II. Rime
1. Muoio per quella che si chiama Beatrice.
Nella seconda stanza di Donne ch’avete intelletto d’amore che, come si è detto, è la canzone svolta della Vita nuova, la lode di Beatrice si staglia «su uno sfondo di impressionante verticalità»1, perché sono coinvolti Dio, gli angeli, i santi, gli uomini e i dannati su uno scenario cosmico che si estende dall’Empireo fino all’inferno. Dice Dante2: «Un angelo invoca Dio, esprimendo direttamente la propria preghiera nell’intelligenza divina, e dice: “Signore, giù sulla Terra si contempla un miracolo incarnato, che proviene da un’anima che diffonde il suo splendore fin quassù nel cielo”. Il cielo, che non ha altro difetto che non possedere lei, la invoca al suo Signore e ogni santo chiede grazia di averla. La sola Pietà difende la causa degli uomini mortali, tanto che Dio, alludendo alla mia donna, dice: “Miei cari, ora tollerate pazientemente che l’oggetto della vostra speranza rimanga per il tempo che vorrò là dove c’è chi si aspetta di perderlo per sempre e che nell’inferno potrà almeno dire: – O miseri dannati, io vidi la speranza dei beati –”».
Le parole di Dio – scelta narrativa estrema che non avrà alcuno spazio in tutta la Divina Commedia3 – sono state variamente interpretate e in passato non pochi commentatori vi hanno letto allusioni alla composizione dell’Inferno, in alcuni casi difendendo le proprie argomentazioni con l’ipotesi di un’aggiunta successiva di questi versi alla canzone, tesi che però è filologicamente da escludere.
È rimasto il dubbio se interpretare l’«alcun» del v. 26 («là dov’è alcun che perder lei s’attende») riferito a Dante o genericamente a un’anima dannata. Nel contesto della Vita nuova, mi pare meglio intendere un ipotetico e anonimo dannato che potrà almeno dire, per consolazione o per rammarico (gli interpreti sono divisi in proposito), di aver visto quando era in vita «la speranza de’ beati», sintagma che si può leggere come «parafrasi del nome Beatrice»4 o come «un’interpretatio o perifrasi del nome stesso di Beatrice»5, ma non dobbiamo dimenticare che questa canzone circolava da sola prima della composizione della Vita nuova, una popolarità ammessa dallo stesso Dante – «questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti» scrive a V.n., XX 1 – e confermata dalla sua inclusione (c. 99v) nel grande Canzoniere Vaticano, il ms. Vat. Lat. 3793 della Biblioteca Apostolica Vaticana6. Nella versione estravagante della canzone è probabile, a parere di Marco Grimaldi, che «alcun» sia riferito all’io lirico, e dunque a Dante7.
L’estremizzazione del motivo di totale dedizione post mortem si ha in Lo doloroso amor che mi conduce (Rime, LXVIII), canzone giovanile «del tempo della Vita nuova», che non è entrata e che non poteva entrare nella linea teleologicamente orientata del libello. Qui non muore la donna, ma il poeta, come enfatizza l’ossimoro che chiude la prima stanza, «Per quella moro c’ha nome Beatrice» (LXVIII 14), dove colpisce la clausola, perché il nome della donna amata non compare mai nelle poesie incluse nel libello e in nessun altro verso prima della Commedia8. Quel «dolce nome», enfatizzato dal chiasmo e dalla ripresa capfinida dei vv. 14-15 («Per quella moro c’ha nome Beatrice/ Quel dolce nome, che mi fa il cor agro»), provoca una acuta e insopportabile sofferenza, capace di sfigurare Dante, cosicché basterebbe un soffio di vento per farlo cadere a terra esanime («freddo», LXVIII 22). Tuttavia l’anima del poeta starà sempre assieme a Beatrice, perché ricorderà la gioia di quel volto più dolce del paradiso9. L’iperbole non è nuova: c’è nei trovatori ed era già stata usata, in forma un po’ diversa, da Giacomo da Lentini nel sonetto Io m’aggio posto in core a Dio servire; essa si trasforma poi in un vero e proprio paradosso «eretico»10 nella terza stanza in cui Dante immagina di poter vedere lo stato della propria anima dopo la morte (LXVIII 29-42):
Pensando a quel che d’Amore ho provato,
30l’anima mia non chiede altro diletto,
né il penar non cura il quale attende;
ché, poi che ’l corpo sarà consumato,
se n’anderà l’amor che m’ha sì stretto
con lei a Quei ch’ogni ragione intende;
35 e se del suo peccar pace no i rende
partirassi col tormentar ch’è degna,
sì che non ne paventa;
e starà tanto attenta
d’imaginar colei per cui s’è mossa,
40che nulla pena avrà ched ella senta;
sì che, se ’n questo mondo io l’ho perduto,
Amor ne l’altro men darà trebuto.
Pensando a quello che ha provato per amore, l’anima del poeta non chiede altro diletto né si cura della sofferenza che l’attende; infatti, dopo la consunzione del corpo, l’amore che lo ha così intensamente avvinto se ne andrà insieme alla sua anima da Dio giudice assoluto e onnisciente, e se Dio non le concederà il perdono per i peccati commessi in vita, l’anima se ne partirà con i tormenti che merita; eppure non ha paura dell’inferno, perché amore l’accompagnerà sempre: essa starà, infatti, in eterno assorta a immaginare la donna amata e non sentirà alcuna pena, cosicché quell’amore che ha perso in questo mondo sarà una ricompensa nell’altro.
Che in inferno il ricordo, o addirittura la presenza, dell’amato non sia una consolazione ma un supplemento di pena, Dante lo apprenderà qualche anno dopo, nel secondo girone, da Francesca condotta (il medesimo verbo compare in Rime, LXVIII 1 e in Inf., V 106) alla dannazione da amore: nella «bufera infernal, che mai non resta» (Inf., V 31), infatti, l’amore appassionato che ancora «mena» (Inf., V 78) e non «abbandona» (Inf., V 105) lei e Paolo è un amore folle e peccaminoso («mal perverso», Inf., V 93), che li tormenterà per sempre insieme alla pena fisica di essere violentemente travolti dal vento come gli altri lussuriosi11.
2. Un amore che muove la sua virtù dal cielo.
Pochi mesi dopo la Vita nuova – più o meno intorno alla metà dell’ultimo decennio del Duecento – Dante scrive una delle sue canzoni più belle, Amor, che movi tua vertù dal cielo. In essa ci dice di essere così innamorato di una donna giovane, bella e nobile (non è dunque Beatrice morta l’8 giugno 1290), che potrebbe essere condotto a morte: «per giovanezza mi conduca a morte» (Rime, XC 57). Ella resta, infatti, insensibile né si cura di quanto intensamente il poeta la ami né che nei suoi occhi ci sia il compimento del desiderio amoroso dell’uomo: e si notino tra l’altro i rimanti «piace : pace» (XC 58 e 60) che si ritroveranno poi nelle prime parole di Francesca in Inf., V 92 e 94, insieme ad altri termini tipici dell’innamoramento: «m’ha preso», «accende», «bella», «gentile» ecc.
La canzone Amor, che movi è stata giustamente riconosciuta come lo «snodo decisivo»12 lungo la strada che porta prima alle cosiddette «petrose», dove l’amore cosmico informa di sé l’intero universo, e poi – soprattutto – al Convivio e alla Commedia.
È merito di Vincenzo Pernicone aver notato che in questa canzone «Dante dimostra di accedere ora per la prima volta ad una diversa concezione dell’amore inteso in senso più universale rispetto alla concezione anteriore derivata dal Guinizzelli: amore con principio attivo che rende operante nell’uomo dotato di nobiltà quanto ha “in potenzia di ben fare”»13.
In questa sorta di inno, infatti, l’amore è un ardore virtuoso, un principio celeste che irradia con la propria potenza innamorante ogni creatura e che accende maggiormente ciò che trova disposto a ricevere la sua virtù. Questa concezione della natura divina d’amore emerge particolarmente nella prima stanza, costruita secondo il modello retorico dell’innologia latina e, in particolare, sulla filigrana di O qui perpetua mundum ratione gubernas («O tu che governi il mondo con stabile norma»), la preghiera del libro terzo della Consolatio philosophiae di Boezio (III m. 9), che è senza dubbio uno dei testi più noti del medioevo. A questo principio universale si appella Dante nei primi versi, che costituiscono «l’invocazione e l’aretalogia»14 della sua preghiera (Rime, XC 1-15):
Amor, che movi tua vertù dal cielo
come ’l sol lo splendore,
che là s’apprende più lo suo valore
dove più nobiltà suo raggio trova;
5 e come el fuga oscuritate e gelo,
così, alto segnore,
tu cacci la viltate altrui del core,
né ira contra te fa lunga prova;
da te conven che ciascun ben si mova
10 per lo qual si travaglia il mondo tutto;
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenzia di ben fare,
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
15 né dar diletto di col...