La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"
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La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"

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«Quello che ne La 'Santa' violenta era indagine, è diventato sentenza. Quello che era intuizione è diventato analisi. Quello che era rischio è spesso diventato realtà…». La 'Santa' violenta è stato uno dei primi testi sulla 'ndrangheta, pubblicato nel 1991, dopo la stagione dei sequestri di persona e la cosiddetta "pax mafiosa". Ripercorre con lucidità, empatia e spunti critici, quella che è stata la trasformazione della 'ndrangheta in Santa, un'organizzazione criminale che non si accontenta più dell'accumulazione di denaro, ma vuole usare quel denaro per conquistare fette di potere, politico ed economico, in Calabria e altrove. Questa trasformazione, ci racconta Pantaleone Sergi, è stata certamente violenta. Trent'anni dopo, alla penna esperta di Pantaleone Sergi, che la storia della 'ndrangheta negli anni Settanta, Ottanta e Novanta l'ha narrata in diretta, si accompagna un'analisi critico-accademica di Anna Sergi, criminologa, docente all'Università di Essex nel Regno Unito, e affermata ricercatrice del fenomeno mafioso e 'ndranghetista in Italia e all'estero. Anna Sergi riprende l'eco della violenza mafiosa che La 'Santa' violenta aveva raccontato e si chiede cosa sia cambiato. La Santa 'ndrangheta è ancora violenta? Adesso «la 'ndrangheta è una mafia a cui piace piacere, non spaventare, se non quando è strettamente necessario». E se non è più violenta, cosa fa, cosa è diventata? È diventata, tra le altre cose, una Santa 'contesa' per quattro motivi: l'unitarietà, la violenza dei clan, la loro mobilità e l'essenza stessa della Santa, come organizzazione cerniera con politica ed economia del territorio. Queste pagine – la Santa 'contesa' e la Santa 'violenta' – lette in successione, ci ricordano quanto sia fondamentale preservare la memoria storica di certi anni per arricchire le analisi di oggi.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9791220500241
Categoria
Sociologia

1991 - Parte seconda

pantaleone Sergi
La ‘Santa’ violenta
Storie di ’ndrangheta e di ferocia,
di faide, di sequestri,
di vittime innocenti

Premessa

Quella testa mozzata che vola per aria e diventa il bersaglio di un tragico tiro a segno per un sicario ottuso, con più eloquenza ha svelato all’Italia intera il volto barbaro della Santa, la ’ndrangheta calabrese che, in quanto a ferocia, in passato aveva dato ampia dimostrazione della propria brutalità sanguinaria utilizzata come strumento primario per imporre il potere criminale. Senza comunque suscitare tanti sdegni come nella mattanza di Taurianova dell’inizio di maggio 1991.
La ’ndrangheta è capace di mille e mille violenze.
Ci sono infatti torture e lividi che non si vedono, che non segnano il corpo, ma toccano il cuore, piagano la psiche. Queste violenze visibili e invisibili, che si abbattono sulle vittime della ’ndrangheta, sono quelle che sul piano emozionale colpiscono di più chi come me, cronista al fronte delle guerre di ’ndrangheta, è costretto a seguire da anni le vicende insanguinate di faide infinite e le sopraffazioni dell’anonima sequestri che martella con sadica barbarie i sentimenti dei familiari dei rapiti dominando con crudeltà i propri ostaggi i quali non sempre riescono a superarare senza danni questa oppressione interiore rimanendo, perciò, traumatizzati a vita.
Vent’anni di cronaca nera mi sono passati davanti scrivendo con presunzione le pagine di questo libro come in un lungometraggio fatto di scene atroci, raccapriccianti e granghignolesche, di bestialità e inumanità. Sono cronache di bieca criminalità che spesso hanno come sfondo la maestà di una montagna divina trasformata in inferno, teatro di truci gesta dove qualcuno vi ha voluto ambientare vicende nibelungiche, elevando l’Aspromonte a dimora del crudele Signore dei Patti, del Dio Wotan cioè, negatore del Regno della libertà.
Questo è un libro che ha due soli obiettivi fondamentali:
1) cercare di documentare dal vivo, sulla base di episodi grandi e piccoli di cronaca, il cambiamento avvenuto nella ’ndrangheta col passaggio da una società contadina a una società post-industriale, senza essere per giunta passati dal momento dell’industrializzazione, e il progressivo accentuarsi dei momenti violenti che ormai caratterizzano l’azione delle cosche;
2) ordinare una massa di materiale sulla struttura e sulla organizzazione interna della mafia calabrese e aggiornarla con le ultime documentazioni offerte dai grandi processi che sono stati celebrati e che, per esempio, hanno fatto vedere come le cosche siano diventate una moderna holding da almeno 40 mila miliardi di lire di sporchi affari, senza per questo dover rinunciare al passato, mantenendo intatto l’alone di mistero che circonda ogni società segreta e non solo quelle a delinquere, e mantenendo soprattutto i riti di iniziazione, la “sacralità” di ogni cerimonia che riguarda la vita intima del clan. È un dato sconcertante questo. Nel mentre si è assistito alla mondializzazione di una organizzazione che ha sempre fatto del delitto la propria ragione di esistere (anche fino agli anni Sessanta nel proprio statuto non scritto aveva alcune regole, alcuni “valori”, da conservare e da preservare dalla modernità come la non violenza contro le donne e i bambini) si è accentuato l’ancoraggio pesante al passato, grazie a una “religiosità” profondamente vissuta, che ha portato recentemente i nuovi mafiosi a ribattezzare “Santa” la ’ndrangheta, quella stessa organizzazione che quotidianamente mostra solo un volto violento.
* * *
Pur avendo tentato di sistematizzare storicamente il fenomeno della mafia in Calabria, di averne raccontato i mutamenti, il suo insinuarsi nella società, negli affari e nella politica per condizionare con un controllo diretto la vita stessa della regione, questo, comunque, non è un volume sulla storia della ’ndrangheta. Mi hanno colpito gli aspetti legati alla violenza, all’incalzante offesa visibile e non visibile contro le donne, contro i bambini, i derelitti, gli afflitti (e contro i defunti) che in base alle vecchie “regole” della Società dovevano essere esclusi dalle lotte a colpi di lupara e da qualsiasi espressione di reato. La nuova ’ndrangheta è violenta. La «Santa» è violenta. Senza con questo voler assolvere la vecchia “Onorata Società” e assegnarle valori etici che non ha certo avuto (una setta di assassini era prima, una setta di assassini è rimasta dopo il passaggio dal momento agrario a quello dei grandi affari e della droga).
La ’ndrangheta, insomma, era ed è una associazione a delinquere che vuole ricchezza, che cerca il potere per acquisire sempre maggiore ricchezza e che per questo si schiera con i forti e con i potenti per sopraffare e travolgere con spregiudicata e lucida scelleratezza chi, anche passivamente, si viene a trovare sul suo cammino. E tra le consorelle mafie italiane (e internazionali) è quella che per raggiungere i suoi fini dispiega un enorme potenziale di violenza di ogni tipo. È insomma una “disonorata società”, che fonda il proprio potere sulla lupara e sulla paura che riesce a provocare, che fa uso delle azioni più abiette, condite di cinica ferocia, come assassinii, rapimenti, traffico di droga, eccetera eccetera, in una antologia del crimine che non trova pari nel mondo, per superare quella che qualcuno giudica come “vigliaccheria di fondo”.
* * *
Negli ultimi anni si è affermata poi un’altra forma di violenza che si esprime soprattutto contro chi va alla ricerca disperata del lavoro e trova sulla sua strada lo sbarramento o, quando gli va bene, lo sfruttamento delle imprese mafiose che sempre più dominano il mercato. Il controllo mafioso sugli appalti, l’ingresso negli affari del nuovo mafioso che naturalmente con la violenza cerca di eliminare ogni tentativo di concorrenza, la formazione quindi di un potere inedito sia politico che sociale ed economico, ha creato una situazione in cui il “ricatto del lavoro” si esprime in maniera ancor più vistosa, tanto che la mafia trova spesso nuovi adepti nei grandi serbatoi di bisogno delle aree urbane più disastrate.
* * *
Lo scenario mafioso è sotto gli occhi di tutti, di chi vive in provincia di Reggio in particolare. Quasi sempre non offre spazio alla ribellione, spesso neppure delle coscienze. Si assiste, anzi, a una triste assuefazione. Si “accetta” il fenomeno, si accetta la violenza come un evento ineluttabile, come si deve accettare il giorno o la notte, un giorno di sole o di tempesta. Si uccide sempre di più, le guerre di mafia dilagano, si fanno stragi. Spunta qualche isolata indignazione. E si va avanti. Si rimane in attesa fatalisticamente che qualcosa cambi e si assiste a un nuovo delitto, si attendono i titoli neri sui giornali. A Laureana di Borrello, nella Piana di Rosarno, ormai conosciuta come Piana di Gioia Tauro, belve mafiose trucidarono una bambina. Tutto passò sotto silenzio. Al funerale c’era solo la gente semplice, tanta gente del paese. C’era di che indignarsi. Dov’erano i rappresentanti delle istituzioni? Scrissi un pezzo indignato. Fu una scudisciata per politici, per sindacalisti, per i professionisti dell’antimafia che una settimana dopo affollarono una manifestazione organizzata dai giovani di Laureana per testimoniare solidarietà alle vittime della barbarie.
Ma non sempre per fortuna c’è disattenzione. Qualcosa lentamente si muove. Soprattutto tra i giovani, sempre in prima fila nelle battaglie di civiltà.
E questo libro vuole essere anche questo: un contributo a queste battaglie, un contributo fatto di denuncia di drammi umani personali e collettivi.
* * *
Debbo molto a tanti. A Giuseppe e Angelo Gallizzi, colleghi del Corriere della Sera e de La Notte ma soprattutto amici che mi hanno iniziato a questo mestiere. Quindi a Paolo Guzzanti che mi ha dato i ferri per lavorare e a Lorenzo Salvini che ha “disciplinato” la mia esuberanza professionale: entrambi furono miei caporedattori a Il Giornale di Calabria diretto da Piero Ardenti, durante una felice esperienza nelle nebbie di Piano Lago. Sono grato anche a Franco Magagnini, Mauro Bene, Franco Recanatesi, Alfredo Dondi e Nando Ceccarini, in tempi diversi responsabili della cronaca di Repubblica: con le loro sollecitazioni mi hanno spinto a lavorare con crescente impegno su questi temi per cercare di capirli sempre più e sempre meglio e poterli così raccontare sulle pagine del giornale.
Un grazie di cuore a Giampaolo Pansa, maestro di giornalismo, che mi ha incoraggiato a cimentarmi nella scrittura di questo libro e ha poi voluto avere in anteprima il dattiloscritto per le sue osservazioni.
Ma debbo molto anche, e soprattutto, ad alcuni colleghi calabresi in un certo senso “autori occulti” di queste pagine: mi hanno aiutato fornendomi osservazioni, testi e loro articoli su un problema che in questa regione viene vissuto con enorme tristezza anche perché non si intravede la fine del tunnel.
Ringrazio quindi Franco Calabrò, Antonio Delfino, Sharo Gambino, Aldo Varano, Filippo Veltri. Un grazie particolare debbo a Gianfranco Manfredi: è stato lui a leggere la prima stesura del volume, a intervenire con la forbice, a consigliare integrazioni e revisioni, a darmi consigli di cui mi sono ciecamente fidato data la comunanza di interessi e di sentimenti, culturali e professionali, sul tema della ’ndrangheta.
L’elenco delle altre persone da ringraziare sarebbe lungo: si tratta di colleghi e amici anche di altre regioni, di studiosi, ricercatori, docenti che si occupano ognuno con le proprie competenze ei propri interessi del devastante fenomeno, professionisti di altri settori, come il medico Giuseppe Foco che ha visionato il dattiloscritto con la sensibilità dell’uomo che quotidianamente ha a che fare con i bisogni e le miserie umane. Ricordo per tutti Luigi Malafarina, l’amico e collega “Gigi”, scomparso prematuramente: per anni e anni è stato lui il punto di riferimento sicuro, certo, immediato per chiunque abbia dovuto scrivere sulla ’ndrangheta calabrese.
* * *
Prima di deciderne la pubblicazione ho voluto sottoporre però il testo a specialisti diversi: allo storico Saverio Di Bella e ai critici letterari Pasquino Crupi e Pasquale Falco. Si sono assunti (suggerendo ove necessario ritocchi da fare) la “responsabilità” di dirmi “va bene”.
Ma questo modesto lavoro, in ogni caso, non avrebbe visto mai la luce senza la pazienza delle tre donne di casa Sergi, di mia moglie Sisa e delle mie due bambine, Elida e Anna, alle quali ho sottratto attenzioni ma non amore.

1. Aspromonte & ’ndrangheta

Aspromonte impenetrabile. E quindi inviolabile. Come lo poteva essere l’isola della Tortuga in cui trovavano rifugio i pirati dopo i mille assalti ai galeoni carichi d’oro e di ricche mercanzie. «Anche se ci trasferissimo in massa in quelle zone», spiegò qualche anno fa l’ex comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Roberto Jucci in una intervista a Paolo Guzzanti su La Repubblica, «non riusciremmo a estirpare il bubbone (della ’ndrangheta). Puoi invadere l’Aspromonte, ma non serve a riportare sotto il controllo dello Stato un territorio selvaggio di cui nessuno ha un’idea precisa». Come spiegare il pessimismo dell’alto ufficiale, secondo cui sull’Aspromonte non esiste neppure una vera strada e «non c’è niente di niente come ai tempi di Omero»? Visto dall’alto, con un volo radente che si modella ai saliscendi naturali, l’Aspromonte appare compatto e inaccessibile, con una vegetazione quasi ovunque fitta come quella amazzonica. È considerato il regno dei pirati del Duemila che assaltano la società opulenta e qui si asserragliano per custodire gli ostaggi con cui, in molti, dividono una vita primordiale, fatta di capanne e di silenzi.
Sorvolando le cime aspromontane, verso le “trincee” antisequestri, sulla retta che da Reggio Calabria idealmente porta a Cànolo Nuovo, paesino situato a mille metri di quota laddove l’Aspromonte si salda alle Serre, il panorama è così bello da mozzare il fiato: spettacolari cascate, laghetti naturali dovuti a singolari fenomeni idrogeologici, canyon impressionanti, fantastiche pietre dalle forme strane, straordinarie distese di pini aguzzi che si presentano come enormi e minacciosi spilli puntati verso il cielo, formazioni miste di faggio e abete bianco e di faggio e pioppo nelle zone demaniali del Parco nazionale della Calabria, uliveto fino ai 900 metri quasi a contendere sui pendii lo spazio a faggi e lecci che coprono come un manto verdissimo e impermeabile la montagna. E ancora pianori gialli d’alta quota, dove s’intravede l’unico paesaggio “umanizzato”, immenso e arato con motivi che a volte richiamano alla mente quelli realizzati sulla tela da una paziente ricamatrice, a volte gli schizzi di un pittore bizzarro. In volo, dall’elicottero, si ha una perfetta visione d’insieme che permette di scrutare particolari del paesaggio forse impossibili da cogliere tutti in una volta anche mediante un attento viaggio in auto: dapprima risalendo il pendio dove la città si lascia alle spalle l’azzurro dello Stretto e allunga i suoi tentacoli abitativi; poi toccando Gambarie, la sua stazione sciistica e la grande antenna della tv di Stato, le tormentate pendici del Montalto che i geologi definiscono “sconnesse e franose” quanto selvagge alla base, il vecchio Sanatorio “Vittorio Emanuele III” dai tetti ancora in parte sfondati per gli anni d...

Indice dei contenuti

  1. Presentazione
  2. 2021 - Parte prima
  3. 1991 - Parte seconda