Il coraggio di farsi aiutare
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Il coraggio di farsi aiutare

Come dire sì alla tua guarigione 16 storie di vita reale

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Il coraggio di farsi aiutare

Come dire sì alla tua guarigione 16 storie di vita reale

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La vita è imprevedibile e può decidere improvvisamente che dobbiamo vivere un’esperienza dolorosa o attraversare un momento difficile. Così quando capita di affrontare situazioni che ci stendono al tappeto e mettono a dura prova la nostra capacità di rialzarci, ecco che la scelta dell’atteggiamento da adottare può risultare determinante sull’evolversi della nostra esistenza.
Trovarsi al bivio di un passaggio buio della vita significa decidere se lasciarsi travolgere e magari soccombere, oppure trovare Il coraggio di farsi aiutare. «Come?». È la domanda che ne consegue. La risposta è articolata ma ha un punto di partenza ben chiaro: «Attraverso un “affiancatore”, un amico di Ulisse, un mentore “istituzionalizzato” o meno, a seconda della necessità di aiuto.» Gianni Bonas, in questo libro, condivide con il lettore sedici storie di donne e uomini che hanno avuto il coraggio di prendere in mano il dolore e la vita dicendo sì alla propria guarigione, affidandosi a lui per intraprendere un percorso di trasformazione e rinascita. Sedici voci che raccontano, a modo loro con un linguaggio spontaneo e carico di emotività, la propria storia e come sia possibile trovare una nuova energia per conquistare un posto sul podio della felicità.
Gianni Bonas, psicologo psicoterapeuta, è psicologo della nazionale Paralimpica di tiro con l’arco, della Nazionale di nuoto pinnato e consulente nazionale Rugby Seven. Da oltre trent’anni segue atleti e pazienti, soprattutto nella gestione dello stress, presso il Centro Equilibero di cui è stato il fondatore. È docente presso la Scuola dello Sport Nazionale e il Cisspat di Padova.
Nel 2016 è stato coautore con Kristin Flood del libro Amor fati. Abbraccia il tuo destino (Crisalide Edizioni).

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
CLEUP
Anno
2021
ISBN
9788854954090
1. Nino
Nino cresce, figlio unico, in una grande famiglia siciliana, colpita negli anni da una serie di lutti. La perdita di un giovane zio segna la sua infanzia e la sua formazione. Un trauma profondo, che condizionerà anche il suo matrimonio. L’unione con la moglie sfocia in una separazione. Con l’aiuto di Gianni, però, non sarà un passaggio violento. Doloroso, quello sì, ma vissuto con amicizia e rispetto. Nino supera il trauma della morte dello zio, cambia vita. Trova il coraggio di accettare un lavoro incerto, ma stimolante, come architetto free lance in Svizzera, rinunciando a un posto sicuro e prestigioso alla Sovrintendenza dei Beni Culturali in Sicilia. Un ambiente che però non gli dà più stimoli. Decide di “tuffarsi” in una nuova avventura. Lui, poi, che ha sempre avuto paura dell’acqua, durante un seminario di Gianni in Sardegna, impara a nuotare. Il mare aperto non gli fa più paura.
Nascere per me non è stato facile, a causa del cordone ombelicale che mi stava strozzando. Meno male che eravamo all’ospedale, fatto molto insolito per l’epoca. Mio padre, due giorni prima, a seguito di un primo tentativo di parto non riuscito, aveva insistito per il ricovero in ospedale, imponendo la sua volontà a mia madre, fatto anche questo insolito e quasi unico.
In ospedale, in qualche modo, riuscirono a tirarmi fuori, ma ero mezzo asfissiato e tutto nero. Mi misero nell’incubatrice. Dopo un tempo che non so quantificare, mi portarono al letto di mamma.
«Ci credevate che ve lo portavo vivo?» disse la levatrice a mia madre.
Dopo il mio “arrivo” traumatico, nell’adolescenza le cose non andarono tanto meglio: una serie di lutti nel mio nucleo familiare lo assottigliarono strada facendo. I partecipanti ai grandi pranzi di famiglia diventavano sempre meno numerosi. Morirono due zii, il nonno paterno, una zia acquisita, la nonna paterna, il nonno materno... Poi c’erano quelli che sparivano perché emigravano, come la mia zia preferita, sorella di mia madre, e altri due zii. Mia madre, poverina, me la ricordo sempre vestita di nero, un lutto finiva e uno cominciava. A volte si accavallavano. In questo via vai di anime, io ero l’unico bambino. Tutti gli altri parenti erano adulti. Non solo figlio unico, ma nipote unico per lunghi anni.
In particolare, la prima della lunga serie di morti, quella di mio zio paterno, fu un trauma profondo sia per me che per tutta la famiglia. Zio morì giovane, all’improvviso, mentre era all’ospedale per dei controlli. Probabilmente un’iniezione sbagliata.
Io avevo cinque anni. Eravamo solo io e mamma, quando accadde. Mia madre mi aveva portato con lei a fargli visita all’ospedale di una città vicina. Il giorno successivo doveva uscire. Mamma era disperata, continuava a ripetere: «Come faccio a dirlo a mia suocera?».
Poco dopo arrivò mio padre, ma questo non lo ricordo bene. Ricordo invece che, ad un certo punto, ero in macchina con mia madre. Dai discorsi degli adulti capivo che dietro di noi c’era un’altra macchina, nella quale mio padre era seduto accanto al corpo morto di suo fratello. Era riuscito a farlo uscire subito dall’ospedale, senza aspettare i giorni dell’autopsia, con l’aiuto dei soliti amici degli amici. Con loro, aveva architettato una macabra messa in scena: aveva fatto credere a tutti che suo fratello fosse ancora vivo e che sarebbe poi morto durante il viaggio.
Non ricordo cosa accadde appena arrivammo a casa, ricordo però che nella prima macchina c’ero io con mia madre e nella seconda, con mio padre, viaggiava anche il corpo di zio.
Ricordo che il giorno successivo, come si usa ancora dalle mie parti, il suo corpo morto fu esposto su un lettino in una stanzetta al piano terra della nostra enorme casa. C’erano parenti e amici seduti intorno al letto dove zio giaceva disteso. Un fazzoletto gli copriva la faccia. Odore di fiori e di aria chiusa. Io me ne stavo seduto in silenzio, come tutti gli altri. A un certo punto, chiesi a una signora accanto a me perché zio avesse il fazzoletto sulla faccia.
«Perché c’è una mosca che si potrebbe poggiare sulla sua bocca e dopo sulla tua» rispose lei.
Intanto io guardai il corpo di zio. Dal mio punto di vista, lo vedevo disteso un po’ più in basso del mio occhio. Vedevo le scarpe, il vestito e quello strano fazzoletto che gli nascondeva il viso. Mi chiedevo dove fosse la mosca. Non la vedevo da nessuna parte. Intorno a me erano tutti vestiti di nero, parlavano sottovoce, piangevano. Io mi sentivo obbligato a piangere come loro, ma non mi scendevano le lacrime. Mi sentivo in colpa per questo. Presi in mano uno dei miei giocattoli, due pugili scorrevoli su un piccolo ring di profilo, senza spessore. Avevo tanti giocattoli. Mamma diceva che ero viziato. Lo diceva a tutti quelli che venivano a trovarci. A un certo punto, tenendo in mano quel giochino, mi venne un’idea: finsi nella mia mente che quello fosse l’unico gioco che avevo. Così, divenni subito triste e finalmente mi scese una lacrima. Mi sentii un po’ più a mio agio, un po’ più uguale agli altri. Amalgamarmi agli altri, per me, è sempre stato difficilissimo, a cinque anni come in tutti gli anni a venire. Il caso, poi, non mi aiutò granché. In quella tragica vicenda, ad esempio, quando arrivò il carro funebre a prendere zio, gli adulti decisero che io non dovevo assistere alla scena e mi portarono da un vicino di casa. Costui, ligio all’incarico ricevuto, non solo non mi fece vedere quello che stava succedendo ma, per maggiore sicurezza, mi fece mettere a faccia in giù con la testa schiacciata contro una sedia. La sua casa era proprio accanto alla nostra quindi, anche se non vedevo quello che stava accadendo, sentivo comunque i pianti dei parenti e il motore del carro funebre. Ricordo ancora bene la sedia ruvida contro la mia faccia.
Questo evento condizionerà profondamente i successivi decenni della mia vita, in modi diversi via via che gli anni passavano. La mia infanzia non fu facile, come accennavo sopra.
A parte queste tristi vicende, la mia salute destava grande preoccupazione. Una febbre dopo l’altra, un dottore dopo l’altro, mesi di assenza da scuola... nonostante questo, a scuola andavo bene. Non studiavo mai, ma ero sempre il primo della classe. Apprendere mi veniva facile. Il problema era socializzare con gli altri. Per fortuna erano i miei compagni ad avere bisogno di me a scuola. Così, in qualche modo, ero anch’io parte del gruppo.
Avevo otto anni quando l’ennesimo dottore, un tedesco che esercitava a Messina, mi vide entrare dalla porta e capì subito la mia patologia.
Mi guarì in poche settimane. I miei genitori, da quanto erano felici, volevano regalargli la casa, ma lui non volle essere pagato.
«Quando l’ho visto entrare dalla porta, ho capito cosa aveva vostro figlio, ma temevo fosse tardi per intervenire e che sarebbe morto. Ringraziate prima Dio e poi me» disse il dottore ai miei genitori.
Ricordo bene quel grande medico: i mobili massicci dell’ampio studio, la tartaruga che teneva sotto il tavolo. Dopo la mia guarigione, periodicamente papà e mamma gli portavano dalla nostra campagna cose buone e genuine, che lui apprezzava molto. Poi un triste giorno, avevo forse undici anni, la cameriera non ci permise più di vederlo. Il grande uomo era molto malato. Quella fu l’ultima volta che vidi lui e la sua casa. Di lì a poco, venimmo a sapere che il dottore era morto.
Devo la vita a quell’uomo. La devo a Dio e a lui. È strano, ma solo ora che sto scrivendo questa vicenda, capisco quale doveva essere il senso profondo e nascosto delle parole del dottore e intuisco il suo delicato mondo spirituale. Grazie di tutto, caro Professore.
Dopo l’Università e gli studi al Conservatorio, lavorai per alcuni anni come architetto libero professionista, finché vinsi un concorso ed entrai alla Soprintendenza ai Beni Culturali. Un lavoro sicuro, ben pagato e affascinante, che mi portò a contatto diretto con la storia e con le opere di altri come me, che restaurano con amore ed emozione chiese, palazzi, affreschi, mura di antichi teatri greci.
A trent’anni mi sposai con una donna bellissima, che amavo profondamente. I primi anni di matrimonio furono belli e intensi, coronati dall’arrivo di due splendide bambine. Qualcosa, però, mancava e non era un dettaglio. Io volevo una famiglia tutta nostra, un nucleo familiare che mi desse sicurezza e calore. Invece eravamo un po’ come dei nomadi, spessissimo dai genitori di mia moglie. Non dò le colpe solo a lei. Anch’io ho avuto le mie responsabilità. Lei era molto giovane quando ci siamo sposati ed è sempre rimasta molto “figlia” della sua famiglia originaria. La mia “colpa” è stata soprattutto quella di non riuscire a parlare e a impormi. Ho sempre avuto un’enorme fiducia in me stesso. So che posso ricominciare ovunque ed essere felice, di fronte a qualunque difficoltà. Per questo, forse, non mi sono mai impegnato molto a sistemare o migliorare i miei rapporti umani. Preferisco andarmene, tanto vivere da solo mi riesce bene. Fatto sta che, in quei primi anni di matrimonio, decisi di assecondare i desideri di mia moglie e dei suoi parenti, fermandoci per molto tempo a casa dei suoi. Portai molta pazienza e concentrai tutte le mie attenzioni sulle nostre figlie. È stato meraviglioso vederle crescere e imparare da loro. Le ferite della mia infanzia si sono in gran parte rimarginate spontaneamente vedendo crescere le bambine. I loro ragionamenti, le loro meravigliose considerazioni, i nuovi punti di vista sulla vita e sulle cose... i loro abbracci, i regalini, le letterine. I tre giorni più belli della mia vita sono stati il giorno del mio matrimonio e i giorni in cui sono nate le nostre figlie.
La mia famiglia, però, non era diventata come mi aspettavo. La separazione fu la triste conseguenza del mio disincanto. Certo, la famiglia di mia moglie era composta da tante persone simpatiche ed era un piacere stare in loro compagnia. Soprattutto, ho sempre avuto un rapporto bello e speciale con mio suocero, ma anche con gli altri parenti i rapporti sono sempre stati buoni, anche dopo la separazione. Avere la propria famiglia, però, la propria privacy, è tutta un’altra cosa. Tornare a casa in un luogo curato, ordinato, caldo e accogliente, avere la voglia di tornare a casa, il piacere di farlo. Questa sensazione l’ho avuta prima del matrimonio, quando abitavo da solo, e dopo il matrimonio, quando tornai ad abitare da solo. Non durante il matrimonio e, ripeto, in buonissima parte fu una mia mancanza. Avrei dovuto impormi: in fondo, ero più grande di mia moglie di otto anni e teoricamente più maturo. Inoltre lei, che era una donna indipendente quando l’avevo conosciuta, negli anni finì con l’appoggiarsi su di me in tutto e per tutto. Pensandoci bene, questa è una cosa che le donne hanno sempre fatto con me, anche quelle che sono arrivate dopo. Forse sono io a selezionarle in un certo modo o a spingerle in questa direzione. Quando discutevamo, mia moglie si metteva a piangere e se ne andava sul divano. Io ero terrorizzato dall’idea che potesse buttarsi di sotto e andavo a consolarla. Col tempo, capii che era meglio evitare le discussioni, tanto le cose non si risolvevano e in più dovevo pure consolarla. Così, tra incomprensioni e discussioni, naufragò un matrimonio che era partito sotto i migliori auspici. C’erano state tentazioni esterne? Sì, fin dal primo giorno. Ho sempre avuto un certo successo con le donne, ma le tentazioni non avevano sortito alcun effetto finché il matrimonio era stato solido. Non avevo mai tradito mia moglie, né ebbi mai intenzione di farlo. Quando le cose tra noi andarono peggiorando, le altre donne mi apparivano come un miraggio bello e lontano, ma che mi dava la forza e la speranza che l’amore non fosse perduto per sempre. E così fu. Dopo la separazione, l’amore tornò più volte a bussare alla mia porta, con la sua forza dirompente, con la sua gioia intensa e il suo profondo dolore.
L’interesse per la filosofia, gli interrogativi sulla natura umana e l’esistenza in generale cominciarono a svilupparsi molto presto. Ricordo i tanti discorsi filosofici di mio nonno materno, grande muratore costruttore. Quando ci fu lo sbarco sulla luna, eravamo i soli della famiglia svegli davanti al televisore. Io avevo quasi undici anni. Anche mio padre, in misura minore, aveva dei momenti di ispirazione e se ne usciva con considerazioni che mi arricchivano. Poi, verso i sedici anni, scoprii casualmente un libro di Yoga. Iniziai a praticare da solo quella affascinante disciplina, seguendo le istruzioni del libro. Da subito lo Yoga ebbe un’eco profonda dentro di me. Si risvegliarono sapori ed emozioni intensissime. La pace che provavo era impagabile. Purtroppo, però, quell’entusiasmo non durò a lungo. In pochi mesi, gli effetti benefici dello Yoga scomparvero e io smisi di praticarlo.
Verso i ventidue anni lessi un libro di Lowen sulla bioenergetica: fu amore a prima vista. Mi iscrissi a un seminario con un bravo terapeuta di Bologna che praticava questa affascinante disciplina. Durante il seminario, vissi la mia prima fortissima catarsi. Frequentai altri due o tre seminari con lui, anche se non sarebbe stato così necessario, perché mi sentivo davvero bene. Il processo di crescita interiore era ben avviato e andava avanti quasi da solo, prendendo spunti dalla vita quotidiana, dai libri, dagli incontri con persone speciali. Con lui ebbi l’occasione di leggere i libri di grandi maestri spirituali, Osho, Lao Tzu e Krishnamurti, che sono stati davvero grandi fari dell’umanità. Ho letto molti dei loro libri, che mio padre minacciava di bruciare quando litigavamo. Giulio mi ha trasmesso l’insegnamento più grande, racchiuso in una frase che quasi tutti snobbano: “Noi prendiamo la nostra energia dagli altri, non lo avete ancora capito?”. Io lo considero un piccolo grande segreto dell’Universo. Fu allora che lo Yoga tornò con la sua forza dirompente nella mia vita, grazie all’incontro con un vero grande Maestro, il Maestro Scandurra, che mi avviò allo Yoga mentale e alla meditazione. Insegnava a Roma, in via Veneto, e la sua scuola era frequentata dalla Roma bene. Era molto costoso, ma non mi fece mai pagare per frequentare i suoi corsi. Io avevo appena terminato gli studi ed ero a Roma per la leva militare. Ancora non avevo nemmeno iniziato la mia professione ed ero un giovane squattrinato. Il Maestro mi insegnò tante tecniche, ma una in particolare divenne una seconda natura per me. Posso chiudere gli occhi e non pensare a nulla per qualche secondo. Molto salutare. Tanti dicono che non è possibile, perché se non pensi stai pensando di non pensare e quindi stai pensando, ma non è affatto così. Credo che tutti possano sperimentarlo.
Dopo l’esperienza con il Maestro Scandurra, ci fu una lunga pausa, di oltre un decennio. Come ho detto, però, il processo di crescita continuava in autonomia, come una pianta che si sviluppa prendendo i nutrimenti dall’ambiente circostante.
Poco dopo i quarant’anni, si aprì un periodo problematico per me, quello della separazione da mia moglie.
Proprio allora, in quei giorni turbolenti, degli amici mi invitarono a un seminario di Gianni. Decisi di andarci, così, con l’aria di sufficienza di chi ha già vissuto queste esperienze ad alti livelli e non si aspetta nulla di particolare.
Sorpresa, sorpresa! Gianni mi sb...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Lettera a un Amico
  3. Nota dell’Autore
  4. 1. Nino
  5. 2. Irene
  6. 3. Angelo
  7. 4. Mirko
  8. 5. Gabriella
  9. 6. Bertrand
  10. 7. Giovanna
  11. 8. Silvano
  12. 9. Alex
  13. 10. Maria
  14. 11. Domenico
  15. 12. Ennio
  16. 13. Cristina
  17. 14. Maurizio
  18. 15. Stefano
  19. 16. Chiara
  20. Ringraziamenti