Ritratto di Kit Brandon
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Ritratto di Kit Brandon

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Ritratto di Kit Brandon

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Forse sentiva in cuor suo il convincimento crescente che nella vita della fabbrica era negata ogni possibilità di sviluppo a qualcosa dentro di sé, che restava lì soffocato, il convincimento comune oggigiorno a tanti americani della giovane generazione, che è sparita l'epoca delle buone occasioni, distrutto l'antico mito secondo cui in America è dato a chiunque di salire a vertiginose altezze di splendore.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788831384421
1.
Kit parlava poco e raramente di suo padre. “Il babbo,” lo chiamava certe volte, e cert’altre diceva “mio padre”. Dopotutto, quand’io la conobbi, Kit era cambiata da capo a piedi in seguito alle sue esperienze nel gran mondo. Aveva i suoi punti di vista, le sue idee particolari, e a me parvero piu concrete della maggior parte delle idee di noi tutti.
D’altronde le mancava qualcosa, che non era la cultura in senso stretto. “Accidenti alla cultura,” così si sarebbe espressa.
La sua storia imparai a conoscerla un po’ alla volta, a frammenti. Stemmo insieme appunto per questo, perché l’ascoltassi come l’ennesima tra le tante storie curiose, terribili, sciocche, appassionanti o straordinarie che chiunque potrebbe raccontarti sol che ne fosse capace.
“E va bene, dunque ti parlerò di quando ero bambina, se mi lasci guidare la macchina.”
Questo accadde quando venne a trovarmi d’inverno, all’epoca in cui scrivevo una serie d’articoli per una rivista sulle condizioni del South Dakota. Era l’anno della lunga e tremenda siccità in quella zona, dei turbini di polvere, poderi sepolti da cima a fondo, palizzate sepolte sotto cumuli di sabbia e polvere; fu durante l’inverno successivo. Kit arrivò col treno e c’incontrammo in una cittadina.
“Lasciami guidare.
Penso meglio quando guido la macchina. Lo faccio da tanto tempo.
Abitavo col babbo, la mamma, due sorelle e un fratello minori di me, in una casupola sui monti del Tennessee orientale. Lassu mio padre aveva un poderetto e era ormai vecchio, vecchio per prender moglie, voglio dire, quando sposò la mamma, ch’era molto giovane. Lei aveva solo diciassett’anni e lui doveva essere sui trentacinque.
Era già stato sposato, ma dalla prima moglie non ebbe figli, e quindi non contava.
Buffo davvero se ci si pensa, ch’io non abbia avuto figli, coi rischi che ho corso senza mai stare attenta.
Dicevo dunque di una casupola, al disotto di una grande strada maestra che saliva su per la montagna. La casupola dava su una stradicciola tutta sassi e rotaie.
E avevamo una mucca e un granaio giusto sul margine della stradicciola, e anche un cavallo. Cavalli ce n’erano a bizzeffe.”
Kit rise, con quella sua risatina strana e fredda che aveva solo parlando del padre. Era vicina ai trent’anni quando ci frequentammo durante le giornate rigide e ventose nella terra desolata del South Dakota.
“Il babbo non finiva mai di trafficare in cavalli. Era il suo passatempo, la sua passione, il suo modo di metter qualcuno nel sacco o di esserci messo lui. Montava sul nostro vecchio ronzino, e via. Poteva darsi che qualcun altro, che abitava dalle nostre parti, lo accompagnasse su un altro ronzino. A volte spariva per giorni di fila. Badava al suo commercio. Il che significava veder gente, altri uomini, e stare in mezzo a loro; ed anche bere in compagnia, mostrare quanto sei in gamba.”
Descrisse la casa in cui abitò da piccola. Le sue parole rievocarono una catapecchia sudicia e sciatta, e riusciva difficile capacitarsi che ci avesse vissuto, lei che era cambiata a quella maniera, che era divenuta così snella e piacente, così eretta, così curiosamente bella, a modo suo. Secondo lei, non doveva aver saputo o notato gran che quand’era piccola.
A dispetto della miseria, suo padre portava sempre la tuta, anche di domenica, tutta toppe e rammendi: se la rattoppava e ricuciva da sé, disse Kit; a dispetto di ogni cosa, aveva sempre l’aria pulita.
Il padre, mi spiegò Kit, era un ometto asciutto dai capelli neri, durissimi. Gli stavano ritti e ispidi sul capo e li teneva rasati a dovere, “come l’erba nel cortile di una casa, che si taglia una volta alla settimana”, disse, ed era scuro di carnagione.
Somigliava ad un italiano, o forse a un greco, non sembrava un americano.
“Aveva i denti più bianchi che si possano vedere in bocca a un uomo, e tutti sani.”
Nella casa di montagna lei aveva passato l’infanzia e la prima adolescenza e, nonostante le successive avventure, la figura del padre le era rimasta fortemente impressa nella memoria. “Capisci, io somiglio alla mamma, alta e un po’ secca”; sorrise usando la parola “secca” per descrivere il proprio corpo esile e aggraziato, richiamandoci su l’attenzione a quella maniera, come si compiacciono di fare tutte le donne; “ma somiglio anche al babbo. Sono scura come lui e ho i denti buoni, e i capelli neri com’erano i suoi.”
Colsi delle immagini della sua vita d’allora, mentre Kit discorreva guidando la mia automobile, spesso per sudice strade, nei giorni pungenti d’inverno, ed io interrompevo il colloquio quando arrivavamo ad una città.
Erano delle immagini spezzettate, quelle che lei mi dava: una strada di montagna che saliva da una valle del Tennessee orientale, prima che codesta regione venisse industrializzata, prima che le fabbriche spuntassero in molte cittadine a prendersi e a sfruttare la mano d’opera a buon mercato venuta dai monti.
Una strada di montagna che saliva e saliva per quindici o venti miglia fuori da una valle di pochi ricchi poderi e agricoltori, una strada tutta giravolte. Potevi seguirla su per parecchie montagne, attraverso poche fertili valli, lungo miglia interminabili di foreste irte di sottobosco, magari fermandoti per ammirare la vista da qualche cima, e in capo a settanta o a ottanta miglia giungevi a Knoxville del Tennessee. Non era selciata ma molto aspra, durante l’infanzia di Kit. Oggi è divenuta un’autostrada.
“E laggiu nella valle, a circa diciotto miglia da noi,” spiegò Kit, “era la prima città ch’io abbia mai visto.” Soltanto a quindici anni le si presentò l’occasione d’andare in città. “A quei tempi non c’erano molte fabbriche, ma ora hanno impiantato un’industria del rayon.”
Soggiunse poi che ancor oggi si può viaggiare sulla grande strada da Asherville nel North Carolina a Knoxville nel Tennessee, l’attuale sede della TVA1, centro degli sforzi del governo di ricostruire, di riplasmare l’esistenza di un’intera popolazione, i montanari degli Appalachiani Meridionali, percorrendo per duecentocinquanta miglia una zona identica a quella in cui lei era cresciuta, “e tu diresti fra te che lassù non ci vive nessuno, che non potrebbe viverci perché non riuscirebbe a campare, ma sbaglieresti di grosso.”
Spiegò che quando era piccina, un mucchio di gente, migliaia e migliaia di persone, vivevano nella stessa maniera della sua famiglia, “se si può chiamar vita,” soggiunse. Stava stretta ai suoi monti, una popolazione aff...

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