II.
Fragili modernità
Terremoti e consolazioni
Tra le tante immagini di dolore e impotenza che sono state il racconto sull’“infinito” terremoto dell’Appennino, poche sono state le immagini di consolazione che sono riuscite ad andare oltre la commozione e oltre il salvataggio di esseri umani.
Poche cioè sono state le immagini che potessero restituire agli spettatori un senso, un qualche ordine al destino di popolazioni travolte dalla coincidenza del terremoto e di nevicate come da decenni non si vivevano.
Tra quelle, forse solo l’ostinazione, la forza e il coraggio degli allevatori – che contro una natura e un destino avverso abbiamo visto aggrappati alla terra e ai propri animali – sono state immagini di consolazione e al tempo stesso un’occasione di riflessione.
Quegli allevatori hanno infatti resistito con una volontà e una coerenza che sembravano dovute sì alla sopravvivenza, ma anche a un qualche sentimento ecologico, a un senso di appartenenza e del dovere, al rispetto di sé stessi e del proprio lavoro, alle tradizioni, alla memoria che tiene insieme la vita di oggi e di ieri.
Quel non arrendersi degli allevatori fin da subito è sembrato qualcosa che “dava senso”, che andava ben oltre gli interessi economici in gioco.
L’urgenza della cronaca prevale sempre su tutto, ma in quei mesi la riflessione, almeno sui media principali, è in gran parte latitata, almeno quella che andasse oltre le urgenze della cronaca. Eppure, c’è stata una ferita primitiva nell’Appennino, che ha scavato silenziosamente per decenni per poi rivelarsi molti anni dopo, diventata tessuto essiccato e incancrenito.
La ferita mortale dell’Appennino sono stati gli anni ’60 e il suo spopolamento: piaga silenziosa perché lenita all’inizio dalla fame di benessere, di progresso e poi dalle tante seduzioni della modernità che agivano come altrettanti potenti anestetici, sedativi, ipnotici.
Ma c’è stata una consolazione per gli Appennini e per tutti noi a quella ferita lontana?
Di quegli anni si è molto scritto, raccontato, filmato, ma forse non abbastanza, perché quegli anni sono stati la nascita di un’altra Italia ma un’Italia guardata soprattutto verso il basso e verso le città. E se solo il “tempo presente” coincide con la vita e le sue urgenze, in quegli anni il presente sembrava tutto lì, verso il basso e la città, un presente fatto di trasformazioni e di benessere, gente, luci, modernità, vita.
Strani nomi avevano scelto per mio padre: Alvino il primo nome e Lotario il secondo.
Strani nomi, ma strani come potevano esserlo anche Valdo, Ardino, Vando, Ermelinda, Alviro, Clodomiro, Romaldo, Adelinda e altri ancora molto comuni sull’Appennino tosco-emiliano.
Con mio padre qualcuno aveva però esagerato: Alvino e Lotario – come tutti gli altri – erano nomi longobardi, comuni su quella parte di Appennino, nomi un tempo da antichi feudi, poi da boschi e bestiame, nomi in fondo da uomini liberi.
Ma cosa facevano quei montanari con i loro nomi longobardi a Genova (o a La Spezia o a Milano) negli anni del boom economico?
Quando l’Italia veniva scaravoltata dalle radici, Pier Paolo Pasolini da tempo nel microcosmo romano raccontava il destino del nostro Paese avviato a un benessere diseguale, disordinato e senza memoria. In quegli anni, il mutamento dell’orizzonte esistenziale dei monti non era stato ancora raccontato, le luci e le attenzioni erano altrove, sulle coste e appunto nella città. Ma anche lì, quale storia è stata scritta di quell’Italia dei monti trapiantata mille metri più in basso? E soprattutto quale eredità quell’Italia ci ha lasciato? Perché è un’eredità che appartiene a tutti: enorme è stato il numero delle persone che abbandonata la montagna è stata inghiottita dalle città. Ma se è stato enorme il vuoto umano lasciato in alto, ci deve essere stato anche un “pieno” che quegli uomini e quelle donne hanno portato in basso, nei cantieri, nelle fabbriche, negli uffici, nelle città dove erano stranieri nel loro Paese.
Se penso alle persone della generazione di mio padre che ho conosciuto, se penso alla loro vita, alla loro fatica, alla loro ostinazione, ai loro piccoli successi so che avevano portato la coerenza della loro vita precedente, la schiettezza dei modi di fare, gente diritta, contro e incontro ogni avversità e ogni ostilità. Virtù di gente da lavori umili ma liberi avevano portato in quelle città che li chiamava “foresti” e che nulla sapeva di loro.
I sentimenti di quella generazione posso solo immaginarli. Li ho capiti anni dopo dai mille particolari che fanno una vita normale. In quegli anni, molti si saranno fatti contagiare dai luccichii della modernità, dalle comodità, da quel po’ di denaro che sembrava guadagnato più facilmente, da luci che squarciavano il buio come mai avevano visto e che convincevano della bellezza del progresso e di quella nuova vita.
Quei luccichii li avranno attratti, li avranno illusi, credo che per qualche tempo avranno persino pensato a una vita più lunga e felice. Ma non si sono mai fatti comprare da quei luccichii, non ne sono mai rimasti dentro, abbagliati.
Da montanari poi sapevano che la vita rimaneva legata da un filo fragile e casuale, lontano dall’apparenza della città dove tutto era previsto e programmato. Per questo non ci hanno creduto mai fino in fondo, consapevoli che anche tutta l’efficienza della città, anche quella era in fondo solo luccichio.
E poi erano troppo vecchi per capire non tanto i Beatles e i Rolling Stones ma anche il primo Celentano, troppo vecchi cioè per una modernità che doveva e voleva sembrare solo felicità.
Se ripenso a quella generazione – come i personaggi e gli “eroi” in chiaroscuro raccontati da Gassman, Manfredi, Tognazzi – credo che seppero passare non solo attraverso gli orrori di una guerra, ma seppero anche resistere alla corruzione delle tradizioni come a quella più sottile dei sentimenti che il progresso aveva portato.
La generazione successiva, spesso dimentica di ogni origine, di ogni sacrificio, dimentica della propria fragilità/casualità, avrebbe studiato e fatto carriera, avrebbe preso la città come suo orizzonte esistenziale abituale, rimosse le origini, almeno per lungo tempo.
E quale può essere stato allora il “pieno” che quei montanari avevano portato in basso, nei cantieri, nelle fabbriche, negli uffici, nelle città dove avevano vissuto come stranieri nel loro Paese? Quale la comune consolazione, se c’è stata?
Quei montanari con la loro fragilità dell’esistenza scritta nel DNA, formata nel sangue e nell’incerta fortuna del proprio gregge, nel clima avverso e nella loro storia, quei montanari dai loro improbabili e severi nomi credo siano stati un anello che teneva uniti valori antichi e immutati, credo siano stati una ricchezza silenziosa e un collante di umanità per quell’Italia che voleva correre, abbagliata dai luccichii della modernità e che voleva solo il loro lavoro.
La storia certo scorreva in basso e nelle città: le migliori energie della montagna erano lì.
In alto, privati di vita, di presenze ed energie, cosa poteva restare a lungo di quei paesi e delle ferite che silenziose si stavano aprendo?
Forever young
Morire da rock star è qualcosa che accade sempre nel fiore degli anni, lontano dall’idea del declino fisico e ancor prima dalla sua concretezza.
Freddie Mercury aveva solo 45 anni ma quella concretezza l’ha attraversata fino in fondo. Gli effetti dell’Aids così come si manifestava nel 1991 sembrano lontani ai nostri occhi ma gli ultimi suoi video sono implacabili nel far intuire la dissoluzione del corpo.
Morire da rock star, versione contemporanea dei poeti maledetti pur con un contrappasso lancinante: cos’altro se non l’ingombro impossibile del forever young?
Perché nella cultura giovanile raccontata attraverso la musica beat, pop, rock fino ai nostri giorni, insieme alla protesta sociale, il “forever young” – finché dura, finché ce n’è – sono l’essenza stessa della musica giovane dagli anni ’60 in poi.
Gli anni ’60, non un caso: quegli anni sono una vera cesura con il passato, curva secca nella nostra recente storia, genesi di un modo nuovo di stare sulla terra, almeno in Europa, già un decennio prima negli Stati Uniti. A partire da quegli anni insieme alla “nascita” dei consumatori e dei giovani come categoria, si afferma in fondo un nuovo modo di consumare la vita.
Così, inevitabilmente essere stati bambini, adolescenti o giovani negli anni ’60 significava appartenere in maniera variabile alle generazioni del boom economico o a quelle del benessere tout court, il benessere come diritto, il benessere come destino, il domani sempre migliore.
Basta leggere le strofe dell’omonima celebre canzone di Bob Dylan. Per qualcuno una preghiera laica ma in cui non c’è una sola frase nella canzone che in fondo non sottintenda la condizione privilegiata che da quegli anni irrompeva nella storia («May your wishes all come true»). Quella condizione, crisi o non crisi, è sostanzialmente ancora la nostra.
Perché cantare, dire, pensare, anche per un solo momento irrealisticamente sperare forever young è una libertà concessa da sempre solo ai pazzi, ai poeti o...