Insiste un Mediterraneo diffuso in tutto l’opera di Giuseppe
Ungaretti. Un uomo che si porta l’Egitto nel sangue e l’etnia
mediterranea nella parola.
Soltanto un poeta che ha vissuto
profondamente le sponde del Nilo poteva raccogliere la metafora
dell’acqua come uno scorrere infinito. La rottura con la tradizione
linguistica nasce all’interno di una metafisica del luogo. Ovvero,
nasce nella metafora-verità di un porto sepolto che diventa
l’archetipo fondamentale della sua archeologia linguista.
Archeologia che non è soltanto una geografia, ma una grecità
saffica. Una poesia in frammenti saffici in cui la grecità è il
senso dell’arcano.
Cosa è stata la lingua in
Ungaretti? Cosa è stato Giuseppe Ungaretti nella poesia del
Novecento? Si potrebbe usare un concetto chiarificatore: la
metafora dell’esistenza tra il dolore e la terra promessa lungo un
viaggio in cui si intrecciano i naufragi e l’ironia che vive
nell’allegria. Un poeta del Mediterraneo in cui l’insondabile
diventa esilio.
Ungaretti cerca nel porto una
memoria sepolta. Il porto è sepolto ma la memoria è uno sbatter
d’acqua. La metafora dell’esilio della notte è un viaggiare sia tra
l’esilio che nella notte che si affaccia e separa il giorno.
Tra luce e buio: la lingua. Un
navigare nel gioco delle attese che sono intagli di memoria e
ritagli di tempo. Nei vicoli e nel labirinto la parola diventa
eterea e assorbe una metafisica dell’anima. Qui la terra promessa
vive la metafora e quel suo immenso illuminato si fa traghettamento
di memorie.
La poesia non racconta. La poesia
resta sospesa come pioggia leggera sui vetri di una finestra,
misurando il tempo. Il tempo del verso è un echeggiare di incontri
nelle testimonianze. In quel tempo vissuto, abitato, misurato dal
proprio esistere, ci sono percorsi di esistenza. In ogni percorso
si individua il silenzio e l’urlo, il grido e il taciuto di uno
spazio che raccoglie tutte le metafore possibili non per
raccontarle, ma per trasformarle in mistero.
Di mistero sono fatti i tracciati
ungarettiani che si ritrovano oltre il leopardiano superamento del
colle o della siepe. Ungaretti ha inventato una nuova lingua della
poesia. Su questo bisogna ben comprendersi. La lingua italiana é
l’espressione della cultura italiana. Leopardi è punto di
riferimento. Così come ogni cultura é l’espressione di una lingua.
Il percorso della lingua è un interfacciarsi con modelli di
civiltà.
Ormai è accertato che la lingua
italiana occupa la quarta posizione tra le lingue del mondo. Un
fatto non relativo e altamente positivo in un tempo in cui si cerca
di recuperare anche la forma dialettale delle lingue, creando delle
contaminazioni. La lingua italiana, nata da un contaminato di
linguaggi, diventa un punto fermo all’interno di quei processi
culturali in cui la comunicazione del linguaggio è comunicazione
antropologica, sociologica, linguistica arrivando a occupare
un’interrelazione all’interno del contesto mondiale significativo.
Ho attraversato diversi percorsi
visitando molti paesi, portando la lingua italiana nel mondo, dal
Sud America ai Paesi balcanici, e mi sono reso conto che c’è stata
sempre una forte simpatia e vicinanza non solo alla lingua
italiana, ma soprattutto alla cultura italiana. Ciò significa che
il modello greco-latino occidentale, sul piano culturale e
linguistico, non solo è conosciuto ma studiato attentamente.
Leopardi viene ri-portato alla
ribalta proprio da Ungaretti, oltre che da Cardarelli. Gli studi di
Ungaretti su Leopardi non sono soltanto di natura poetica ma anche
linguistica.
La storia di un popolo, di una
civiltà, di una visione identitaria hanno permesso di leggere tutta
una realtà storica e linguistica. La realtà storica si forma sui
processi culturali che, a loro volta, nascono da visioni e da
interpretazioni linguistiche.
La lingua è comunicazione.
Attraversare una lingua significa attraversare e conoscere una
cultura. Ungaretti ha penetrato i sostrati di questo viaggio
linguistico per giungere alla “sua lingua”. Una lingua in cui il
mistero metaforico resta fondamentale.
Il mistero accompagna sempre la
parola della poesia. Perché non c’è mistero. C’è segreto. Segreto
non rivelante.
Questo segreto non rivelante
trasforma la parola in preghiera. Una preghiera laica che ha del
religioso il senso del divino. Perché la poesia, anche nella
laicità della profezia stessa, vive di una grande dimensione, che è
quella della Provvidenza.
La terra promessa, in fondo, è
una Provvidenza in cui i fili del tempo sono naufragio e porto.
Mare d’altura e terra.
Siamo tutti verso una terra,
verso un mare da navigare o navigato. La poesia è l’espressione di
tutto ciò. La poesia diventa testimonianza di una conoscenza che è
coscienza. Questi due aspetti, coscienza e conoscenza, sono dentro
il portato metafisico della parola divenuta preghiera e raccolta
dal vocabolario poetico. L’Ermetismo è la rivoluzione del
vocabolario e il linguaggio, in Ungaretti, diventa la vera visione
del mirabile. La mirabile visione è nel verso ed è nello scorrere
delle parole, parole come fiumi.
Qui si innesca il vero specchio
che, comunque, va sempre in frantumi. Uno specchio in frantumi ci
riporta a Oscar Wilde, ma uno specchio frantumato è anche la
possibilità di leggere in ogni scheggia quella memoria che è dentro
il tempo. La poesia si raccoglie in questi estremi ed è sempre una
scheggia appuntita che proviene da questo specchio rotto e
frammentato. Il tempo è un tempo riflesso nello specchio.
La conoscenza di una lingua, o
l’apparentamento nei confronti di una lingua, ci porta ad
approfondire le radici di quella determinata lingua. Le radici
della lingua italiana sono all’interno di un processo profondamente
occidentale. La lingua italiana, al di là del dibattito sul De
vulgari eloquentia, che ha permesso di sviluppare un percorso tra
la lingua latina e la lingua volgare, ha dato il segno tangibile di
come una lingua possa svilupparsi all’interno di una dimensione
storica.
Il dibattito sulla lingua in
Italia ha sempre tracciato e lasciato dei segni indelebili, dal
1200 - 1300 fino al percorso bembiano. Il Rinascimento nasce
all’interno di una civiltà delle culture, ma pure attraverso il
dibattito di Bembo sulla questione della centralità della lingua.
Un processo che è possibile verificare anche nei secoli successivi
sino al suo Leopardi.
La lingua barocca, che ha avuto
origine all’interno del contesto lessicale semantico barocco, ha
come dimensione le culture barocche che si sviluppano dal Regno di
Napoli fino a tutta l’Europa e in seguito anche in Brasile. Si
pensi al barocco brasiliano che parla il linguaggio che era del
Regno di Napoli, fino ad arrivare al grande dibattito leopardiano
sulla lingua contestualizzata nella temperie tra Leopardi e
Manzoni.
Con Manzoni si unifica un
concetto di lingua omogenea che non resterà mai tale, perché sono i
dialetti che insistono. Ecco perché ho sempre sostenuto che la
lingua italiana è il concentrato dei dialetti, quando il dialetto
assume l’identità di una comunità. Ungaretti ha attraversato questi
percorsi creando una griglia simbolica. Ma Leopardi ha il
sopravvento su tutto grazie al recupero ungarettiano.
La frammentazione del tempo è
dentro il vetro rotto. Ovvero, la frantumazione che crea frammenti
dello specchio è il recupero di quella goccia di pioggia che
elegantemente tocca il vetro della finestra.
Ogni goccia è una sillaba. Ogni
sillaba, nel viaggio poetico ungarettiano, ha bisogno di altri
segni per formare la parola e la parola ha dentro di sé un
vocabolario estetico che possiede una sua sensualità e una sua
estasi in cui tutto ha un senso finché esiste un orizzonte. Ed è
per questo motivo che la poesia crea e ricrea, dice e ripete tutto
un tracciato che è dentro la nostra esistenza di uomini, la nostra
esistenza di poesie e di poeti. Un viaggio sempre incompiuto. Il
poeta Ungaretti è un navigante di dolore e di speranze.
In fondo, la poesia è un
incontro. Un incontrarsi. La poesia è sempre questo incontro che ci
permette di ristabilire, con il nostro vivere e con quella parte
che è la consuetudine dell’esistenza, il mosaico che è composto dai
tasselli di tutto ciò che siamo. Esistere nel tempo di questo
mosaico significa ristabilire quelle eredità che sono eredità in
cui il senso del trasporto esistenziale diventa trasmissione di
tradizioni.
Si vive di tradizioni e la poesia
raccoglie questo essere e questo “restare dentro la parola”.
L’attuale discussione sulla
lingua italiana come quarta realtà comunicativa del mondo, lascia
intendere che questa realtà ha assorbito tutte le dimensioni
storiche, politiche di un Occidente che è stato un Occidente
Mediterraneo italiano. Quando Cristoforo Colombo va nelle Americhe
si porta dietro il dialetto genovese, il dialetto ligure, il
dialetto veneziano e tutto un contesto pre-rinascimentale della
cultura umanistica. Quindi, dentro questo rapporto tra cultura
umanistica rinascimentale, porta nelle Americhe una storia che è
quella della civiltà dell’Occidente e del Mediterraneo italiano.
Aspetti che Ungaretti è riuscito a manifestare nel suo linguaggio
che è diventato una dimensione della lingua.
Oggi si riscopre questa visione
della lingua italiana e, accanto alla lingua italiana, si recupera
la cultura italiana. Si pensi alla letteratura. Alle grandi
personalità che hanno disegnato la geografia culturale mondiale. Da
Dante a Machiavelli. Da Machiavelli a D’Annunzio. Personalità che
hanno parlato la lingua italiana pur attraverso le dimensioni del
dialetto e si sono innescate all’interno di quelle realtà e nazioni
che hanno avuto la volontà, la possibilità e la capacità di
approfondire una comparazione o una contaminazione di culture.
Non mi meraviglio affatto che la
lingua italiana sia considerata la quarta lingua. Anzi, ritengo che
possa essere considerata anche la seconda o terza lingua, perché la
lingua non viaggia mai da sola, ma sempre accanto a delle
definizioni e a delle contestualizzazioni culturali.
Dante è studiato in tutto il
mondo, esattamente come Manzoni. È chiaro che Ungaretti rompe con
la tradizione che si ergeva sulla lingua manzoniana e carducciana.
Queste particolarità sono parti integranti di un processo di
civiltà. La cultura latina la troviamo dappertutto. Ovidio, per
esempio, è la personalità che ha disegnato una dimensione ben
definita all’interno di una visone culturale. Bisogna ragionare su
questi aspetti e promuovere sempre più la cultura italiana nel
mondo.
È un dovere per uno scrittore
rappresentare la propria appartenenza. Io mi caratterizzo
attraverso la lingua che parlo. Ungaretti, dal suo porto sepolto
sino ai suoi saggi e viceversa, è stato il creatore di un modello
in cui l’epicentro è Leopardi.
L’alchimia leopardiana “invade”
il primo decennio del Novecento e lo fa, in modo particolare, con
due poeti che aprono realmente l’età della modernità: Vincenzo
Cardarelli e Giuseppe Ungaretti, i cui parametri hanno eredità di
matrice pascoliana. Sarà Cardarelli a rompere con la tradizione
filtrata da Pascoli e lo fa con una motivazione poetica più che
culturale.
Il punto di “divisione” è proprio
Leopardi il quale, attraverso la rivista “La Ronda”, diventerà il
riferimento principe. Ma Ungaretti dedicherà a Leopardi delle
lezioni magistrali il cui obiettivo è quello di dare un senso al
Novecento poetico scavando non nel ‘nido’ ma nel ‘borgo’. Un
Ungaretti mediterraneo le cui radici scavano in quell’Alessandria
d’Egitto che è centro tra Oriente ed Occidente.
Nel primo Novecento, che eredita
un Ottocento carducciano, si era sviluppato un tessuto che troverà
una chiave di lettura in alcuni autori che vanno da Pascoli a
D’Annunzio attraversando tutte le fasi dei “Crepuscoli”, con i
quali il verso moderno si farà modello nella semantica
contemporanea. Quel verso che rivoluzionerà il linguaggio si
ascolterà con altri poeti e con altre tensioni e troverà in un
autore come Giuseppe Ungaretti la sintesi e il travaglio di una
parola sofferta, che si consoliderà in quel tempo del linguaggio
che accomuna l’onirico, l’esistenziale e il dolore, come
consapevolezza dell’uomo, pur in un percorso nel quale il segno
religioso diventa una costante problematica dell’essere.
La parola così è uno scavo e il
linguaggio si fa misura “leopardiana”, ripresa dall’ultimo Pavese,
di un dialogo sempre vivo tra la vita e la morte in quel tempo
dell’uomo che conosce l’attesa e la speranza. Ebbene, il
linguaggio, la metafora e la lingua in Ungaretti (e si leggerà
anche nell’ultimo Pavese) non sono altro da sé. Ma vivono nella
coscienza di una comunicazione interiore.
C’è da dire che l’Ermetismo è
stato l’asse dello sviluppo poetico degli anni Trenta. La rivista
“Primato”, nei primissimi anni Quaranta, seppe cogliere lo spirito
di quella temperie e avviò una discussione piuttosto articolata,
tanto che trovarono spazio, sulla rivista, poeti e critici che
furono l’anima di quel particolare contesto
storico-letterario.
La poesia Ermetica aveva
caratterizzato già la poesia di quegli anni. Giuseppe Ungaretti fu
il protagonista del rinnovamento poetico. Le sue prime poesie
risalgono ad anni anteriori rispetto all’esplosione
dell’Ermetismo.
Ungaretti poneva in essere una
questione linguistica e lirica consistente che trovò nell’Ermetismo
un punto di forza. Anzi fu l’Ermetismo a trovare nell’esperienza
ungarettiana un modello poetico ben definito. “Primato” seppe
raccogliere le istanze critiche e poetiche alzando il tono di una
discussione teorica seria e matura.
Sul numero 9 dell’1 luglio 1940
(numero con il quale si interromperà il dibattito) la posizione di
Titta Risa è ben rappresentata grazie anche alla citazione di
alcuni dei poeti ermetici e alla differenziazione che fa tra un
poeta e l’altro: “… è impossibile confondere il linguaggio di
Ungaretti con quello di Quasimodo, e non percepirne subito la
diversità del sentimento e del tono… Ora, cogliere questa diversità
e descrivere l’individualità poetica di ciascuno, se in un primo
tempo si può fare nell’ambito di una poetica generale (…) in un
secondo tempo, che è operazione propriamente critica, bisognerà
farlo nel seno stesso dell’individualità d’un poeta: isolando dalla
lingua … comune di quella corrente del gusto, il linguaggio proprio
del poeta in esame”.
Mi pare un’osservazione di quelle
ben marcate in termini di approfondimento storico-critico che
supera ogni incasellamento meta-ideologico. Sempre su questo
fascicolo interverranno Arnaldo Bocelli e Danilo Bartoletti. Il
primo si soffermerà su una interessante chiosa: “Accanto alla
parola preziosa, di impronta dannunziana (di un D’Annunzio ricevuto
attraverso la poesia ermetica), o alla erudita, è la parola tecnica
di un tecnicismo spesso desunto dalla critica delle altre arti,
massime della pittura, e della musica (da quella critica, cioè, che
più è stata restia nell’accogliere l’idealismo)”.
Accanto alla lingua ci sono i
simboli, il mito, le metafore, il dolorante segno metafisico di una
classicità sofferta. È Ungaretti, comunque, che ci trasmette una
delle sensazioni più toccanti con quei suoi versi dedicati a
Didone: “Ora il vento s’è fatto silenzioso/E silenzioso il
mare,/Tutto tace; ma grido/Il grido sola, del mio cuore,/Grido
d’amore, grido di vergogna/Del mio cuore che brucia/Da quando ti
mirai e m’hai guardata/E più non sono che un oggetto debole.//
Grido e brucia il mio cuore senza pace/Da quando più non sono/Se
non cosa in rovina e abbandonata”.
Ungaretti dirà: “Devo
riconoscerlo c’è uno stimolo eruttivo, non so quali ingiunzioni
alla rivolta, all’anarchia sempre in me”. E ancora Ungaretti: “Solo
più tardi arriverò a sentire in tutta la sua grandezza e la sua
segreta potenza quell’uomo precursore, in un certo senso, che fu
Nietzsche”. Un precursore dunque. E Ungaretti aveva ragione.
Che Giuseppe Ungaretti sia uno
dei poeti più importanti del nostro Novecento non c’è assolutamente
da meravigliarsi e da discutere. Si tratta di un poeta di rottura
sul piano linguistico e un poeta che fa della metafora della parola
una tensione espressiva, che si traduce sul piano della
comunicazione.
La poesia, e in modo più
specifico la letteratura, è metafisica dello spirito ma è anche
dimensione dell’esistere. I due riferimenti di temperie che
potrebbero confrontarsi sono Ungaretti e Pavese nel tracciato di
una metafisica che riscopre il dolore della classicità e la
tradizione della metafora. Da viaggiatore e viandante mediterraneo
naviga i fiumi.
Ungaretti: Mi tengo a
quest’albero mutilato | Abbandonato in questa dolina | Che ha il
languore | Di un circo | Prima o dopo lo spettacolo | E guardo | Il
passaggio quieto | Delle nuvole sulla luna | | Stamani mi sono
disteso | In un’urna d'acqua | E come una reliquia | Ho riposato |
| L'Isonzo scorrendo | Mi levigava | Come un suo sasso | Ho tirato
su | Le mie quattro ossa | E me ne sono andato | Come un acrobata |
Sull'acqua | | Mi sono accoccolato | Vicino ai miei panni | Sudici
di guerra | E come un beduino | Mi sono chinato a ricevere | Il
sole | | Questo è l'Isonzo | E qui meglio | Mi sono riconosciuto |
Una docile fibra | Dell'universo | | Il mio supplizio | È quando |
Non mi credo | In armonia | | Ma quelle occulte | Mani | Che
m'intridono | Mi regalano | La rara | Felicità | | Ho ripassato |
Le epoche | Della mia vita | | Questi sono | I miei fiumi | |
Questo è il Serchio | Al quale hanno attinto | Duemil'anni forse |
Di gente mia campagnola | E mio padre e mia madre. | | Questo è il
Nilo | Che mi ha visto | Nascere e crescere | E ardere
d'inconsapevolezza | Nelle distese pianure | | Questa è la Senna |
E in quel suo torbido | Mi sono rimescolato | E mi sono conosciuto
| | Questi sono i miei fiumi | Contati nell'Isonzo | | Questa è la
mia nostalgia | Che in ognuno | Mi traspare | Ora ch'è notte | Che
la mia vita mi pare | Una corolla | Di tenebre”.
Bisogna ritornare alla poesia. Ha
sottolineato Mario Luzi: “Spero in un uomo che si appartenga e non
sia alieno a se stesso, quale invece rischierebbe di divenire se la
poesia cadesse in completa disgrazia e fosse oggetto di abiura”.
L’uomo deve appartenersi in questa nostra epoca di disappartenenza.
Questo è il vero messaggio e la poesia ha un compito non solo
letterario, ma anche umano, etico e religioso. Ungaretti resta il
punto di riferimento e il legame tra modernità e contemporaneità.
Cardarelli, Ungaretti e Pavese
sono i continuatori del misticismo della parola che si fa
metafisica dolorante. La lezione Ungaretti la conosceva molto bene:
“Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia
sola può recuperare l'uomo”, “La poesia è poesia quando porta con
sé un segreto”.
Con Leopardi, Ungaretti traccia
una poesia, ma soprattutto crea un nuovo modo di “fare” poesia. Una
espressione che non ha alcun raccontare. Il poeta e lo scrittore
sono dentro la lingua. Sono la lingua. Ungaretti, oltre a un inteso
immaginario, ha costruito il processo linguistico moderno. La
lingua di Leopardi passa attraverso “La Ronda”, rivista
principalmente di Cardarelli, ma viene “imposto” nella
contemporaneità da Ungaretti. Parola come capacità e come fortezza
di ciò che siamo stati, di ciò che esprimiamo, di ciò che vorremmo
che la nostra anima conservasse fino a un infinito che consideriamo
eterno. Infatti è nella terra promessa che Ungaretti vive il senso
di eterno e di dissolvenza del tempo presente.
Una griglia di archetipi oltre la
storia. La storia! L’avventura? Ungaretti è sempre oltre la storia,
anche nei suoi versi del porto sepolto o della allegria che recita
il naufragio.
Giuseppe Ungaretti era nato ad
Alessandria d'Egitto l’8 febbraio del 1888 e muore a Milano l’1
di giugno del 1970. Un poeta nella lingua del Novecento. Essendo
oltre la storia, trasposta la memoria nel mito. Una lezione greca
che attraverserà tutta la sua opera e il suo vissuto.
Ecco cosa è la parola per
Ungaretti: “La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a
dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina”.