lorenzo Milani Comparetti nacque e crebbe in una ricca famiglia ebrea. Agnostici e anticlericali, i genitori di Lorenzo si sposarono nel 1919 con il solo rito civile. A causa delle posizioni antireligiose della famiglia, le scuole frequentate a Milano dal secondogenito Lorenzo, dal fratello Adriano e dalla sorella Elena creavano loro disagio e per tale ragione i genitori decisero di sposarsi con rito religioso il 29 giugno 1933. Lorenzo, dopo le scuole dei barnabiti, frequentò il liceo classico milanese Berchet. Studente di scarsa resa, intrecciò rapporti di amicizia con i compagni di classe Oreste Del Buono, Saverio Tutino, Enrico Baj. In disaccordo con il padre, non si iscrisse all’Università e frequentò a Firenze, invece, lo studio del pittore Hans Joachim Staude, sensibile alla cultura orientale e al buddismo. Fu in questo periodo che Lorenzo fece delle ricerche sul senso dei riti liturgici, studiandoli con l’occhio del pittore e del filologo: egli stesso distruggerà i cartoni dei disegni e i manoscritti inerenti a tali interessi. Fu nel 1943 che decise di convertirsi al cattolicesimo. Il 12 giugno di quell’anno ricevette la cresima dall’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, il quale aprì alle istanze del cattolicesimo sociale di Giorgio La Pira. Il 9 novembre entrò quindi nel Seminario arcivescovile fiorentino di Cestello, sancendo la sua scelta con la rinuncia alla propria quota di eredità familiare. Tuttavia, il ribelle Milani visse male in Seminario, che definirà “una immensa frode” (lettera a Bruno Brandani, in N. Fallaci, La vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, Milano 2005, p. 86): da subito manifestò la sua indisponibilità ad accogliere insegnamenti e ritualità della Chiesa: “si ha sempre l’impressione di essere in un manicomio […] non c’è più nessun indizio che possa far pensare in che secolo siamo, né in che paese. Difatti stiamo zitti in latino” (Lettere alla mamma, a cura di A. Milani Comparetti, Milano 1973, n. 2)».
Prosegue Siccardi: «La soggettività imperava nella sua religiosità sociale: gli atti rituali esteriori gli erano nemici; era l’interiorità protestantizzante che doveva prevalere sulla forma cattolica, scriveva infatti a sua madre, che fu sempre sua fedele confidente: “che ognuno pensi da sé a rettificare la sua intenzione e che se anche per caso si siede senza essersi fatto il segno della croce, può darsi che la croce che ha dentro sia più austera e più grande e più umiliante che quella che s’è dimenticato di tracciare per l’aria”. In occasione del referendum istituzionale del 1946, nonostante la posizione filomonarchica del cardinale Dalla Costa, don Milani espresse il suo favor per la Repubblica insieme a don Raffaele Bensi (1896–1985), sacerdote che fu guida sua, dalla conversione alla morte. Ma Bensi fu confessore e consigliere anche di Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Nicola Pistelli. Questo formatore di più generazioni di liberali e comunisti ammantati di religiosità cattolica, definirà il priore di Barbiana: “l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote” da lui conosciuta, e distruggerà, dopo la morte di Milani, tutto il carteggio intercorso con lui. Ordinato sacerdote il 13 luglio 1947, fu inviato l’8 ottobre come cappellano nella parrocchia di San Donato a Calenzano (Prato), abitata da circa 1200 persone, gente prevalentemente povera. Fin dal principio non condivise la religiosità dei parrocchiani, la considerava azione passiva, artefatta, consuetudine necessaria per essere riconosciuti nella comunità. Questa è la classica tracotanza dei progressisti: considerare gli altri degli imbecilli nelle mani del potere. Il pensiero comunista era parte integrante delle sue fibra e il credo era per lui confessione politica: teologia della liberazione. Le sue non erano mai catechesi, ma presa di coscienza sociale. Su tutto doveva imperare la dignità umana, quella che sarà esaltata dal Concilio Vaticano II in poi. Strumento di dignità era la capacità di espressione linguistica, presupposto di libertà. Fondò la sua scuola come alternativa a quello che considerava proselitismo delle parrocchie e alternativa alle sezioni comuniste. Per Milani la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era invece la sua rovina. Suo obiettivo era quello di far scoprire ai giovani le gioie della cultura e del pensiero: “smisi di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi occasione di umiliarli e offenderli” (Esperienze pastorali, pp. 128 s.). Il buonista don Lorenzo Milani non era buono, né come uomo, né tantomeno come sacerdote. Abbandonò con disprezzo il catechismo tradizionale: lui, il rivoluzionario, indottrinava con autorità il cristianesimo attraverso lo storicismo e il Vangelo personalmente interpretato. La dottrina della Chiesa e i suoi riti erano favole per ingenui e sciocchi. Vedeva la scuola come la palestra del riscatto dei poveri e non come luogo confessionale (alla stregua della sua parente Elena Raffalovich), perciò i simboli cristiani e le immagini sacre dovevano essere tolte ed anche il crocifisso poteva legittimamente scomparire dalle aule, al modo dell’abate Ferrante Aporti cento anni prima, smascherato dal pedagogo per eccellenza, san Giovanni Bosco. Gli studenti non erano da Milani considerati degli scolari, bensì dei pari agli altri e, dunque, dovevano confrontarsi con gli intellettuali. Non a caso la concezione milaniana verrà presa a modello dal pensiero sessantottino: ogni settimana il prete classista invitava a tenere conferenze oratori come i magistrati Gian Paolo Meocci e Marco Ramat, il direttore del Giornale del mattino Ettore Bernabei, lo storico Gaetano Arfé».
Siccardi conclude: «Di sé scriveva: “Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto […] avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco” (Esperienze pastorali, p. 146). Uomo tribolato e sacerdote non realizzato, questo maestro eversivo, nei suoi 44 anni di vita, non ebbe mai pace e mai ne trasmise».
Fin qui la ricostruzione storica della vita e dell’opera di don Milani a cura di Cristina Siccardi. Può essere condivisibile o meno, ma l’autrice parla con i testi, non con le chiacchiere da bar, cita fonti non suggestioni.
Ma a dimostrazione di come Don Milani, la sua persona e il suo modo di interpretare il Vangelo fossero guardati con sospetto, arrivano le parole pronunciate dal teologo e monaco Enzo Bianchi2, che pure a Don Milani riconosce l’alto valore profetico, in occasione del Salone del libro di Torino dove aveva presentato I Meridiani Mondadori sul prete del Mugello.
Bianchi è un cattolico progressista, fervente conciliarista e critico con la Chiesa perché a suo giudizio non avrebbe ancora dato piena attuazione allo spirito conciliare. Proprio sulla scia del Concilio, Bianchi diede vita alla fine degli anni ’60 del Novecento alla comunità di Bose impostata soprattutto su quell’ecumenismo e quel dialogo fra le religioni che il Concilio aveva sancito. Quindi Bianchi non può essere certo annoverato fra i cattolici conservatori o tradizionalisti che vedevano in Don Milani un simbolo del catto–comunismo e del modernismo. Tuttavia, scrive Bianchi di Don Milani:
«Perché un uomo come Milani appariva molto lontano a Dossetti, appariva molto lontano al cardinal Martini, per dire di persone estremamente attente, e anche a me che salii da lui nel ’66 a trovarlo? Dico la verità, non fece questa grande impressione. Perché? Perché la grandezza di don Milani, come è stata, non era, come posso dire, da accogliere in quel mondo spirituale cattolico che veniva fuori dal Concilio in poi. Per don Milani, il Concilio è una cosa estranea, è una dimensione che non lo tocca. Don Milani non è toccato nemmeno dalla parola di Dio; per lui la parola è soprattutto lo strumento umano con cui uno trova la libertà, la soggettività, attua quella che nel ’68 sarà chiamata la prise de parole e lui voleva dare questa parola ai poveri e ai semplici».
Dunque un politico più che un sacerdote, che con le sue idee appariva persino lontano a chi in quel periodo nella Chiesa e nel mondo cattolico era più aperto alle istanze sociali, come appunto Giuseppe Dossetti e Carlo Maria Martini. E anche con il cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, i rapporti furono sempre molto contrastati. Anche Dalla Costa, come Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti, era parte di quel cattolicesimo sociale che combatteva il comunismo non con le scomuniche o gli anatemi, ma con la rappresentazione in chiave cristiana delle istanze rivendicate dal marxismo. Dalla Costa, che pure aveva ordinato sacerdote Don Milani ne decreterà “l’esilio” a Barbiana quando si renderà conto che le sue posizioni avevano carattere radicale e rivoluzionario e andavano ben al di là di quello spirito sociale che pure don Milani si vantava di rappresentare.
Don Milani dunque anticipatore del Concilio? Per Bianchi il priore di Barbiana con Giovanni XXIII e il Concilio c’entrerebbe poco o niente, lui la sua strada l’avrebbe percorsa comunque, con o senza il Concilio, evento che, come testimonia sempre Bianchi, lo lasciò del tutto indifferente. Al punto che i conciliaristi di allora non trovarono in lui nessuna concreta visione profetica che potesse in qualche modo legarlo alla riforma della Chiesa.
Don Milani insomma una scheggia impazzita, per il quale la parola di Dio altro non era che uno strumento attraverso il quale sostenere le sue idee e portare avanti la sua politica?
Quel che poi mancava a Don Milani era la forza dell’umiltà. Se ne può avere testimonianza nel modo in cui si rivolgeva per esempio al suo diretto superiore, il cardinale Ermenegildo Florit che succedette a Dalla Costa alla guida dell’arcidiocesi fiorentina. Ecco cosa scriveva a Florit il 5 marzo del 1964:
«Caro Monsignore,
la ringrazio della sua lettera che non posso interpretare che come un atto d’amicizia. Non riesco però a capire se ella ha mai saputo quel che ho detto e scritto a Mons. Vicario e se sa che, fra l’altro, io gli ho chiesto che, anche lei venisse a parlare ai miei ragazzi e ai loro genitori. Naturalmente ciò che le chiederei non sarebbe un qualsiasi discorso generico, ma d’esaminare in presenza a loro, a fondo, senza pudori e senza pietà, il problema dei rapporti tra il mio apostolato e il vostro atteggiamento.
Ho passato i miei diciassette anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il Vescovo mi aveva affidato. Del Vescovo non mi son mai curato.
Pensavo nella mia ingenuità di neofita che il Vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli, aiutarli, benedirli nel loro apostolato. Pensavo che egli amasse i miei figlioli così che tutto quel che facevo per loro gli paresse fatto a lui e così il legame fra me e lui anche senza mai vedersi o scriversi fosse il più alto e il più profondo che esiste: un oggetto d’amore in comune.
Dopo sette anni di questa illusione idillica, d’un tratto seppi la tragica realtà: la Curia fiorentina e il Vescovo erano un deserto!
Allora scelsi quella che in quel momento mi parve la via della santità: per nove anni ho badato soltanto a salvarmi l’anima, ad accettare in silenzio le crudeltà con cui calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in diciassette anni di sacerdozio non avevate saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero.
Ho badato ad accettare in silenzio perché volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto. Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legami. Qualcosa che temo lei non abbia mai avuto. E per questo m’è preso pietà di lei e ho deciso di risponderle.
Da due anni in qua i medici e alcuni segni m’han detto che è l’ora di prepararsi alla morte. Allora ho voluto riesaminare freddamente questi diciassette anni di vita sacerdotale. Anzi i loro frutti. E m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo.
Lasciarsi calpestare può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestavate anche i miei poveri, li allontanavat...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo 1 Don Lorenzo Milani
  3. Capitolo 2 Don Primo Mazzolari
  4. Capitolo 3 Il Concilio Vaticano II
  5. Capitolo 4 Leonardo Boff
  6. Capitolo 5 Pedro Arrupe
  7. Capitolo 6 Helder Camara
  8. Capitolo 7 Hans Küng
  9. Capitolo 8 Don Gallo, Cardenal e gli altri
  10. Capitolo 9 Barack Obama
  11. Capitolo 10 Il partito radicale
  12. Capitolo 11 Martin Lutero