Farsi luogo
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Varco al teatro in 101 movimenti

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Varco al teatro in 101 movimenti

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101 varchi per entrare, e perdersi, nel teatro labirintico di uno dei più originali artisti italiani. Un teatro «ortodosso», rigoroso e sincretico, capace di cogliere le contraddizioni del reale, il loro mescolarsi, per farsi luogo, vita e arte.

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Informazioni

Editore
Cue Press
Anno
2015
ISBN
9788898442836
Farsi luogo
1
naturalmente sto parlando qui del teatro vivo, vivente, che il cuore gli batte: può anche prendere ritmo e respiro da un testo morto tale teatro, può far suonare nell’aria parole che hanno millenni, parole che hanno la pesantezza dei millenni, la polvere dei millenni sopra di loro, dentro di loro, ma se il cuore gli batte, pulsante come un animale a sangue caldo, quel teatro di marmi e di statue è vivo, vivente, continua a sussurrare, a parlarci, e noi a parlare con lui, io qui sto parlando perché il teatro mi parla, parla attraverso di me, attraverso la mia povera carne, la mia umile carne, la mia carne da niente, attraverso la lunga teoria di chi mi precede, di chi è venuto prima e di chi arriverà dopo, di chi corre sulla pista parallela alla mia, di chi suda su un palco mentre sono qui a parlare.
2
sto parlando del teatro come di un’arte bambina: cosa sono 25 secoli, se confrontati con l’origine dell’umanità? La rosa ha 25 milioni di anni.
3
sto parlando qui del teatro come luogo dell’Invisibile, della Rivelazione, dell’Accecamento. Se uso le maiuscole, è solo per chiarezza.
4
sto parlando, parlo, del teatro come luogo del Visibile, del Tangibile, del Corpo che sente, sensuale.
5
sto parlando del luogo dove la gioia balbetta sopra le macerie, dove gli assetati trovano da bere, gli affamati pane per i loro denti, dove i miracoli sono ancora possibili, pensabili, dove la primavera è la grande, eterna questione, e riguarda l’epifania del dio del pane e del vino. Brot und Wein.
6
sia detto tra parentesi: talvolta quel desiderio di bere è anche solo la sorpresa di trovarci a pensare che abbiamo ancora sete, che proviamo la strana, inattuale sensazione di avere sete, lo stupore di ritrovarci ancora ad avere sete e fame, la meraviglia nello scoprire che ancora siamo in grado di provare un desiderio autentico. Autentico? Sono ancora in grado di pronunciare questa parola? E cosa significa questa possibilità? Significa che sono ancora vivo? Fine della parentesi.
7
ancòra e àncora, in italiano, sono la stessa parola: slitta solo l’accento. L’avverbio che definisce la durata e la permanenza nel tempo, il sostantivo che definisce l’oggetto di ferro che tiene ben salda in porto la nave.
8
parlo qui del teatro come del luogo della buona notizia. Qual è questa buona notizia? Semplice, che si può fare arte anche senza dover per forza fare cassetta. Che è ancora possibile. Che non occorre distrarsi a pensare a quella, all’arpagoniana, tetra, micidiale cassetta. Che, attenzione, il far quadrare i conti per tenere in piedi la compagnia, come sapevano i comici dell’arte e Molière, non è quella distrazione di cui parlo. Quella distrazione, quell’essere spostati mentalmente sulla cassetta, è altro: è la sciagura arpagoniana dell’artista moderno. È la sua resa all’onnipotenza del mercato. È il suo cedimento interiore all’onnipotenza del mercato, al farsi prodotto, sempre e comunque e a qualsiasi prezzo. E anche lo scandalo va bene, anzi, è merce ricercata: il mercato adora lo scandalo, indice di visibilità. Apparire tutti i giorni sul giornale, in televisione, nello sciame della rete, questo richiede il mercato. La buona notizia non si preoccupa di dare scandalo per far accorrere i media. Il suo scandalo è di non essere scandalosa. La buona notizia è che quel teatro di cui parlo non accetta il comandamento dello scandalo che fa cassetta, dello scandalo come trovata.
9
il teatro come luogo del Necessario, dell’Utile. Come un ago per cucire.
10
il teatro come luogo dell’Inutile, del Gratuito. Gratis et amore Dei. Come una preghiera.
11
il teatro come luogo dell’eresia, parola che etimologicamente conserva in sé un’altra parola, meno ambigua, la sua fonte, e la fa brillare: scelta.
12
il teatro come luogo della ortodossia, parola certo più scomoda della prima, che etimologicamente significa retta opinione: ma non è forse questo che conta, nel polverone delle opinioni e dei bla-bla-bla e dei cinguettii che ci assediano, accecati da tanto fumo, non è forse questo il miraggio per cui patire, quello di arrivare, passo dopo passo, nell’errare, errore dopo errore, alla retta opinione? Io ci tengo alla retta opinione, lo dico e non me ne vergogno. So bene che non ci arriverò mai, ma come posso fare a non anelare a quella? Come una cerva anela, ai corsi delle acque.
13
il teatro come luogo in cui si ride della contrapposizione di queste parole. Ortodossia, eresia: parole-muro sulle quali si sono scannati e si scanneranno ancora gli esseri umani, chissà per quanto. Il teatro come luogo in cui si irride agli scannatoi, alla retorica dei macelli. La verità se ne ride degli aut aut e dei confini, è deposito, è fiamma, è arcobaleno, Francesco d’Assisi e Giordano Bruno, Étienne de La Boétie e Al Halladi e Filippo Neri, Rosvita e Simone Weil e Totò. Se ne infischia. Fa. Agisce. Danza. Custodisce il deposito. Fa vibrare la fiamma.
14
la verità che è sorellina della speranza, che è speranza, lo diceva già Péguy.
15
il teatro come antro della polis, nella polis: il luogo, e la comunità, e il coro, noi ce li dobbiamo letteralmente inventare, come gli antichi greci: è un’opera alchemica, una scommessa che dura una vita, una creazione immane, una impresa di tutti. Nell’epoca dei grandi media virtuali immateriali, il teatro è il luogo della materia sacra. Di quella povera carne di cui sopra. Di quella mancanza.
16
il teatro come tradizione, ovvero come seduta spiritica: da Aristofane a Jarry, da Ruzante a Brecht. Di tutti quei morti noi ci nutriamo, pane e vino indispensabili, e tutti quei morti, come vampiri, si nutrono del nostro sangue per rimanere vivi tra i viventi. Per marcare ancora la loro presenza, nella catena ininterrotta dei secoli. Non il luogo della messa in scena, ma il luogo della messa in vita.
17
datemi retta, non credete ai nostalgici: non è mai esistita l’epoca bella, il «a quei tempi sì, oggi proprio no», gira e rigira gli uomini sono sempre gli stessi, conformi e conformisti, violenti e sanguinari, ogni epoca partorisce i suoi tiranni e i suoi ribelli, ogni epoca è in cinta, in cinta di abituati e di ribelli, parlo soprattutto a voi, giovani, non abituatevi, non fatevi incantare dai discorsi d’antan, sono una truffa i discorsi d’antan, i combattivi anni Settanta, i meravigliosi anni Ottanta, discorsi truffa, fuffa, bestemmia, buoni per vendere, per guadagnarci, non sono che inganno. Ah quando c’era Pasolini! Nostalgia all’ingrosso: una diavoleria. Un alibi per starsene a poltrire. Ogni epoca è buona per rivoltarsi, credetemi. Ogni epoca è buona per accendere la miccia.
18
il teatro come audacia del farsi luogo nell’epoca dei non-luoghi. Parlo agli audaci, qui, e a nessun altro. Dove comincia il farsi luogo? Dal rischio più grande, dal pericolo antico: io e te. I miei occhi nei tuoi. Nessuno servo, nessuno padrone (o padrino). Io e te, inter pares. Se lo vuoi correre questo pericolo, bene, se no non so che dirti. Non so che dire alle «nuove generazioni», non sono un sociologo. Nel farsi luogo non ci sono né fama né ricchezze, né gloriose dannunziane avventure, se son queste che desideri, se è questo nulla che insegui, smettila di leggermi, non è a te che pa...

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