Lettere sulla psicanalisi
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Le Lettere sulla psicanalisi, che coprono un lasso di quasi vent’anni – la prima del 2000, l’ultima dell’agosto 2019 –, la maggior parte delle quali difficilmente reperibili se non introvabili, sono state tutte precedentemente pubblicate in libri, riviste, siti, blog, ma solo riunite nell’insieme acquistano la loro forza dirompente.
Le Lettere attraversano praticamente tutte le questioni “roventi” della psicanalisi di questi ultimi terribili trent’anni: la legge 56/89 (legge “Ossicini”) che ha regolamentato le psicoterapie; la differenza irriducibile tra la psicanalisi e la psicoterapia; i presunti vantaggi di una Realpolitik che ha condotto gli analisti a sacrificare l’inconscio in cambio della rispettabilità professionale e di un posto in società; l’opposizione alla medicalizzazione della psicanalisi e la necessità di emendarla dal suo «peccato di gioventù» il gergo psichiatrico che la parassita; l’opportunità di rinunciare alla pretesa di «curare presunte psicopatologie» e di «continuare a giocare al dottore» (la psicanalisi non è una cura); le possibili prospettive attuali di una formazione analitica estranea alle scuole di psicoterapia; la critica dell’“epigonismo” e, last but not least, il congedo dalla Laienanalyse e la necessità di pro-gettare una psicanalisi «al di là del Novecento».
Le Lettere, ultimo e definitivo libro di Sias, costituiscono così, dopo il suo primo Inventario, pubblicato nel 1997, un bilancio della psicanalisi che rimette lo psicanalista di fronte all’alternativa preannunciata da Bion: « Questo è il possibile futuro con il quale la psicoanalisi si trova a far fronte: disturbare le autorità oppure collaborare per imprigionare la mente umana e renderla innocua ».

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788899193980
Argomento
Psicología
Lettere sulla psicanalisi
La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere.
Gustav Mahler

Nota sulle Lettere: l’autunno della psicanalisi

In questi anni si assiste, nella società occidentale, a una degradazione dell’intellettualità che procede attraverso la riproposizione di culture proprie dei sistemi totalitari e coercitivi, dove il dissenso non è ammesso ed è immediatamente sedato nelle forme che la politica e il discorso medico-scientifico impongono. Sta prendendo il sopravvento la cultura della “malattia”.
La questione psicanalitica è uno dei tanti sintomi di quanto accade a livello generale nella cultura, dove un “fascismo” strisciante, silenzioso e micidiale, e possiamo ben dire “popolare” – perché non implica solo le politiche cosiddette “populiste”, ma il fatto che sono sostenute da fette sempre più grandi della popolazione (esattamente come nei regimi fascisti e totalitari) –, impone attraverso i suoi canali, primo fra tutti il dominio dell’informazione, la sua volontà uniformatrice e standardizzata. È il sistema stesso della cultura in quanto imposizione del processo di adeguamento dei pensieri e del “sapere”, delle valutazioni e dei giudizi, al luogo comune. Ha prevalso la logica religiosa della lettura, dove ogni interpretazione è affidata unicamente all’autorità che determina “a priori” valore, senso e significato del testo, imponendo così, proprio sul piano del senso, un’unica direzione interpretativa a cui ciascuno deve adeguarsi. È un delirio, fondato sulla superstizione, che proprio per questo ha il potere di essere particolarmente coinvolgente. Alla superstizione religiosa si è sostituita oggi quella scientifica e nulla pare essere in grado di arrestare il suo corso.
Queste modalità, che perdurano almeno dall’ultimo ventennio del Novecento, hanno prodotto guasti e limitazioni alla libertà prima impensabili. Il modo in cui il potere si è riorganizzato dalla fine degli anni Settanta del ‘900 è qualcosa di mai visto, che ha annichilito un’intera generazione, quella del Dopoguerra. Per dirla con il filosofo russo Vitalij Machlin, ci troviamo di fronte a una generazione che non si è realizzata e non sembra trovare le vie della sua realizzazione. Questo significa che si è prodotto un vuoto che permetterà al potere di estendere tutta la sua potenza senza riconoscersi alcun limite. Ma come più volte è accaduto, l’estensione planetaria del potere, in particolare attraverso la tecnica, non ha fatto i conti con l’arte, con la spiritualità e con l’intellettualità, e neppure con quel mistero, capace di legare fra loro gli uomini, che è la solidarietà fra le pratiche artistiche, intellettuali, scientifiche…, che col tempo farà fallire simili progetti egemonici.
In questo modello di società sembra che i soli ad avere un valore sociale aggiunto siano i tecnici e gli epigoni. A farne le spese in modo incalcolabile è stata, dalla fine del Novecento, la psicanalisi, via via confinata e relegata a sistema di cura, estraniata dalla produzione della cultura, e soprattutto proscritta e bandita esattamente come è avvenuto in tutti i sistemi dittatoriali. È stata ridotta al solo rango accettabile di psicotecnica, secondo il programma del nazismo, ripreso dallo stalinismo e ora adottato a sistema in tutte le società dell’Occidente.
Queste Lettere, scritte tra il 2000 e il 2019, testimoniano di una tensione che si è prodotta fra gli analisti: tra coloro che ancora vogliono percorrere l’avventura psicanalitica e i tanti che si sono uniformati al “discorso del padrone”, alla psicoterapia di Stato. La gran parte degli analisti (o ex-analisti), dimenticando a che cosa erano stati formati, hanno scelto di conformarsi, di fare della loro pratica una professione. La repressione giudiziaria di questi ultimi anni ha fatto il resto.
Ma da quei pochi rimasti – e fra questi coloro che hanno apprezzato le mie Lettere e le hanno fatte circolare in Europa, contribuendo non solo a farle conoscere o a discuterle o ripensarle, ma anche a “riscriverle” nei loro discorsi – s’intravvede il germe della rinascita della ricerca psicanalitica in forme che non saranno più debitorie a un associazionismo ormai asfittico e a maestri cadaverizzati che si è voluto tenere pervicacemente in vita al solo scopo di non rischiare la propria parola.
A questi amici, a questi ospiti, a questi psicanalisti, il mio grazie.

1. Agli psicanalisti francesi

Si nous pouvons apporter une vérité d’une rigueur plus juste, n’oublions pas que nous le devons à la fonction privilégiée: celle du recours du sujet au sujet, qui inscrit nos devoirs dans l’ordre de la fraternité éternelle: sa règle est aussi la règle de toute action à nous permise.
J. Lacan1
Cari amici e colleghi,
seguo con attenzione i vostri dibattiti e le vostre posizioni intorno alla legge sulle psicoterapie.
Quindici anni fa in Italia abbiamo vissuto la stessa passione, le stesse preoccupazioni e le medesime inquietudini. Il dibattito era serrato, molti produssero documenti, rilasciarono dichiarazioni, denunciarono l’omogeneizzazione che avrebbe subito la pratica analitica una volta che sarebbe stata normata da una legge dello Stato. Si denunciò con chiarezza che non era possibile regolare la relazione d’analisi con una legge dello Stato, e che la specificità della psicanalisi, che nasce dal riconoscimento dell’inconscio, non può essere ricondotta a una delle tante psicoterapie. Tanti di noi ricordavano le preoccupazioni di Freud che mai, come in quel tempo, si erano presentate in Italia con tanta verità: «Non ci teniamo affatto che la psicanalisi venga inghiottita dalla medicina, magari archiviata definitivamente in qualche manuale di psichiatria, al capitolo terapia [...] La psicanalisi merita un destino migliore e lo avrà – lo si spera. [...] L’uso della psicanalisi per la terapia [...] è solo una delle sue applicazioni […] Ciò che [...] importa è che le possibilità di sviluppo interne alla psicanalisi non vengano colpite né da regolamenti né da divieti»2.
Ritrovo, nel vostro dibattito, tutto ciò che abbiamo vissuto allora con molta apprensione per il futuro della psicanalisi e degli stessi psicanalisti. Ritrovo ancora quelle posizioni che voi oggi formulate, rigorose e precise e giuste sul piano teorico e ideale a sostegno del discorso analitico e della libertà della sua pratica.
Come sapete, alla fine, tutto quel precisare e tutte quelle dichiarazioni non ebbero effetto alcuno, la proposta di legge fece il suo corso e lo Stato italiano decretò quella che sarebbe stata la legge sul riconoscimento legale delle psicoterapie. La legge, chiamata Ossicini, dal nome del suo promotore, fu approvata nel febbraio del 1989. Veniva così costituito l’albo degli psicoterapeuti e si decidevano i requisiti per potervi accedere insieme alle regole del riconoscimento degli psicoterapeuti e della loro formazione. Ma intanto molti psicanalisti, sia aderenti all’IPA e sia lacaniani, avevano testimoniato la loro presenza, avevano enunciato la realtà che li riguardava.
La legge italiana sulle psicoterapie non è male. Forse è il meglio che una legge potesse produrre. Un po’ confusa, quel tanto che basta da procurare qualche grattacapo ai giudici. Ai primi processi contro psicanalisti che non si erano adeguati chiedendo l’iscrizione all’albo degli psicoterapeuti i giudici, non sapendo bene come comportarsi nei confronti della legge, li hanno mandati assolti3.
Un caso curioso, se volete, ma la legge italiana non contempla la psicanalisi. Con l’introduzione della legge sulle psicoterapie la psicanalisi, in Italia, non esiste più. E neanche lo psicanalista esiste, a livello sociale, giuridico, fiscale e civile: non ha cittadinanza. O meglio ha la stessa cittadinanza di un ricercatore che non sia inserito in alcun centro istituzionale o professionale commerciale. Oppure è simile allo statuto di artista, la cui presenza è in relazione al suo solo discorso.
Giancarlo Ricci, nella prefazione alla traduzione italiana del libro di Élisabeth Roudinesco Pourquoi la psychanalyse?, scrive che in seguito alla legge Ossicini dove, nell’enumerazione degli orientamenti della psicologia e della psicoterapia, la psicanalisi non è mai menzionata, questa resta abbandonata in una «terra di nessuno»4. Interessante riferimento che richiama la frontiera, luogo in cui coesistono due lingue, due monete, due legislazioni.
Comunque sia, la legge italiana contiene tale paradossalità: la psicanalisi, mai nominata, non esiste; esistono solo le psicoterapie a cui viene riconosciuto il criterio della scientificità, criterio che legittima il loro uso in ambito privato e istituzionale.
E lo psicanalista? Semplicemente non esiste. In Italia nessuno può mettere una targa o stampare un biglietto da visita con scritto “psicanalista” e renderlo pubblico. Farlo significa essere immediatamente deferiti, dall’Ordine degli psicologi, al giudizio della magistratura per abuso di professione: la sola dicitura consentita è quella di psicologo-psicoterapeuta oppure medico-psicoterapeuta.
Coloro che, al momento dell’entrata in vigore della legge, non essendo né psicologi né medici, non hanno chiesto di rientrare entro una data stabilita nei criteri della moratoria per l’iscrizione all’albo degli psicoterapeuti, di fatto e di diritto non hanno più esistenza.
Tutto ciò, voi capite, introduce una situazione straordinaria, eccezionale. Il motto ritorna di nuovo, dopo Freud, a essere il voto dello psicanalista: Navigare necesse est, vivere non necesse! Il voto e la scommessa di governare una nave sempre assalita dalle onde del potere ma che non affonda.
Quando la legge entrò in vigore ho vissuto giorni di grande inquietudine e di grande imbarazzo. Non sapevo più cosa fosse giusto fare. Interrogavo gli amici e i colleghi. Ricordo che quell’anno avevo in corso un seminario sul caso clinico di Dora all’università di Genova. Temevo, come tutti, per il mio avvenire. Mi erano rimasti pochissimi giorni per decidermi se aderire alla sanatoria dell’articolo 32 della legge concessa a quanti, avendo operato nel campo delle discipline psicologiche a qualunque titolo, laureati o no, volevano richiedere l’iscrizione all’albo degli psicoterapeuti.
Eravamo, allora, alla fine dei corsi universitari e molti amici mi sollecitavano a richiedere l’iscrizione. Ricordo ancora la sera in cui, a cena, l’allora presidente dell’Ordine degli psicologi di Genova mi sollecitò offrendomi l’iscrizione all’albo, pur essendo io residente a Milano. Il cambio di residenza anche temporaneo non sarebbe stato che un piccolo e banale fastidio, e io sarei diventato uno psicoterapeuta abilitato a tutti gli effetti.
Si era prodotto, in quelle settimane, uno scompiglio interessante e divertente sia nell’ambiente psicologico sia in quello psicanalitico. Di quello psicologico poco importava. Curiosa era però la piega che la questione stava prendendo fra gli psicanalisti. Dopo le dichiarazioni, le analisi, i dibattiti e i contro dibattiti, le affermazioni convinte in difesa della specificità della psicanalisi, l’angoscia del domani prendeva il sopravvento. La paura di non poter più lavorare, il timore di restare esclusi da possibili incarichi istituzionali, la visione spaventevole di un futuro incerto servì per dimenticarsi di quelle dichiarazioni che fino a qualche giorno prima erano così convinte, determinate, intransigenti.
Troppo poco determinate, forse, ma certo troppo intransigenti, quasi a voler esorcizzare i propri timori. Anche chi non aveva timori per il proprio futuro perché sufficientemente garantito da patrimoni personali e familiari correva ai ripari con la giustificazione che così non avrebbe più avuto il problema dei versamenti dell’IVA (l’imposta sul valore aggiunto della legge fiscale italiana) e avrebbe semplificato la contabilità. Ma anche questa giustificazione tradiva il timore che in tutti serpeggiava in quei giorni: la paura di non poter più aprire il proprio studio. Poco importava alla fine, e comunque veniva taciuto, che le fatture si trasformassero in parcelle mediche.
Visti retrospettivamente, tutti questi timori, così come le intransigenti dichiarazioni, non erano altro che la consapevolezza, forse mai voluta, che, con l’entrata in vigore della legge sulle psicoterapie, l’onere della dimostrazione di praticare la psicanalisi e non la psicoterapia era demandata a ciascun analista, qualora fosse stato chiamato in giudizio a rispondere della propria attività. Perché e in che modo si era psicanalisti e non psicoterapeuti? Quale la discriminante, tale per cui un giudice, un qualsiasi giudice di un tribunale dello Stato, riconosceva che l’attività di psicanalista era realmente estranea all’attività dello psicoterapeuta e che le due attività non solo sono fra loro incommensurabili, ma neppure creano confusione alcuna nella loro teoria e prassi rispetto a coloro che allo psicanalista, e non allo psicoterapeuta, s’indirizzano? Dove si riconosce, nella teoria e nella prassi, che una psicanalisi, differentemente da una psicoterapia, non rientra nei criteri di cura e di guarigione secondo la pratica medica? Perché chi praticava la psicanalisi non sarebbe caduto nel delitto di abuso della professione di psicoterapeuta, ovvero di abuso della professione medica?
Forse fu per uno scatto d’orgoglio o forse fu per lapsus che per me passò il giorno della scadenza dei termini per la presentazi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I Quaderni di Polimnia
  3. Presentazione
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Nota dell’editore
  7. Nota dei curatori
  8. Introduzione. Sul rapporto tra lo psicanalista e il potere - Moreno Manghi
  9. Lettere sulla psicanalisi
  10. Postfazione. Forcener le subjectile... - Salvatore Pace
  11. Riferimenti bibliografici dei testi citati
  12. Bibliografia di tutti gli scritti di Giovanni Sias