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La comunicazione ai tempi della Visual culture

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La comunicazione ai tempi della Visual culture

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Nell’attuale scenario comunicativo l’immagine ha assunto un ruolo crescente. La notizia è sempre più spesso nell’immagine. Esempi quotidiani mostrano il suo potere informativo, ma anche incantatore e di orientamento dell’opinione pubblica.
Se le immagini ci raggiungono più velocemente ed empaticamente rispetto alla parole, si può correre il rischio di trascendere l’informazione stessa per una “messa in scena” della notizia. Casi come le immagini del piccolo Alan Kurdi, le immagini dal carcere di Abu Ghraib o quelle desolate di Parigi nei giorni successivi agli attentati del 2015 mostrano tutto il potenziale ambiguo, evocativo e perfomativo del visivo.
Sembra allora necessario appellarsi a un senso di responsabilità condiviso nel pubblicare, trasmettere e ‘leggere’ l’iconosfera informativa, condizione necessaria, ma non sufficiente, per monitorare le conseguenze che la diffusione di certe immagini può produrre.
Proprio su quest’ultimo aspetto il testo vuole appuntare l’attenzione, sulle implicazioni etiche in un contesto mediale sempre meno controllabile in cui si veicolano immagini vere, verisimili, che colgono “il fatto”, ma anche immagini immaginate e fake images che possono chiuderci in mondi (im)possibili senza rendercene conto.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788869959066

1. INTRODUZIONE AL TEMA

Nell’attuale scenario comunicativo l’immagine ha assunto un ruolo crescente e sempre più pervasivo. Come teorizzato dai recenti studi di cultura visuale, in Europa come negli Stati Uniti, da Boehm a Mitchell già a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, il cambio di paradigma creativo, di fruizione e di interpretazione dell’immagine è seguito a un mutamento altrettanto radicale della società, complici le innovazioni tecnologiche. La notizia è sempre più nell’immagine, statica o in movimento, nell’alveo di un incessante flusso iconico in cui il c.d. visual journalism sta potenziando il proprio ruolo. Con la diffusione capillare della rete si ha la possibilità di visualizzare, in tempo reale e ovunque ci si trovi, ciò che prima sarebbe rimasto sconosciuto. La facilità di moltiplicazione e di trasmissione delle immagini così come la loro immaterialità e immediatezza sono cifre costitutive di un nuovo modo di comunicare, più intuitivo, fluido e empatico. Allo stesso modo, la velocità di diffusione di una immagine ha modificato il concetto di tempo, divenuto oramai un costante presente.
Una sola immagine può (ri)costruire un avvenimento, raccontare una storia, offrendosi all’interpretazione. Una immagine vuole essere guardata, ma, al contempo, ci guarda. Come profetizzato da Debord, ben prima della diffusione della rete e della nascita dei visual studies in senso stretto, «dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali»1. Esempi quotidiani mostrano il suo potere informativo, ma anche incantatore e di orientamento dell’opinione pubblica, sulla base di segni, luci, cromie, inquadrature, prospettive, impaginazione grafica, particolari, ecc.
Se le immagini giungono alla mente dell’osservatore più velocemente ed empaticamente rispetto alle parole, si può correre il rischio di trascendere l’informazione stessa per una “messa in scena” della notizia. Con gli attentati dell’11 settembre si è dato inizio a un nuovo modo di comunicare i fatti, fortemente orientato al visivo. Gli eventi sono stati resi noti in diretta, in televisione e in rete. Casi, poi, più recenti, come le immagini del piccolo Aylan Kurdi, gli scatti del terrore dal carcere di Abu Ghraib, le fotografie (pseudo) desolate di Parigi nei giorni successivi agli attentati del novembre del 2015 o gli abbracci “mediati” da teli di plastica durante la pandemia, mostrano lo straordinario potenziale informativo, ma anche evocativo, emotivo e agentivo dell’immagine. Eventi non più rappresentati, ma presentati.
Sembra allora imprescindibile riflettere su una nuova grammatica del visivo, che si appelli non solo alla correttezza e verità dell’immagine che racconta e/o mostra la realtà dei fatti, ma, lo vedremo, all’etica; a un senso di responsabilità condiviso nel pubblicare, trasmettere e “leggere” l’iconosfera informativa, condizione necessaria – ma non sufficiente – per una “buona” ricezione del messaggio e per monitorare le conseguenze che la diffusione di alcune immagini può produrre. E proprio su quest’ultimo aspetto si vuole appuntare l’attenzione, sulle implicazioni etiche in un contesto mediale sempre meno controllabile in cui si possono veicolare una serie di tipologie di notizie visive: immagini vere, verisimili, che colgono “il fatto”, ma anche immagini “immaginate” fino alle fake images, che possono chiuderci in mondi (im)possibili senza rendercene conto e, talvolta, senza vie di uscita. Non occorre solo scattare fotografie e/o creare buone immagini, quanto saperne gestire, per quanto possibile, il loro uso e il loro impatto. L’etica, del resto, è una riflessione sull’agire, individuale e collettivo, e mira a delineare quei principi e quei valori che motivano ad agire bene. Non ci sono rettifiche pubblicate a posteriori che possono cancellare l’impressione di una immagine “sbagliata” quando, oramai, è stata diffusa.

2. IL RUOLO DELL’IMMAGINE AI TEMPI DELL’ICONOSFERA

Nel panorama mediale contemporaneo l’immagine – dalle fotografie ai video, dalle immagini tecniche a quelle scientifiche, dalle opere d’arte alle vignette satiriche – sta acquisendo un ruolo di primissimo piano anche nel mondo dell’informazione. Complici la diminuzione dei tempi di attenzione e di lettura degli individui il fenomeno è accelerato altresì dai meccanismi propri della rete e dagli sviluppi tecnologici.
Come sottolinea Mirzoeff «su youtube vengono caricate cento ore di video ogni minuto; ogni mese sul sito vengono visualizzate sei miliardi di ore di video, una per ciascun abitante della Terra. [...] Ogni due minuti gli americani da soli scattano più fotografie di quante ne siano state prodotte nell’intero XIX secolo. [...] Si stima che già nel 1930 nel mondo si scattassero un miliardo di fotografie l’anno. [...] Nel 2012 si è arrivati a trecentottanta miliardi di fotografie, quasi tutte digitali e mille miliardi ne sono state scattate nel 2014»2.
Informare per immagini è divenuta una necessità irrinunciabile. Si è andata a ribaltare la tradizionale struttura della notizia in cui il testo dà informazioni nuove e le immagini lo completano e/o lo rendono più attraente; adesso, l’informazione è nell’immagine e, come scrive Goldsmith, «le parole sono impiegate per rendere comprensibile o comunque dare una traccia di lettura all’illustrazione»3.
Questa trasformazione verso il visivo nel campo mediale (e non solo, ma anche culturale, sociale, scientifico, ecc.) è stata recentemente studiata in area anglo-americana da Mitchell – che inaugura il concetto di pictorial turn – e, in ambito europeo, da Boehm – che conia l’espressione ikonische wende. Entrambi presentano un nuovo approccio al visivo, con il quale intendono capovolgere il primato della parola come veicolo principale di conoscenza sulla scia del paradigma rortyano4. Tale svolta ha coinvolto la dimensione della rete, spazio in cui le nostre scelte e le nostre azioni riguardano in buona misura anche le immagini. Nella «videosfera» le immagini sembrano essere diventate entità dotate di una agency propria. Generano azioni e reazioni negli osservatori, nel mondo online e, poi, offline. Si mostrano in tutta la loro potenza e ambiguità, comunicativa e interpretativa. Ma, soprattutto, si tratta di immagini autonome, manipolabili con software di facile accesso e performative, con un proprio statuto ontologico. In relazione soprattutto a queste tre caratteristiche del visivo nel cyberspazio, sembrano essere cambiate, di conseguenza, le responsabilità di chi informa (e del suo pubblico) rispetto all’immagine e dell’immagine nei confronti degli attori del mondo dell’informazione.
Le “notizie visive”, informative di un evento o di un suo momento, sono sempre più richieste. Immagini fotografiche, schemi, segni, caricature, mappe, ecc. impongono una nuova organizzazione visiva degli spazi (su carta stampata e online), modificando, se serve, la tradizionale priorità dei titoli e/o di parte del testo dell’articolo. E, soprattutto, soddisfano il desiderio di partecipazione a un determinato istante del fatto rappresentato e di identificazione del pubblico.
In relazione a quanto delineato, dove si può rintracciare l’origine di questa priorità dell’immagine e, dunque, anche dell’immagine come mera informazione?
Per quanto riguarda il primo aspetto, Flusser ritiene che l’immagine nasca con la capacità dell’uomo «di astrarre dall’ambiente circostante e di simbolizzare gli elementi fondamentali della realtà mondana. Attraverso questo processo di astrazione simbolica l’uomo condensa le informazioni che si ottengono nell’esperienza, le trasfigura, rendendole visibili, condivisibili, sempre presenti»5. Non esiste pensiero che non venga visualizzato nella nostra mente in base alle proprie esperienze e al proprio immaginario di riferimento. Mitchell, per indagare l’evoluzione del nostro modo di “vedere” in questa rinnovata cultura visuale, si sofferma sui processi del guardare e dell’essere guardati. Un modo di comunicare che non può considerarsi ancillare rispetto alla parola, ma a sé stante. E nell’incertezza interpretativa propria dell’immagine risiedono la sua forza e la sua peculiarità, ma anche i rischi, quali, lo vedremo, la disinformazione, la polarizzazione, la spettacolarizzazione o la post-verità.
Certamente nell’attuale “svolta iconica” è mutato il modo di vedere e di essere visti, i concetti di visibilità e di invisibilità, illudendoci di vivere dentro una cultura di più facile accesso rispetto a una basata sul logos. Studi passati e soprattutto i recenti contributi sui visual culture hanno ampliato l’ambito tradizionalmente attribuito all’immagine – l’opera d’arte come sua più nobile declinazione – per comprendere sotto questa categoria tutto ciò che è possibile vedere e mostrare, “notizie” incluse.
L’immagine-notizia assume un proprio statuto ontologico, un codice proprio in ragione del crescente desiderio e della pretesa di conoscere il mondo attraverso frammenti di visioni. Maggiormente soggetta ad ambiguità, è soprattutto su questa caratteristica che l’immagine può fondare la propria autonomia comunicativa.
L’immagine è un linguaggio indipendente, non sempre legato alla rappresentazione di un qualche cosa che già esiste nella realtà oggettuale. All’immagine oggi, ancora di più rispetto al passato, non appartiene solo lo statuto segnico, quello più “informazionale”, secondo il quale sulla base di una forma-significante corrisponde un certo significato, ma semmai quello “espressivo”, più ricco dal punto di vista semantico, metaforico, e che consente una polisemia di sensi. Rappresentare non significa cioè creare il doppio della “cosa originale”: l’originale può non esistere, ma ugualmente può avere un carattere informativo.
Che cosa si intende allora per immagine? Cerchiamo di chiarire in sintesi il suo complesso statuto per poi appuntare l’attenzione più specificatamente sulla notizia visiva. Da un punto di vista etimologico il termine immagine si può ricondurre alla lingua latina e a quella greca. Il sostantivo imago assume il significato di forma esteriore di un qualche cosa, risultante di una percezione visiva, rifacendosi al concetto di forma sensibile, una sorta di imitazione di qualche cosa della realtà concreta. Sembra implicare l’imitazione o la somiglianza a qualche cosa o qualcuno. Del resto, nell’antichità, con il termine imago si indicava altresì la maschera funebre, il calco del viso del defunto per preservarne la memoria nel tempo, uno scambio simbolico tra ciò che rimane in vita (l’effigie) e chi non c’è più (il defunto).
Anche nel greco antico l’immagine si designa con il termine èikon, che rimanda al concetto di somiglianza, di riproduzione verosimile della realtà. Tale concetto si ricollega al verbo èidon, “io vedo”, il cui passato significa “sapere”, evocando la relazione tra visione e conoscenza. Ma èikos rimanda anche all’idea, a una rappresentazione mentale, non solo materiale.
L’atto del vedere consente di orientarci verso ciò che si potrà vedere subito dopo, poichè la memoria dell’appena visto può suggerire un’idea del presente e del futuro più prossimo (e una possibile chiave di lettura, a posteriori, del passato).
Con una immagine-notizia si vuole quindi restituire la presenza di un’assenza, stabilizzare l’incerto alla vista, offrendo un significato. Ma l’immagine, come accennato, può anche rappresentare qualche cosa che è indipendente da un referente o una sua semplificazione, come accade con le immagini scientifiche, i grafici, gli schemi, ecc.
L’immagine, dunque, si muove su due registri semantici, quello che si rifà all’idea di forma visibile e quello che riconduce all’idea di contenuto “irreale”, connesso con l’immaginazione, per informare comunque in modo anche più intuitivo e immediato. Al di là dell’accezione che le si attribuisce, l’immagine ha sempre lottato per essere apprezzata e compresa al pari di altri linguaggi comunicativi. Per essere efficace deve però attrarre lo sguardo, ciò che, se portato all’estreme conseguenze, nel contesto giornalistico delle notizie-visive, può indurre alla spettacolarizzazione dell’informazione da veicolare, richiedendo una riflessione di ordine etico. Lo sguardo e l’immagine sono del resto indissolubilmente intrecciati. L’immagine rappresenta, tramite linee, forme e colori ciò che corrisponde a uno sguardo. Definire un’immagine significa capire l’origine e le pratiche dello sguardo; e dallo sguardo, viceversa, procedono le immagini. Non esiste però un “grado zero” dello sguardo, semmai un’educazione etica allo sguardo. Un’etica dello sguardo che insegna, riprendendo Didi-Huberman, a ripristinare le condizioni necessarie alla vita delle immagini anche quando ne sopravvivono solo frammenti. In Immagini malgrado tutto, lo studioso prende spunto da una sequenza di quattro fotografie (notizie visive) scattate nel campo di sterminio di Auschwitz dagli stessi deportati del Sonderkommando, mostrandone alcuni frammenti; questo escamotage spinge chi guarda a riempire mentalmente le parti mancanti tramite la propria immaginazione, dando così un significato narrativo a quello che vede. Ci invita a riflettere su un’etica critica che ci indirizza a leggere nell’immagine le sue specificità e, al contempo, le sue pluralità, poiché ciascuna immagine è composta da un montaggio di altre immagini in relazione tra loro attraverso mancanze, ripetizioni, contrapposizioni, similitudini, ecc. Un’osservazione attenta individua la molteplicità nell’apparente unità dell’immagine, rendendola trasparente. Il montaggio, che crea relazioni arbitrarie e personali tra gli elementi coinvolti, rivela attraverso processi di decomposizione e di ricomposizione un qualcosa d’altro rispetto al mondo che riteniamo di conoscere. L’etica dello sguardo ci riporta quindi a pensare le immagini quali impressioni di un’assenza che sola può paradossalmente offrire il senso dell’immagine, e che può essere solamente immaginata. Come nel web, luogo in cui le immagini sono visualizzabili soprattutto per frammenti, più o meno grandi, più o meno deformati/deformanti. Chi informa con le immagini in rete deve ipotizzare quale o quali narrazioni il pubblico può trarre da tale frammentazione (anche nei suoi più piccoli particolari). E dalla possibilità di copiare l’immagine, tagliarla, manipolarla per nuove narrazioni. Il giornalista deve cioè guidare l’immaginazione del pubblico, altrimenti è l’idea che chi osserva ha del fatto rappresentato a prevalere. Lo sguardo diviene allora un’esplorazione nell’ambito di un processo di soggettivazione, arbitrario, per mostrare come da un insieme di dati visivi un soggetto ne possa vedere uno o molti, con significati sempre diversi, tutti potenzialmente veri.
Chi crea però una notizia attraverso immagini deve tenere conto del potere di indirizzo che offre al proprio pubblico nella lettura dell’informazione. Etica dello sguardo, dunque, per attivare una riflessione sui modi dell’essere dell’immagine; tra cui quell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. 1. Introduzione al tema
  7. 2. Il ruolo dell’immagine ai tempi dell’iconosfera
  8. 3. Il caso delle notizie visive. Lineamenti storici e prospettive etiche
  9. 4. Notizie visive tra deontologia e norme
  10. 5. Immagine, informazione e immaginario
  11. 6. Immagine, informazione e stereotipia
  12. 7. Le caratteristiche delle immagini in rete. Per un uso consapevole
  13. 8. Tipologie delle notizie visive in rete
  14. 9. Casi studio e principi morali
  15. 10. Conclusioni. Aspetti etici emergenti
  16. Bibliografia
  17. Ringraziamenti