Noi della Diaz
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La notte dei manganelli al G8 di Genova

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La notte dei manganelli al G8 di Genova

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Nuova edizione aggiornata. Prefazione di Enrico Zucca. In appendice il diario dal carcere di Paolo Fornaciari “Noi della Diaz” è un precipitato di storie.
Non vi inganni il fatto che Lorenzo Guadagnucci sia un giornalista, anzi “il” giornalista che ha vissuto in prima persona la notte dei manganelli. “Noi della Diaz” è una storia che appartiene a tutti e che – in fondo – è stata scritta da tutte quelle persone che nella loro vita hanno subìto un sopruso da parte delle forze dell’ordine, quelle che vogliamo ostinatamente sperare siano – soprattutto nei loro vertici – dei leali servitori dello Stato e dei cittadini tutti.
“Noi della Diaz” è una storia di storie. Non è un caso che il titolo coniughi la prima persona plurale. È la storia di persone con nome e cognome ma anche di persone che, nella concitazione del momento, Lorenzo identifica con un tratto caratteristico, un vestito, la lingua parlata; è una storia non unidimensionale ma ricca di sfumature, dove non ci sono buoni e cattivi ma persone. Uomini della polizia che riversano sul primo malcapitato le proprie frustrazioni e altri che esitano a far ricadere il manganello. “Carcerieri” in ospedale capaci di umanità ma altri – come a Bolzaneto – pronti a esercitare in modo improprio il monopolio della forza.
“Noi della Diaz” è una storia che è diventata altre storie: il film del 2021 di Daniele Vicari “Diaz-Don’t Clean Up This Blood” (qualunque opinione se ne abbia) prende spunto da questo e da altri racconti e lo traspone in modo vivido, con Elio Germano nel ruolo di Lorenzo.
“Noi della Diaz” è una storia che non è finita per tutti, ma è proseguita con i molti processi, quelli ai manifestanti, quelli ai poliziotti, quelli ai depistatori e quello – fuori dalle aule di giustizia – allo Stato stesso.
Questa nuova edizione – la prima è del 2002 e la seconda risale al 2008 – cade nel ventesimo anniversario dei fatti di Genova ma il suo scopo non è solo fare memoria o celebrare una ricorrenza. La riflessione sulla “macelleria latinoamericana” – 66 feriti su 93 persone, alcuni anche in maniera grave – va infatti oltre la cronaca.
Lo testimonia la nuova prefazione del magistrato Enrico Zucca che mette in piena luce alcuni elementi che il tempo non cancella: la grottesca e menzognera gestione della comunicazione e dei media nella conferenza stampa del mattino dopo; la definizione di quello che è accaduto nella scuola e che integra in pieno la fattispecie della tortura; il tentativo di trasformare le vittime in colpevoli nel corso dei processi.
A proposito dei processi è utile ricordare la sentenza di condanna della Corte Europea dei diritti umani del 2017, nella quale, scrive Zucca: “i giudici di Strasburgo non hanno usato mezzi termini per condannare lo Stato italiano”.
Un libro – infine – che è di estremo interesse per chi voglia spiegare il G8 a “chi non c’era”, ai propri figli e nipoti, o a chi è ancora scettico su quello che è accaduto oppure che nel 2001 era “distratto”. Lo stesso obiettivo si pone “ 2001-2021 Genova per chi non c’era. L’eredità del G8: il seme sotto la neve ”, di Angelo Miotto, appena uscito per Altreconomia.
Perché – come scrive Lorenzo – “la sfida resta quella di convincere che un altro mondo è possibile, cominciando a costruirlo”.
In appendice, l’agro “diario dal carcere” i tre giorni di Paolo Fornaciari, arrestato in via Tolemaide il 20 luglio 2001 e pestato nel comando dei carabinieri.

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Informazioni

Uno

Fu sicuramente per un tempo breve ma sufficiente a traslarmi nel giorno nuovo.
La calma apparente del luogo, il tiepido sole che aveva sostituito la fioca e fredda luce della sera precedente, il sentire il corpo vivo pur se semidistrutto, mi avevano minimamente rincuorato. Restai immobile sotto il lenzuolo parecchio tempo dopo aver aperto gli occhi, e non so come ma mi tornò in mente un mattino di alcuni anni prima quando semi intontito dall’anestesia mi svegliai in un letto dell’ospedale dopo un intervento chirurgico. Ricordai che allora, nonostante i tondini di acciaio che mi fuoriuscivano dal piede e la prospettiva di un mese di convalescenza a letto, ebbi netta la sensazione di non desiderare di essere in nessun altro luogo che non fosse quella corsia dell’ortopedia nella quale mi sentivo protetto, coccolato, servito, messo in sicurezza, e nella quale mi veniva chiesto cosa desiderassi a pranzo e a cena come nelle pensioni vacanza in Adriatico.
Strano ricordo, pensai, indotto forse dai rumori e dagli odori tipici dei luoghi in cui molte persone vivono a stretto contatto. E mi vennero in mente tutte quelle situazioni di vita comunitaria cui volente o nolente ho partecipato: la colonia vacanze, il campeggio con il prete, la caserma, gli ostelli, i rifugi alpini, l’ospedale, e adesso il carcere.
Estraniandomi dalla specificità del luogo, non si può negare che alcune sensazioni fossero ricorrenti: i rumori di chi il mattino presto ancora russa, scoreggia, sbadiglia o parla forte, e qualcuno che immancabilmente urla: “In piedi!”, talvolta il capo gruppo, talvolta il secondino. Gli odori corporei, sia di chi si è appena lavato che di chi è di antica pulizia, i dopobarba da mercatone, i disinfettanti e i prodotti per la pulizia degli ambienti usati scriteriatamente e non per pulire ma per far sentire “l’odore di pulito”; tra questi l’immancabile acido muriatico versato a garganella nella turca o nel water sì da sprigionare la nuvoletta di gas tossico che si diffonde poi nei corridoi con rischi per la relativa inalazione involontaria.
E gli odori di cibo che, non ho mai capito perché, sono diversi da quelli che lo stesso alimento sprigiona quando è cucinato a casa propria. L’odore di pasta al sugo e di caffelatte sono i più caratteristici odori da cucina comunitaria, assolutamente inconfondibili, sia che siano preparati ad una mensa aziendale, in una caserma o in un ostello.
Il mio olfatto non m’ingannava: stavano distribuendo la colazione. Non feci in tempo a realizzare che si presentarono in due con un carrello davanti alla mia cella e con gli stessi modi del giorno precedente: “Si alzi, prenda qui!”. La bella giornata di sole evidentemente non aveva scaldato loro l’animo. I primi movimenti del mattino soprattutto se sei stato pestato sono alquanto difficoltosi; sei fresco di energia nuova, il che ti porta ad avventare movimenti rapidi e dinamici, ma sei freddo alle giunzioni e ai muscoli e per poco non caddi ai loro piedi quando mi venne a mancare il fiato per il riacutizzarsi dei dolori.
Mi allungarono una pagnotta di pane non troppo fresco, una tazza di caffelatte che sembrava una ciotola per condire l’insalata, e andarono alla cella a fianco. Misi il tutto sul tavolino e appoggiando la faccia tra le sbarre vidi per la prima volta una parte se pur parziale di quel mondo attraverso le sbarre. Persone che andavano e venivano, alcuni in divisa altri no, alcuni con carpette e fascicoli sotto il braccio, proprio come accade tutte le mattine in una normale azienda. Trattavano una merce particolare, null’altro, e io ero parte del prodotto.
Tentai di guardare nella cella a fianco, ma vidi solo spuntare il braccio che ritirava la tazza; ad una domanda che il secondino rivolse al mio vicino non udii alcuna risposta.
“Scusi...” chiesi a chi mi aveva dato il caffelatte, “non avrebbe un cucchiaio per favore?”
Il tipo a cui feci la richiesta, che vestiva una tuta da ginnastica azzurra a righe bianche ultra datata, mi guardò con sguardo assente e si girò verso il secondino in divisa che mi redarguì:
“Lei non può parlare con nessuno, è in isolamento, e deve chiamarmi guardia”.
Che cagacazzo pensai, e ripetei: “Guardia, potrei avere un cucchiaio per favore?”
“Dopo”.
Non mi interessava davvero il cucchiaio; il cibo era l’ultimo dei miei pensieri, ma volli rivolgermi a loro semplicemente per un desiderio di comunicazione con qualcuno, di qualsiasi ruolo, stronzo o meno che fosse. Continuando a guardare quel piccolo angolo di corridoio che le sbarre mi consentivano, incrociai un paio di volte lo sguardo dell’uomo in tuta azzurra e solo a quel punto capii che probabilmente si trattava di un detenuto, costretto o volontario aiuto nelle faccende quotidiane del carcere. Aveva un viso olivastro, un tipo vagamente Rom, ma non ne ero sicuro; si girò, e ad un mio alzare di sopracciglia in segno di saluto mi parve di scorgere un’analoga risposta. Poi non lo vidi più.
Passò un altro secondino che con un manganello batté sulle sbarre di ogni cella facendole suonare e mi invitò ad allontanarmi dalla porta.
Guardai la tazza, il pane, e pensai che se quella fosse stata una giornata normale, mio padre a quell’ora probabilmente avrebbe compiuto proprio il gesto di affondare il pane nel latte, lasciarlo lì un po’ ad imbibirsi, per poi raccoglierlo con il cucchiaio stracolmo, risucchiando il tutto con quel rumore così fastidiosamente insopportabile che accompagnò tanti risvegli della mia infanzia e adolescenza mentre lui si preparava per andare in fabbrica.
Se fosse stata una giornata normale. Ma non lo era.
Chissà cosa stavano pensando o facendo lui e mia madre in quel momento. Forse piangevano.
Giusto per non digiunare, non certo perché ne sentissi il bisogno, mi sforzai di bere un sorso di quel liquido per nulla invitante. Era zuccherato in maniera stomachevole; in più facevo anche fatica ad aprire la bocca per il dolore alla mandibola, così rinunciai. L’azienda cominciò a ravvivarsi. Sentii aprire e chiudere portoni in ferro, secondini che passavano e buttavano dentro l’occhio incuriositi. Sembravano avere, a parte uno o due, sguardi meno duri e incazzati di quelli della sera prima, quasi curiosi. Uno in particolare, avrà avuto 25 anni, passava e ripassava davanti alle celle, sembrava quasi stesse cercando un approccio. Ne approfittai e gli chiesi: “Scusi, ma qui dove siamo?” Il dubbio che il secondino la sera prima mi avesse preso in giro l’ebbi fin da subito, quando a parte l’accento meridionale di molti agenti di custodia sentii alcune parole in un dialetto che sembrava milanese.
“Carcere di Pavia”.
“Pavia? Non siamo a Cuneo?”
“Cuneo? No questa è Pavia”.
“Mi scusi, ma adesso come procede questa storia? Saremo interrogati?”
“Guardi, io non potrei dirvi niente, siete in isolamento e non potete nemmeno parlare tra voi”, ma continuò: “Sarete interrogati dal gip che dovrà convalidare o meno l’arresto”.
“E questo quando?”
“Non glielo so dire”. Fece per andarsene, ma tornò sui suoi passi: “Certo che ne avete fatte di grosse ieri, e pare che oggi andrà anche peggio...”
In quell’istante si avvicinò a lui un altro agente, pochi anni in più, biondo, aspetto vagamente nordico, faccia da nazi, sguardo da duro: “Non puoi parlare con i detenuti di queste cose”.
“D’accordo collega”, gli rispose il giovane, e se ne andò.
Ricordai in quell’istante uno scambio di battute udito la notte precedente tra due agenti. Non capivo l’argomento della loro conversazione che sembrava scherzosa, ma ad un certo punto uno si rivolse all’altro chiamandolo per nome, Gabriele.
Al che sentii un irrigidimento della voce di costui che disse: “Non chiamare nessuno per nome, solo collega o superiore!”
Il biondo restò davanti alla mia cella per un istante e ancora tentai di avere notizie: “Ma scusi, cosa è successo ieri? Perché il suo collega ha detto che ne abbiamo fatte di grosse?”
“Scusi lei dov’era? Non era a Genova?”
“Ero in un cortile e sono stato arrestato cinque minuti dopo aver visto il primo fumo di lacrimogeno peraltro lontano da me”. “Non so niente, e non ho fatto niente”.
Quest’ultima cosa me la potevo risparmiare, ma mi uscì istintivamente.
Il biondo e duro restava lì a guardarmi. Avevo ancora il lenzuolo legato in vita come fossi uscito da una sauna, ai piedi le scarpette senza lacci che mi erano stati trattenuti assieme ai plantari ortopedici pagati un cifrone. Mi guardava con aria da compatimento.
“Ma scusi, non abbiamo il diritto di parlare con un avvocato?” dissi alzando il volume della voce per tentare di farmi sentire anche dagli altri arrestati che probabilmente erano nelle celle a fianco ma che non avevo ancora avuto modo di sentire.
“Sì, lo farete, vi comunicheranno quando”.
E quando? Tra un giorno, tra una settimana? E se il gip convalida l’arresto vuol dire che mi tengono dentro? Per quanto tempo?
Il giorno precedente, nella caserma dei carabinieri tra un pestaggio e l’altro, un anziano militare in divisa grigia mentre guardava dentro il mio portafogli, tra i miei numeri di telefono e le mie cose personali, violentando la mia privacy, buttò lì quella che per lui voleva essere una battuta: “Ah, lei è di Parma. Non era meglio restare a casa e andare alle celebrazioni verdiane? Ma tanto tra qualche giorno sarete fuori e da grandi (da grandi?) ricorderete questa come un’esperienza di vita ...”.
A parte la singolarità della sua visione della vita sulla quale ci sarebbe molto da dire, sperai che il suo “tra qualche giorno” non fosse campato in aria. Aveva l’aria di essere un manovale della repressione, non un dirigente, ma l’anzianità e la sicura esperienza mi fecero credere, sperare, che avesse ragione.
Mi vestii con gli indumenti ancora umidi e andai alla finestra. Oltre al muraglione che avevo già intravisto la sera prima vidi uno spicchio di cortile in terra battuta chiara su cui passeggiava una persona. La scena aveva una certa familiarità data dai numerosi film visti sull’argomento, o da qualche ripresa video effettuata durante l’ora d’aria in certe carceri che rinchiudevano i criminali più spietati.
Dopo un po’, dai suoni, dalle urla e dagli incitamenti capii che era cominciato un incontro di calcio che però restava fuori dalla mia visuale.
Tornai a letto leggermente rasserenato, se così si può dire, da una situazione che a parte l’immotivata ragione che mi costringeva in quel luogo, aveva ripreso quel vago senso di normalità che anche una giornata in carcere può avere. Ero un detenuto accusato di reati a me ignoti è vero, ma mi sembrava di essere tra persone più o meno normali, e un vago senso di abbandono e di rilassamento cominciò a pervadermi. La parte più drammatica dell’incubo pareva essere terminata, almeno ci speravo, e come sempre dopo una tempesta, il minimo raggio di sole sembra il paradiso. In quei momenti arrivai a desiderare di rimanere rinchiuso lì per un lungo tempo se fosse servito a non farmi mai più provare nemmeno lontanamente le sensazioni di terrore del giorno prima.
Restavano, drammatici, i problemi legati ai miei familiari e per un attimo pensai anche all’ufficio, a quali nuove discussioni avrei dovuto affrontare in merito a questa vicenda, e temetti, ma forse era una speranza, che non arrivare in ufficio il lunedì successivo avrebbe potuto portare l’azienda a prendere provvedimenti nei miei confronti. Ma fu solo un attimo.
Stetti un po’ in dormiveglia, destato ogni tanto da un rumore o da qualche mio movimento involontario che mi provocava dolore.
Fui riportato alla realtà delle cose da un secondino anche lui accompagnato presumibilmente da un detenuto, che porgendomi un modulo mi chiese di quali generi di conforto avessi bisogno: “Sapone, acqua, sigarette, francobolli?”
Chiesi spazzolino, dentifricio, e qualche bottiglia d’acqua.
“Sul suo conto saranno addebitate 3.500 lire. Firmi qui”.
Fantastico, pensai. Mi avevano distrutto corpo e mente, mi avevano fracassato una fotocamera e due zoom, mi avevano rubato la libertà e adesso mi chiedevano denaro per la sopravvivenza minima.
W l’Italia, W la democrazia.

***

Che strani e forti momenti che avevo vissuto in quegli ultimi due anni, pensai appoggiato alla porta della cella con le mani proiettate “fuori” verso il corridoio.
Mi pervadeva, al di là dello sconforto, della paura, della rabbia, dell’incredulità, la sensazione di essere in un enorme spazio infinito, in cui il camminare, il parlare o magari l’urlare, non avevano senso alcuno, e non avrebbero minimamente modificato il succedersi degli eventi lì in quella cella, in quella città, in quella Terra sassolino dell’universo, dove gli esseri umani hanno lo stesso peso di un granello di polvere.
Non era certo nuova la sensazione d’impotenza di fronte al potere costituito. Chiunque nella propria esistenza abbia provato a partecipare, a vivere, a lottare, chiunque abbia tentato di modificare il corso degli eventi in senso contrario all’avanzata del potere, ogni potere, grande o piccolo, quello dei genitori o quello del datore di lavoro, dell’insegnante o del poliziotto, del superiore in ufficio o dell’imperatore del mondo, ha rischiato di lasciarci le penne, in senso più o meno figurato.
Per tanti che si possa essere su questa terra e in questa società ad essere “contro”, ed eravamo tanti anche nei giorni precedenti lungo le strade di Genova, siamo sempre soli davanti al poliziotto e al suo braccio armato. Non contano ragioni e validità degli argomenti, non conta quanto si urla, non conta quanti si è, se non si è “potere”.
Potere che nella sua veste soldatesca non avevo per fortuna mai affrontato fino ad un anno prima, una notte di maggio, nera che più nera non si può, in una radura della Selva Lacandona in Chiapas, quando mi ritrovai una torcia puntatami sul volto da un incazzato giovane soldato dell’esercito messicano, mentre alcuni suoi colleghi perquisivano i bagagli miei e di altri quattro compagni di viaggio.
La tremarella che mi prese e che mi impedì quasi di pronunciare il mio nome, mi fece comprendere in quell’istante che l’appoggio, la solidarietà alle popolazioni indigene di quei luoghi e alla lotta zapatista, erano una bella cosa vista qui, dall’altra parte del mondo; là invece era accolta con le armi dal “potere”, appunto.
Come a dire, finché si scherza si scherza, i passamontagna di Marcos e i poster di Zapata ve li concediamo per fare nelle vostre città i rivoluzionari da passeggio e di passaggio, ma sappiate che noi abbiamo mitragliatori veri, mica di legno come quelli di gran parte degli indios che hanno osato ribellarsi.
Allora andò tutto per il meglio. A noi osservatori, o zapa-turisti, come venivamo chiamati dalle autorità locali, potevano mettere paura, minacciare, farci sentire la loro continua pressione con le decine di carri armati che ogni giorno sfilavano nei villaggi fotografandoci e riprendendoci; e chi di noi era più sfortunato perché magari incappava in un posto di blocco non previsto nella Selva o perché veniva identificato in un villaggio zapatista, rischiava al massimo di essere espulso dal Paese e di non poterci più tornare.
Ben diversa invece era la situazione per i nativi. Ma questa è un’altra storia, che dura da cinquecento anni e che temo per altrettanto tempo almeno, non si modificherà. Era da quelle terre, dagli ultimi del pianeta che secondo il parere di molti era nato quell’ultimo vento di ribellione, dopo decenni di stanca e di vacuo “edonismo reaganiano”.
Nuovi semi, volati via da una milpa (campo di mais) del Chiapas hanno generato germogli che hanno attecchito dapprima nelle metropoli di questo mondo fattosi all’improvviso piccolissimo, per poi contaminare positivamente il resto del pianeta.
Mai ho lasciato che la vita mi scorresse addosso in maniera indifferente, ma da alcuni anni con la partecipazione attiva a questa nuova onda, la sensazione di attraversare un periodo storico per certi versi epocale, che avrebbe lasciato un segno, era forte.
L’“esplosione imminente” che Zulù e Posse cantavano in quegli anni e che avevamo cantato insieme in quel centro sociale di Città del Messico (credo si chiamasse Alicia o qualcosa del genere), sembrava davvero innescata, e la reazione a catena incontrollabile, con deflagrazioni da Seattle in poi sempre più frequenti, coinvolgendo sempre nuove realtà.
A Praga nel settembre 2000 durante le proteste contro Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale avevo già percepito il sentore di questa forza, ma avevo anche sentito forte la paura, per la seconda volta in vita mia, che il gioco a cui stavamo giocando, non divertiva tutti, e che prima o poi qualcuno avrebbe pagato.
L’assalto al nostro treno di notte da parte dei Robocop della Repubblica Ceca, dopo che le autorità ci avevano dato precise garanzie sul proseguimento del nostro viaggio verso Praga ingiustamente interrotto 24 ore prima, per le modalità con cui era stato condotto, dimostrava che quella non era stata una normale azione di polizia, e chiariva ai mille passeggeri di quel treno chi era e come operava il nostro interlocutore.
Le armature di plastica nera che coprivano dalla testa ai piedi chi le indossava, facendoli apparire simili a spettrali figure mitologiche, equipaggiati con bombole dal contenuto ignoto, assolutamente insensibili ad ogni stimolo esterno (volutamente ignoranti in lingue straniere comuni), se non erano parte di un travestimento carnevalesco (non lo era), rappresentavano l’impermeabilità e l’inattaccabilità del potere. Erano il carroarmato fatto uomo.
E non a caso due giorni dopo a sbarrarci la strada trovammo un muro di tank veri e propri, posizionati in modo da non far passare nemmeno l’aria della rivolta. Nonostante uno spiegamento di forze e mezzi che neanche un attacco terroristico chimico-batteriologico avrebbe giustificato, in quell’occasione non fummo testimoni diretti di particolari violenze o uso eccessivo della forza da parte delle forze armate Ceche, anche se per la verità dopo il ritorno a casa alcune frammentarie testimonianze di abusi circolarono.
Come si dice in questi casi, in Italia c’è stato un salto di qualità.
D’altronde non si addestrano e convocano a Genova 18 mila rappresentanti delle forze dell’ordine se non si ha intenzione di far loro svolgere un lavoro sporco. Non si venga a dire che è per la sicurezza degli otto (grandi?) riuniti che si sono preparate le sacche per i cadaveri. Come le armi si fabbricano per essere usate, i soldati si addestrano per colpire. La guerra c’è. Anche qui. Le strade di Genova militarizzate peggio che a La Realidad o a Guadalupe Tepeyac.

***

Quella sorta di quiete interiore con cui avevo iniziato quel nuovo giorno, ebbe vita breve.
Ero sveglio da un’ora più o...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Noi della Diaz
  3. Indice
  4. Gli Autori
  5. Premessa. La storia delle storie. A cura di Altreconomia
  6. Prefazione. Senza perdere la memoria. Di Enrico Zucca, magistrato
  7. Genova, luglio 2001
  8. Genova, Via Battisti, 21 luglio, notte
  9. Genova, ospedale Galliera, notte tra sabato e domenica
  10. Ospedale Galliera, domenica 22 luglio, alba
  11. Porto Alegre, gennaio 2001
  12. Ospedale Galliera, domenica 22 luglio, mattino
  13. Imola, sabato 21 luglio, primo mattino
  14. Ospedale Galliera domenica 22 luglio, mezzogiorno
  15. Genova 21 luglio, mattino
  16. Ospedale Galliera, domenica 22 luglio, pomeriggio
  17. Genova, 21 luglio, pomeriggio
  18. Ospedale Galliera, lunedì 23 luglio, mattino
  19. Ospedale Galliera, lunedì 23 luglio, pomeriggio
  20. Bologna, 15 novembre
  21. Appendice. Tre giorni. Diario dal carcere
  22. Zero
  23. Uno
  24. Due
  25. Tre
  26. Come e perché dire
  27. Postfazione. La lotta di Genova non finisce. Di Lorenzo Guadagnucci