Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate. Ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.
Martin Luther King
Un giorno d’inverno arrivò un cigno (grigio, non proprio nero)
Siamo in un momento in cui gli scenari nazionali e internazionali pongono sfide del tutto inedite. Gestire gli affari internazionali è sempre stato difficile, vuoi per la delicatezza delle materie trattate, vuoi per la perizia tecnica richiesta a chi vi opera. Oggi è diventato anche molto complesso. Le variabili sono numerose e tutte interconnesse, tali da mutare lo scenario di riferimento.
A metà del xx secolo, Edward Lorenz si chiedeva se il battito d’ali di una farfalla in Brasile potesse provocare un tornado in Texas. Il nucleo centrale del ragionamento era appunto la complessità, cioè una caratteristica qualitativa del sistema per la quale su di esso agiscono variabili diverse, interdipendenti e in grado di generare conseguenze non prevedibili. L’ultima conferma di quell’intuizione sulla concatenazione degli eventi ci è data dal Covid-19. Una grave pandemia, fino ad allora poco nota nel mondo, che nel giro di breve tempo ha colpito intere popolazioni, affossando i sistemi economici degli Stati e, nei casi più gravi, mettendo a repentaglio la loro stabilità sociale ed istituzionale.
La caduta del Muro di Berlino ha posto fine alla società lineare e tutto sommato prevedibile del secolo scorso. La globalizzazione ha moltiplicato i livelli di interdipendenza e la digitalizzazione li ha resi esponenziali. La geoeconomia di oggi riflette questa caratteristica. La sensibilità estrema a qualsiasi “battito di farfalla” rende impossibile analizzare le dinamiche globali con equazioni lineari di causa ed effetto, come accadeva in passato. Quando l’incertezza cresce, la strategia diventa la regola, ma elaborare strategie efficaci per rispondere alla complessità è sempre più difficile. Numerosi fattori sfuggono al controllo delle aziende e delle Nazioni, anche di quelle grandi e più forti, mentre il potere si diffonde velocemente verso attori privi di sovranità nazionale. Fenomeni locali si riflettono rapidamente su scala mondiale. Viceversa, trend globali cambiano le nostre vite. Le sfide dalle quali dipende il futuro dell’umanità sono sempre più interdipendenti. Le minacce, come quelle cyber, sempre meno “material”, ma non per questo meno meno concrete e pericolose. Impossibile isolare le une dalle altre ed affrontarle separatamente. Secondo la Banca mondiale, giusto per fare un esempio, gli effetti del cambiamento climatico nelle tre regioni più densamente popolate al mondo, cioè Africa Sub-Sahariana, Asia e America Latina, provocheranno entro il 2050 migrazioni interne di 140 milioni di persone. Per rispondere alle “sorprese” del nostro tempo, dunque bisogna avere una visione anticipatoria e una strategia flessibile per gestire le circostanze.
Ricordo di aver letto da qualche parte che il management moderno (quello delle aziende ma anche quello degli affari internazionali) assomiglia a un gran premio di Formula Uno. Tempo addietro, vincere un Gran Premio era principalmente una questione di perizia del pilota e di meccanica della vettura. Oggi invece l’esito della competizione dipende da un numero crescente di variabili, tutte interconnesse. Una valida strategia di gara deve combinarsi con rapidi adattamenti tattici, tenendo presente una serie crescente di variabili. A tal fine, la monoposto è dotata di centinaia di sensori che continuamente trasmettono ai box informazioni preziose per allineare strategia e tattica di gara, modificando dettagli tecnici e costringendo i team e i piloti a rapidi adattamenti. Come in Formula Uno, anche nella competizione economica, soprattutto se globale, vince chi sa combinare visione prospettica, cioè buona strategia di gara, con abilità di reazione ai diversi segnali del contesto, adattando tempestivamente la strategia generale alle circostanze specifiche della competizione.
I primi mesi del 2020 saranno ricordati come uno dei periodi che hanno cambiato un pezzo di storia. Non la fine del mondo, ma certamente di un mondo, e l’inizio di un altro. Gli Stati Uniti (sia il governo che la corporate America) avevano appena brindato all’ingresso nell’anno elettorale, felici di quello appena concluso e soddisfatti delle previsioni. Un decennio d’oro apparentemente destinato a protrarsi. Nonostante le guerre tariffarie con l’estero, gli aspri contrasti con la Cina ed alcuni conflitti interni tra Esecutivo e Congresso, l’economia usa era in forze: disoccupazione bassa, inflazione contenuta, profitti in ascesa e Wall Street alle stelle. Gli analisti di tutto il mondo erano convinti che l’economia americana stesse attraversando un’epoca di prosperità, destinata a durare anche oltre le presidenziali del 2020. A ragione, ne era convinto anche il Presidente Trump, osservando i dati confortanti in suo possesso: fra gli altri, un tasso di disoccupazione al 3.5%, cioè il più basso degli ultimi cinquant’anni, e un reddito medio delle famiglie cresciuto del 2,3% durante i suoi tre anni di mandato. Main Street e Wall Street spingevano gli Stati Uniti a grande velocità. «L’America è tornata a vincere di nuovo», affermava il Presidente sbarcando al World Economic Forum di Davos. Era il gennaio 2020.
Dall’altra parte del pianeta, a Pechino, l’anno si era aperto fra luci ed ombre. I numeri indicavano che nel 2019 la crescita del Dragone si era attestata al 6,1%. Un dato considerato formidabile per quasi tutti i Paesi, ma un valore appena soddisfacente per la Cina. In ogni caso, «un risultato compreso nella forchetta-obiettivo che il Partito comunista aveva fissato, molto prudentemente, tra il 6,5 e il 6%: Xi Jinping poteva dire di avercela fatta». Se il 2019 aveva impegnato i policy maker cinesi a controllare l’eccesso del debito e calmierare i prezzi immobiliari, per il 2020, anno conclusivo del XIII piano quinquennale della Cina, si prevedeva una crescita stabile. Lo dicevano tutti, pensando che il mondo sarebbe stato più o meno lo stesso. Il governo, dal canto suo, era intenzionato a proseguire il cammino verso una “società moderatamente benestante”, puntando a raggiungere l’obiettivo, più volte annunciato da Pechino, di raddoppiare il Pil tra il 2010 e il 2020. Un “film” destinato ad un finale diverso.
13 febbraio 2020. La Commissione Europea pubblica le previsioni economiche d’inverno 2020, che indicano una crescita contenuta ma costante. La zona euro certificava il periodo di crescita più lungo e stabile dall’introduzione della moneta unica, nel 1999. Un ventennio positivo. Ad alcune previsioni sull’inflazione leggermente al rialzo, faceva eco – finalmente – qualche buona notizia sul fronte occupazionale. «Abbiamo inoltre assistito», dichiarava il Commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, «a sviluppi incoraggianti quanto alla riduzione delle tensioni commerciali e all’eventualità, ormai scongiurata, di una Brexit senza accordo. Ma ci troviamo ancora di fronte a significative incertezze politiche, che gettano un’ombra sull’industria manifatturiera. Per quanto riguarda il Coronavirus, è troppo presto per valutare la portata del suo impatto economico negativo».
Poi, d’improvviso, l’arrivo inaspettato di un “cigno”, per usare la metafora coniata da Taleb nel suo celebre libro. Questa volta apparso sotto forma di un virus sconosciuto, che si è propagato con grandissima velocità a livello globale, causando quasi tre milioni di vittime nel mondo (al momento in cui si scrive), danni economici incalcolabili e un’incertezza sistemica improvvisa, che ha scosso la convivenza sociale, ma anche gli equilibri politici interni ai Paesi e quelli internazionali. Il mondo aveva conosciuto eventi simili, cioè di portata tale da cambiare il corso della storia e il destino dei popoli; ma probabilmente nessuno lo aveva fatto con la stessa velocità e i medesimi effetti del Covid-19.
25 marzo 2020. Neppure due mesi dopo le dichiarazioni rilasciate a Davos, il presidente Trump annuncia un pacchetto di misure da duemila miliardi di dollari per contrastare l’impatto economico del virus. Per capire l’entità, l’intervento approvato dagli usa per la crisi del 2008, scoppiata con il crollo di Lehman Brothers, era stato di “appena” ottocento miliardi. Ai duemila miliardi, si sarebbero aggiunti altri quattromila miliardi di dollari mobilitati dalla Federal Reserve per pompare liquidità nel sistema nei mesi a venire. Totale: 6 trilioni, poco meno del 30% del Pil annuale degli usa. Una somma equivalente a quella spesa dagli Stati Uniti in 20 anni di “guerra mondiale” al terrorismo. Un’iniezione spaventosa di denaro destinata all’economia reale usa e ai cittadini sotto forma di agevolazioni fiscali, finanziamenti alle imprese, indennità di disoccupazione ed altro ancora. Se nel solo mese di febbraio 2020 l’economia americana aveva creato 273 mila nuovi posti di lavoro (non agricoli), alla fine di aprile l’America si era trovata improvvisamente con 30 milioni di disoccupati, saliti in breve tempo a 40 milioni. Nei mesi successivi, la flessibilità del mercato del lavoro americano ha poi consentito di riassorbirne una parte significativa. Frattanto, Goldman Sachs rendeva note previsioni di contrazione del Pil americano del 34% nel secondo trimestre. Nell’arco di poco più di 30 giorni, la Borsa di New York aveva perso circa il 35% del suo valore complessivo e, in pochi mesi, il Covid-19 avrebbe fatto negli usa più vittime che l’insieme dei conflitti militari combattuti dall’America dalla guerra di Corea ad oggi.
14 aprile 2020. Dichiarazioni del Fmi: «Il lock-down globale dovuto al coronavirus è la recessione peggiore dalla “Grande depressione” degli anni Trenta e decisamente peggio della crisi del 2008». In quell’anno, il Pil mondiale si contrasse dello 0,1%, mentre per il 2020 il Fmi prevede una riduzione media complessiva intorno al -4%, con punte che si aggirano intorno a -10% per alcuni Paesi, fra i quali l’Italia. A questi numeri, naturalmente, vanno aggiunti l’aggravarsi dell’indebitamento pubblico, dovuto alle iniezioni di liquidità effettuate dai governi, e un drastico peggioramento del rapporto deficit/Pil delle economie nazionali. L’emergenza s...