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Parlare oggi di «sinistra», come fa Edgar Morin, dovrebbe portarci a concepire una via d'uscita dalle turbolenze di un'economia capitalistica scatenata, dalla degradazione della biosfera, dal montare delle paure e dei razzismi, cogliendo la possibilità, disponibile per la prima volta nella storia dell'umanità, di una comunanza di destino e di una patria terrena comune. Ogni cultura è fatta non solo delle sue illusioni e carenze, ma anche di qualità e ricchezze. Bisogna dunque mondializzare, cioè favorire le cooperazioni economiche, sociali e culturali, e al tempo stesso demondializzare, cioè alimentare le vitalità locali, regionali e nazionali. Bisogna mirare alle simbiosi culturali capaci di unire ciò che ciascuna di esse ha di meglio, operando una metamorfosi che leghi in modo indissolubile l'unità e la diversità umane.Interprete di primo piano della storia culturale e politica francese, Edgar Morin non è un autore che si pone domande banali. Dalla natura della conoscenza al senso della democrazia, passando per l'ecologia politica e le migrazioni, questa raccolta di saggi affronta le questioni più rilevanti del mondo odierno, con riflessioni che attraversano un arco di tempo ventennale, dalla fine degli anni Ottanta al primo decennio degli anni Duemila, un momento cruciale nella storia della sinistra.

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Informazioni

Editore
Il Margine
Anno
2021
ISBN
9791259820211

1.

Il grande disegno1

Per molto tempo, gli antagonismi ideologici e gli effetti melodrammatici sul palco dei comizi hanno potuto far credere che, fra le pratiche di governo di destra e di sinistra, ci fosse una differenza fondamentale. Si è poi finito per scoprire zone di consenso e possibilità di apertura da ambo le parti. Al tempo stesso, la politica tende, nel suo ambito interno, a ridursi alla sua gestione. Tuttavia, così come l’uomo non si nutre di solo pane, una società non si nutre di sola gestione.
La società si nutre anche di speranza, di mito, di sogno. Ora, la speranza di una rivoluzione socialista si è dissolta, dopo essere apparsa, con molto ritardo, come la percezione dell’esplosione di una stella morta dopo anni luce, poiché i sistemi detti socialisti hanno causato mali peggiori di quelli che pretendevano di avere abolito. Tutto sembrerebbe dunque condannarci a un pragmatismo alla giornata. Le possibilità di riformare attraverso mezzi politici una società come la Francia non si sono forse sempre più assottigliate, nella misura in cui il Paese è sempre più intimamente coinvolto nelle interdipendenze economiche e nella competizione internazionale?
E tuttavia, le nostre società denotano vizi sempre più gravi, e il mondo assiste al dilagare di antiche e nuove forme di barbarie frammescolate.
L’abbandono delle grandi illusioni non deve accontentarsi dell’illusione che ci si possa soddisfare di un pragmatismo alla giornata: deve invece indurre alla formazione di un grande progetto. Ciò è ben avvertito da coloro che in questa stagione auspicherebbero un «grande disegno». Il problema risiede nel fatto che i politici non vedono quel che pure è alla portata della loro intelligenza: la possibilità di formulare un grande disegno a partire proprio dal retaggio dell’evento che ci invitano a commemorare, quello del 1789.

Libertà, uguaglianza e il seguito

Persiste un enorme problema di civiltà che appare ancora infrapolitico alle concezioni politiche tradizionali, ed è quello dell’invasione pervasiva degli sviluppi tecno-burocratici nella vita della «società civile», ovvero degli esseri umani concreti. La società civile soffre tanto di più di questi sviluppi in quanto essi stessi hanno contribuito alla dissoluzione delle solidarietà tradizionali, senza tuttavia suscitare la formazione di nuove solidarietà.
Così, la grande famiglia si è disintegrata a vantaggio della coppia nucleare con uno o due figli; le solidarietà di paese o di vicinato si sono sgretolate; le solidarietà regionali si sono molto indebolite; la solidarietà nazionale, che ha sempre avuto bisogno della minaccia vitale del nemico «ereditario», si è assopita; la mutua protezione viene lasciata nelle mani delle istituzioni burocratiche nazionali, sollevando ciascuno da qualsivoglia responsabilità o iniziativa. Quando una donna viene aggredita e ferita per strada, tutti volgono altrove lo sguardo perché c’è la polizia che ha la missione di impedire le aggressioni e il Servizio sanitario di pronto intervento che ha il compito di trasportare in ospedale i feriti.
Così, si moltiplicano le sofferenze, ingenerate non solo da aggressioni fisiche ma da aggressioni di ogni genere, in un ambiente anonimo e brutale. Il senso di impotenza che si prova davanti agli sportelli che effondono voci metalliche preregistrate o dietro ai quali vi sono impiegati in carne e ossa ma snervanti, gli sprechi di tempo e di risorse, lo stress sempre più diffuso, tutto ciò contribuisce a un malessere che è esso stesso atomizzato nella percezione di chi lo prova; ciascuno si crede colpito da un disturbo singolare e assume pillole, tranquillanti, eccitanti, euforizzanti o va a farsi rimettere in sesto da medici, specialisti, psicoanalisti, psicoterapeuti, astrologi, yogi, guru. Il male della civiltà e della società, così atomizzato in mille sfumature psicosomatiche, diviene invisibile e incoglibile. E la vita continua trascinando inerzie, torpori, depressioni, nevrosi, miserie e disperazioni.
D’un tratto, l’atomizzazione degli individui in un mondo tecnoburocratico diventa un problema serio. Uno degli aspetti di questo problema è quello della solidarietà. Il pieno sviluppo dell’individuo ha bisogno di comunità e di solidarietà allo scopo di evitare, appunto, i mali dell’atomizzazione solitaria. Il Maggio del Sessantotto portava in sé la doppia aspirazione, apparentemente contraddittoria, «più libertà, più comunità», che era già nello slancio del socialismo del secolo xix e che aveva formulato in modo archetipico il motto della Rivoluzione francese: Libertà-Uguaglianza-Fraternità.
Aggiungerei che una società non può progredire in complessità se non progredisce nella solidarietà. In effetti, la complessità crescente comporta libertà crescenti, possibilità di iniziativa accresciute, possibilità di disordine sia feconde sia distruttrici. Il disordine estremo cessa di essere fecondo e diviene principalmente distruttivo, e l’estrema complessità si degrada in disintegrazione, gli elementi che la compongono si sfasciano e si smembrano. Il ripristino delle costrizioni può evidentemente mantenere la coesione del tutto, ma a scapito della complessità; la sola soluzione integratrice favorevole alla complessità è lo sviluppo della solidarietà autentica, non imposta bensì sentita intimamente e vissuta come fraternità. Può fare al caso nostro la formula di Walesa: «Niente libertà senza solidarietà».
Il motto Libertà-Uguaglianza-Fraternità è tipicamente complesso perché i tre termini complementari sono ugualmente antagonisti. Inoltre, ciascuno di essi afferisce a una logica politica differente: la libertà può essere assicurata da costituzioni e istituzioni; l’uguaglianza può essere più o meno determinata da decreti e leggi; ma la fraternità non può essere istituita per decreto. È qui che si pone una difficoltà paradossale: come potrebbe, uno Stato o un governo, istituire ciò che non è di sua competenza? Il problema, insolubile nell’ambito tradizionale dell’azione politica, che determina per imperativi e programmi, può cominciare a essere affrontato dalla prospettiva di una politica capace di risvegliare o stimolare.
Prima di tutto, la presa di coscienza del problema della solidarietà deve condurre alla volontà di esumarlo dai bassifondi infrapolitici, dove si trova soffocato, e di farne un problema centrale. Mi pare quindi che la solidarietà non debba essere uno degli attributi eterogenei di un piccolo ministero, ma che debba diventare il progetto di un grande ministero, altrettanto degno della difesa e dell’istruzione. Beninteso, non si tratterebbe di creare un ministero dell’impossibile, che aggiungerebbe parole vuote, a proposito della solidarietà, a tutte le altre parole vuote già pronunciate. Si tratta di stabilire una connessione profonda fra il potere politico e la società civile. Come? A partire da due ordini di considerazioni.
  1. Nelle nostre società esiste un 10% di popolazione che avverte la pulsione militante di dedicarsi agli altri. Una parte di tali devoti hanno perso la loro causa perdendo la fede che nutrivano nella rivoluzione; un’altra parte ha fallito nei suoi tentativi di convivialità e di comunanza sulla scala dei grandi insiemi, delle nuove città, eccetera. Questa minoranza sarebbe tanto più disponibile ad azioni solidali concrete visto che ha preso coscienza degli errori o delle menzogne delle antiche militanze. Vi sono inoltre fonti inattese di solidarietà. Qualche anno fa lo si è potuto constatare nelle città più violente e atomizzate degli Stati Uniti: spontaneamente si sono costituite alcune brigate di «angeli» adolescenti che si sono unite non già in bande, bensì in gruppi di soccorso a beneficio di persone aggredite o infelici. C’è dunque un vivaio molto ricco di buone volontà nella società civile; si tratterebbe di favorirne il risveglio là dove sono dormienti, e di contribuire al loro sviluppo là dove si manifestano.
  2. Esistono già, a livello pubblico, sovvenzionato o privato (come SOS-Amitié), servizi di solidarietà multipli e multiformi che sarebbe possibile raggruppare e sviluppare in un luogo dedicato alla solidarietà. Si potrebbe così, a partire da una casa pilota, realizzare l’istituzione, nelle grandi città, di Case della solidarietà in cui verrebbero posti, per un settore preciso, tutti i servizi pubblici e privati di aiuto esistenti, e in cui verrebbero creati nuovi servizi sul modello dei crisis centers californiani,2 che si dedicano a salvare dal naufragio le vittime di overdose, non soltanto di droga, ma del dolore quale che sia, iniziative benevole a cui hanno collaborato medici, infermieri, ex tossicodipendenti. Case siffatte sarebbero dotate di dispositivi d’allerta e d’urgenza che, lungi dal sostituire i servizi ospedalieri o la polizia, li stimolerebbero nelle urgenze. Sarebbero luoghi di iniziative e mediazioni, d’informazione e mobilitazione permanente.
Si tratta di generare solidarietà, cioè di rigenerare l’idea di fraternità.

La democrazia cognitiva e la riforma del pensiero

Le nostre società si confrontano con un altro problema gigantesco, nato dallo sviluppo di questa enorme macchina dove scienza e tecnica sono intimamente associate in ciò che chiamiamo ormai la tecno-scienza. Questa macchina smisurata non produce solo conoscenza e chiarificazioni, ma anche ignoranza e accecamento. Gli sviluppi disciplinari delle scienze hanno apportato, oltre ai vantaggi della divisione del lavoro, anche gli inconvenienti della iperspecializzazione, della divisione e della frammentazione del sapere, divenuto sempre più esoterico (accessibile ai soli specialisti), anonimo (concentrato in banche dati) e utilizzato da istanze anonime, prima di tutto dallo Stato. Senza contare che la conoscenza tecnica è riservata agli esperti, la cui competenza in un ambito chiuso si accompagna all’incompetenza allorché questo ambito viene disturbato da influenze esterne o modificato da un avvenimento nuovo.
In simili condizioni, il cittadino perde il diritto alla conoscenza. Ha il diritto di acquisire un sapere specializzato compiendo degli studi ad hoc, ma è spossessato di qualunque punto di vista unificante e pertinente. Se è ancora possibile discutere seduti al caffè della condotta del governo in carica, non è più possibile comprendere che cosa abbia causato il crack di Wall Street o se vi sia motivo di attendersi una crisi economica ancora più devastante; e, del resto, gli stessi esperti sono profondamente divisi sulla diagnosi e sulla politica economica da applicarsi. Se era possibile seguire la Seconda guerra mondiale con una serie di bandierine sulla carta geografica, non è possibile invece concepire i calcoli e le simulazioni dei computer che delineano gli scenari della guerra mondiale futura. L’arma atomica ha totalmente privato il cittadino della possibilità di pensarla e di controllarla. La sua utilizzazione è delegata alla decisione personale del Capo di Stato senza la consultazione di alcuna istanza democratica regolare.
Più la politica diviene tecnica, più la competenza democratica perde terreno. Il problema non si pone solo per la crisi o la guerra. Riguarda la vita quotidiana. Ogni persona colta poteva, fino al secolo xviii, riflettere sulle conoscenze relative a Dio, il mondo, la natura, la vita, la società, e rispondere in tal modo all’interrogativo filosofico che è, contrariamente a quel che credono i filosofi professionisti, un bisogno di tutti gli individui, perlomeno fino a che le costrizioni della società adulta non lo adulterano.
Oggigiorno si chiede a ciascuno di credere che la sua ignoranza sia buona, necessaria, e gli si concede, tutt’al più, qualche trasmissione televisiva in cui specialisti eminenti gli tengono lezioni appropriate per distrarlo.
Lo spossessamento del sapere, molto mal compensato dalla volgarizzazione mediatica, pone il problema storico fondamentale della democrazia cognitiva. La continuazione del processo tecno-scientifico attuale, processo d’altro canto cieco che sfugge alla coscienza e alla volontà degli stessi scienziati, conduce a una forte regressione della democrazia. Non disponiamo di una politica immediata da mettere in cantiere, ma c’è la necessità di una presa di coscienza politica della necessità di adoperarsi per una democrazia cognitiva.
È effettivamente impossibile democratizzare un sapere diviso ed esoterizzato per natura. Ma è sempre più possibile progettare una riforma del pensiero che permetta di affrontare la formidabile sfida che ci rinchiude nell’alternativa seguente: o subire il bombardamento di innumerevoli informazioni che ci arrivano quotidianamente da giornali, radio e televisioni, o affidarci a sistemi di pensiero che trattengono delle informazioni solo ciò che le conferma o è intrinsecamente intelligibile, rifiutando come errore o illusione tutto ciò che le smentisce o risulta incomprensibile. Questo problema non si pone soltanto per la conoscenza del mondo giorno per giorno, ma anche per la conoscenza di tutte le cose sociali e per la stessa conoscenza scientifica.
Una tradizione di pensiero ben radicata nella nostra cultura, e che forma gli spiriti fin dalla scuola primaria, ci insegna a conoscere il mondo attraverso «idee chiare e distinte», ci ingiunge di ridurre ciò che è complesso a ciò che è semplice, vale a dire separare quel che è legato, unificare ciò che è multiplo, eliminare tutto ciò che apporta disordine o contraddizioni nel nostro intendimento. Ora, il problema cruciale del nostro tempo è la necessità di un pensiero in grado di raccogliere la sfida della complessità del reale, vale a dire capace di cogliere le mutue connessioni, interazioni e implicazioni, i fenomeni multidimensionali, le realtà che sono in pari tempo solidali e conflittuali (come la stessa democrazia, un sistema che si nutre di antagonismi mentre li regola). Pascal aveva già formulato l’imperativo di pensiero che bisogna oggi introdurre in qualunque nostro insegnamento, a cominciare dalla scuola per l’infanzia: «Poiché tutte le cose sono causate e causanti, agevolate e agevolanti, mediate e immediate, e tutte connesse da un legame naturale e insensibile che congiunge le più lontane e le più differenti, ritengo impossibile sia conoscere le parti senza conoscere il tutto, sia conoscere il tutto senza conoscere nel dettaglio le parti».
Di fatto, tutte le scienze avanzate come le scienze della Terra, l’ecologia, la cosmologia, sono scienze che rompono con il vecchio dogma riduzionista di spiegazione attraverso ciò che è elementare: esse considerano sistemi complessi in cui le parti e il tutto si interproducono e si interorganizzano e, nel caso della cosmologia, una complessità che è al di là di qualunque sistema.
Spingendoci ancora oltre, possiamo dire che alcuni principi di intelligibilità si sono già formati, atti a concepire l’autonomia, la soggettività, persino la libertà, la qual cosa sarebbe stata impossibile secondo i paradigmi della scienza classica. Al tempo stesso è cominciato l’esame della pertinenza dei nostri principi di intelligibilità: la razionalità e la scientificità chiedono di essere ridefinite e complessificate. Ciò non riguarda solo gli intellettuali, ma anche la nostra civiltà: tutto ciò che è stato effettuato in nome della razionalizzazione e che ha portato all’alienazione nel lavoro, alle città dormitorio, al tragitto-lavoro-sonno,3 agli svaghi in serie, alle polluzioni industriali, alla degradazione della biosfera, all’onnipotenza degli Stati-nazione dotati di armi di distruzione di massa, tutto ciò è veramente razionale? Non è urgente reinterrogare una ragione che ha prodotto nel suo seno il suo peggior nemico, che è la razionalizzazione? La necessità di una riforma del pensiero è tanto più importante se si riflette che il problema dell’educazione e quello della ricerca sono ridotti ai loro termini quantitativi: «più crediti», «più insegnanti», «più informatica», eccetera. Ci si nasconde così la difficoltà chiave che rivela il fallimento di tutte le riforme dell’insegnamento che si sono susseguite: non si può riformare l’istituzione senza aver preliminarmente riformato gli spiriti, ma non si possono riformare gli spiriti senza aver riformato preliminarmente le istituzioni. Si ritrova il vecchio problema posto da Marx nella terza tesi su Feuerbach: chi educherà gli educatori?
Non c’è una risposta propriamente logica a questa contraddizione, ma la vita è sempre capace di trovare soluzioni a problemi logicamente insolubili. Anche in questo caso, non si può programmare, e nemmeno prevedere, ma si può vedere e promuovere. L’idea stessa di riforma riunirà spiriti dispersi, rianimerà spiriti rassegnati, susciterà proposte. Infine, così come esistono buone volontà latenti per la solidarietà,...

Indice dei contenuti

  1. Presentazione
  2. Prefazione
  3. Rigeneriamoci!
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. Alla ricerca dei fondamenti perduti
  16. 12.
  17. 13.
  18. 14.
  19. 15.
  20. 16.
  21. 17.
  22. 18.
  23. 19.
  24. 20.
  25. 21.
  26. 22.
  27. 23.
  28. Bibliografia