Poema di un sufi senza Dio
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Poema di un sufi senza Dio

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Poema di un sufi senza Dio

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Ho errato, perso, vinto, rido, piango, solo, sulla via, esultando, nell'esercizio, vegliando, il mattino, nel riposo, dopo il movimento, allento la briglia, dissotterro radici, esangue, attraverso il dubbio, a occhi aperti, intreccio l'incubo, della mia bava, tiro il filo, che disfa il corpo, la mia forma scompare, il mio spirito resta, fuori dalla carcassa, nella prigione della causa, che abroga la visione, cammino nel pattume, palpabile nel mio niente.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788831384643
Prefazione
Poetica e etica del Tombeau
 
 
 
 
 
 
Questo tombeau non appartiene né alla categoria dell’elogio né a quella dell’omaggio. Il tutto è destinato a mostrare come viene scritto un testo contemporaneo continuando a tener vivo il legame con i morti. E colui che vive, tra i morti, ha nella mente Ibn Arabi, che continua a parlarci attraverso le parole di cui sono intessute le sue frasi. Da questo privilegio, ne traggo un altro, quello delle sorprendenti prossimità tra il sufi andaluso e Dante. Entrambi costituiscono i due riferimenti storici in cui si conferma la mia doppia genealogia spirituale, araba e europea, orientale-occidentale. Si tratta di una dualità che obbliga al superamento delle appartenenze e delle polarità e porta a non essere più né d’Occidente né d’Oriente (come l’ulivo coranico).
Quello che appare evidente alla lettura del Tarǧumān al-Ašwāq1 e della Vita Nova è che il poeta, interprete del proprio scritto, mette al centro del poema l’amore per la Donna, sia essa Nizām o Beatrice. È ad esse che si associa il nome di Aya, arricchito da una lunga storia di celebrazioni del femminile che gli uomini hanno messo in atto e in cui la pluralità delle esperienze resta segnata dall’unicità del Nome.
Tutta questa memoria poetica investe il mio particolare vissuto in una singolarità all’interno della quale si possono riconoscere alcuni luoghi d’erranza tra Parigi e Cartagine, passando per alcune esperienze italiane (Siena, Firenze, Roma), andaluse (Ronda, Almería), marocchine (Alto-Atlante) e in altri siti che tacerò per preservare una parte di segreto, facendo veloce menzione solo ai molteplici deserti che appaiono lungo il percorso delle stanze, deserti reali d’Africa e d’Asia, deserti convenzionali che ho tratto dal segno precoce della prima poesia araba, preislamica, o dal deserto dell’appartamento in cui brilla il gingillo di Mallarmé.
Che dire ancora dell’attualizzazione del verso dispari (ereditato da Ibn Arabi e da Dante)? È un verso dispari che si manifesta nelle pieghe di una prosa abitata da un alessandrino celato tra le virgole: nel flusso della prosa si nasconde la non misurabilità delle sillabe. In questo modo, il dodici che fonda l’alessandrino è come portato fuori rotta, per eccesso o per difetto, magari solo per eludere la misura rigida fissata sul pari e aprire le porte al regno del dispari.
In questa scansione ritmica, risiede uno dei misteri della virgola, il cui utilizzo è qui inatteso, deliberatamente ribelle all’ordine della sintassi, come per segnalare graficamente la presenza della voce destinata a ridar vita al poema. La virgola è quindi il segno che, nel cuore dello scritto, enuncia il fantasma dell’oralità e ricorda che, per contrazione o dilatazione, il respiro, nelle sue movenze e nelle sue pause, andrà oltre la logica grammaticale. In questo modo, il lettore sa che le pagine, nella loro pienezza e nel loro vuoto, devono essere intese a partire dall’ascolto del discorde e del discontinuo quasi per non occultare tutto ciò che non quadra nel mondo che ci assorbe.
Qui, il male e la malattia sono messi in scena nella teatralità dell’amore. Nutrono gli attributi della bellezza secondo la parte che assegna loro il reale. E sono presenti nella loro autonomia senza essere annientati dal bene. Poiché la dualità del bene e del male è anch’essa annodata senza possibilità di fuga o defezione. In essa si uniscono i contrari secondo una tensione che varia da un massimo a un minimo. Una tale tendenza non è privilegio della nostra epoca orfana che, dopo Hölderlin e Nietzsche, edifica un tombeau anche per Dio. La percepisco nel seno delle epoche antiche, anche se evidentemente resta nascosta nell’Inconscio dello spazio e del tempo; e, ad esempio, mi si è svelata tramite la frequentazione assidua della tomba reale di Ibn Arabi, cenotafio che ancor oggi accoglie le ceneri di colui che, nato a Murcia nel 1165, muore a Damasco nel 1240. Situata all’interno del quartiere ayyubide di Sâlihiyya, ai piedi del Monte Qasyûn, si tratta di una tomba damascena ricostruita nel XVI secolo; decorati secondo il gusto ottomano, i muri sono ricoperti da piastrelle di ceramica lucida in cui i motivi floreali dalle linee blu risaltano sullo sfondo bianco; ora tali motivi d’intenzione floreale si trasformano in maschere di diavoli che fanno pensare sorprendentemente all’estetica manierista della grottesca. È come se l’occhio che emana dalla tomba ci intimasse l’ordine di non perdere di vista il dovere di guardare il male dritto negli occhi e di convertirlo in acquietamento. L’acquietamento portato dal sorriso che segue la purificazione delle lacrime.
Nell’ambiente in cui sono nato e cresciuto, in questa costa d’Africa che guarda all’Europa cavalcando le onde del Mediterraneo, i miti si incrociano ed è la corrente che nutre tali miti che doveva essere messa in cortocircuito, poiché è al centro di questo crogiolo che furono captati tutti i profumi che mi hanno ispirato. Qui ancora i contrari furono confermati nella verità della loro coincidenza. Dalla scena primitiva sono apparse le visioni che insegnano che l’impuro è parte della purezza. Un altro orizzonte poetico ha accolto il pensiero che emana dal vissuto in un secolo corroborato da scritti antichi e da un’etica che sa tener conto del negativo senza mai volerlo abolire.
Questa è la fortuna di chi ha potuto prendere il treno della vita sperimentando due sequenze della storia animate da temporalità molto lontane, a due velocità completamente opposte. Il fatto è che la mia infanzia a Tunisi, nel corso degli anni Cinquanta, mi ha autorizzato a frequentare un mondo che portava ancora al suo interno vestigia arcaiche la cui eco si ritrova in quello che avevo possibilità di cogliere da testi antichi o medievali. Nella nostra riva africana, noi eravamo antropologicamente contemporanei di Euripide e di Raimondo Lullo. Un decennio più tardi, un tempo siderale ci ha portati lontano, altrove, spingendoci alla riscoperta di noi stessi attraverso tutto ciò che dall’America è migrato per riconfigurare tutte le contrade della Terra.
 
Abdelwahab Meddeb
1 Ibn Arabi, L’interprete delle passioni, a cura di Roberto Rossi Testa e Gianni De Martino, Milano, Urra – Apogeo, 2008.
Introduzione
Scrivere l’inaccessibile presso la tomba del santo
Tombeau d’Ibn Arabi [Poema di un sufi senza Dio. Sulla tomba d’Ibn Arabi] è testo che si presta a molteplici letture, sia per i significati che convoglia, sia per la forma con la quale si presenta. In esso risaltano stratificazioni culturali che appaiono talora contraddittorie per quel loro mettere insieme contemporaneità e arcaismo, misticismo e erotismo, simbolo e concretezza, ma che rispondono a una precisa strategia estetica che caratterizza l’insieme dell’opera di Abdelwahab Meddeb.
Conosciuto in Italia soprattutto per i saggi, nei quali analizza le vicissitudini che attraversano il mondo islamico1, Abdelwahab Meddeb è romanziere, saggista, traduttore, universitario, ma è soprattutto poeta, nel senso che l’istinto poetico è alla base di tutta la sua opera e costituisce una sorta di filo rosso di una scrittura che procede secondo la logica del frammento e dell’aggregazione simbolica o musicale degli elementi. Con questo non intendiamo spingerci a dire che l’opera saggistica è poetica, ma ci preme sottolineare come la vitalità del pensiero di Meddeb passi attraverso l’accumulazione dei segni in un procedere frastico che molto deve al fare poetico. Limitandoci all’opera poetico-narrativa, se tale modalità di scrittura, che riunisce aggregazione lirica e frammentarietà dell’intuizione, risulta particolarmente evidente in testi come Les 99 stations de Yale2, dove la brevità delle terzine ricorda la forma deg...

Indice dei contenuti

  1. CoverImage
  2. 0.Abdelwahab_Meddeb_POEMA_DI_UN_SUFI_SENZA_DIO
  3. 1.Prefazione_Abdelwahab_Meddeb
  4. 2.Introduzione_Anna_Zoppellari
  5. 3.Poema_di_un_sufi_senza_Dio
  6. 4.Postfazione_Jean-Luc_Nancy