L'università che vorremmo
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L'università che vorremmo

Proposte e riflessioni di studenti ed ex studenti

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L'università che vorremmo

Proposte e riflessioni di studenti ed ex studenti

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Questo libro raccoglie quarantacinque contributi di studenti ed ex studenti della facoltà di giurisprudenza dell'università di Trento, cui è stato dato un unico "faro", quello del titolo: "L'università che vorremmo". In modo personale ognuno di loro ha affrontato un tema che aveva a cuore. I contenuti sono poi stati organizzati in sei sezioni: "Università e valori"; "Comunità"; "Università e crescita"; "Studenti"; "Università e transizioni"; "Relazioni".Leggerlo può dare uno spaccato dell'università esistente e dell'università che potrebbe esistere, visto dagli occhi di chi la vive o l'ha vissuta, mostrando sia conferme che aspettative tradite ed individuando i problemi più "sentiti". Leggerlo, d'altra parte, può anche mostrare come l'università debba recuperare spontaneità e curiosità, consultando in modo libero le persone che la frequentano. Ci sono cosa da dire, ci sono persone che sono disponibili a dirle, e lo sanno fare.Il libro è rivolto a studenti, docenti, membri degli organi decisori, ai diversi livelli, e a chi abbia interesse per le tematiche universitarie e per le opinioni di studenti ed ex studenti. Ma è rivolto anche a quegli studenti delle scuole superiori che sono curiosi di sapere di più sull'università e sulle sue dinamiche, viste da prospettive personali fondate sull'esperienza.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2021
ISBN
9788855265300
A cura di
Nicola Lugaresi

L’UNIVERSITA'
CHE VORREMMO

Proposte e riflessioni di studenti ed ex studenti
LEDIZIONI

UNIVERSITà E VALORI

Carla Spagnolo*

La lotteria dei macaron
L’università che vorrei è un’università coraggiosa, che sappia ispirare e alimentare la voglia di cambiare il mondo. Che sappia chiamare per nome quello che non funziona. Che sappia essere vera comunità: presente nelle vite di chi la abita, senza lasciare nessuno indietro. È l’università che sogno perché non è quella che ho conosciuto, solo quella che ho intravisto in rari momenti e sguardi, troppo spesso sbiaditi dalla corrente che tutto avvilisce. Quando tante teste si chinano pensando che così non va bene, ma così è sempre stato.
Non vuol dire però che non sia profondamente grata agli anni trascorsi a farne parte e per l’opportunità di crescita straordinaria che è stata. Sono estremamente preziose tutte le lezioni che impariamo sia dentro che fuori dalle sue aule: le più utili, le più piacevoli, ma forse, più di tutte, le più dure. Frequentiamo i corsi per apprendere concetti e nozioni, per sentire nuove idee, per capire come funzionano le cose. Per diventare adulti e costruire il nostro futuro, per essere cittadini attivi per noi stessi e per gli altri. Ma, allo stesso tempo, ci troviamo anche ad affrontare i fallimenti che fanno sentire senza bussola, i mesi che passano fuori dalla finestra della biblioteca tutti uguali, la voce interiore giudicante che scava continuamente chiedendo:
«Perché lo fai?»
Negli anni sono andata perfezionando l’arte della bellezza accidentale da trovare nelle crepe di quelle giornate che incredibilmente riescono ad essere tanto pesanti quanto vuote e infinite. Probabilmente uno dei corsi con il più alto numero di crediti formativi che si possano inserire nel piano di studi.
La lotteria dei macaron era un’abitudine che avevo preso nei mesi in vista di un esame particolarmente travagliato da preparare e, ovviamente, difficile da superare. Di quelli il cui esito resta appeso ad un lancio di dadi a prescindere dai mesi e dagli evidenziatori investiti. In quel periodo avevo messo radici in una sala studio che detestavo profondamente: ogni mattina il suono della sveglia che faceva da preludio a quella prospettiva pesava un po’ di più. Come tanti altri in quella sala mi trascinavo attraverso le ore nella prospettiva di uscire a metà pomeriggio, con qualsiasi tempo, e attraversare la strada per andare a prendere il caffè al bar di fronte. Ogni tanto nella vetrinetta spuntavano i macaron: non c’era un giorno particolare della settimana o del mese in cui si potessero trovare, quindi mettere quel dolcetto di fianco a caffè e giornale per me voleva dire essere incappata in una giornata fortunata. In quei mesi avevo anche preso un’altra abitudine: tenevo un’agendina in cui segnare una cosa buona per ogni giorno, anche quello peggiore. Un film, una passeggiata, un libro nuovo (per festeggiare se l’esame andava bene e per consolazione se andava male), una bella chiacchierata o qualche ora di sole. Quando il macaron compariva aveva subito diritto ad una sua pagina: così si apriva una piccola crepa in cui scovare un atomo di bellezza.
Per quanto banali e forse un po’ patetici, l’agenda e il macaron erano carichi di significato perché mi permettevano di cogliere in profondità la strettissima correlazione tra benessere emotivo e qualità dell’apprendimento. Rappresentavano dei piccoli esercizi di sopravvivenza psicologica: del tipo in cui ogni studente universitario diventa un maestro negli anni fra l’immatricolazione e la laurea. Del tipo che ormai abbiamo imparato tutti a conoscere ed elaborare fin troppo bene nell’anno della pandemia. L’anno in cui è diventato più che mai evidente come la salute mentale non sia un problema del singolo (o, peggio, dell’individuo debole), ma una questione collettiva la cui dimensione pubblica non può assolutamente essere trascurata. Una lezione che, tuttavia, non sembra ancora del tutto appresa, quando ancora l’assistenza psicologica viene trattata più come un optional per chi se lo può permettere che non come un servizio sanitario di base.
Adesso, come spesso succede per le esperienze chiuse, i contorni dei momenti più sofferti diventano sfumati, detriti inerti. Resta in superficie il bello e il buono che c’è stato, vestendosi di una punta di malinconica nostalgia. Alla voce giudicante ho imparato ad assegnare un nome, e si sa che chiamare le cose per nome aiuta a farle proprie, e farle proprie insegna ad accettarle e non averne paura.
Tutto bene quel che finisce bene?
Forse non del tutto.
Mettere distanza con l’esperienza universitaria mi ha dato una nuova visione d’insieme, permettendomi di cogliere con più lucidità zone d’ombra a cui non avevo dato in precedenza contorni definiti. Lungo tutta la mia avventura di studio ho incrociato i percorsi di moltissimi altri studenti, raccogliendo racconti diversi e personalissimi, ma pieni di assonanze, nel bene e nel meno bene.
In queste vicende si avvertiva fin troppo spesso un senso di solitudine, di svuotamento e perdita di significato, di frustrazione e assenza. Un pattern tristemente diffuso che si esplicitava di volta in volta in attacchi di panico, in rinunce agli studi fatte in solitudine, in lauree che diventavano estenuanti fatiche di Sisifo; ma anche di momenti di intenso spavento in percorsi apparentemente perfetti. In questo tipo di narrazioni chi studia cerca di solito l’aspetto consolatorio del non sentirsi solo nei momenti più neri, ma mettendosi in atteggiamento di ascolto più profondo si può trovare dell’altro: i contorni di una vicenda collettiva di salute mentale trascurata. O, peggio ancora, calpestata. Non è indubbiamente un caso se questo tema riemerge in più punti nel libro che state leggendo. E se un filo conduttore così forte lega esperienze di crescita così diverse fra loro, la domanda sorge con prepotenza: perché un problema di tutti non sembra non essere la preoccupazione di qualcuno?
L’architettura ostile è un fenomeno nascosto in piena vista nelle nostre città. Panchine scomode, illuminazioni bizzarre e spuntoni: un esercito silenzioso funzionale a mantenere pulizia, ordine e pubblico decoro. Più di qualcuno ha però osservato come si possa anche cogliere in trasparenza una chiave di lettura ben più inquietante. Quel bracciolo posto in mezzo alla panchina suggerisce che sulla scala delle priorità di chi decide sia chiaramente più importante (oltre che più facile) allontanare dagli occhi disagio ed emarginazione, che cercare la ferita nel tessuto sociale e prendersene cura. Si impedisce ai senzatetto di dormire sulle panchine del parco ma non ci si pone il problema di dove andranno, né quello di aggiungere ulteriore sofferenza ad una condizione umana durissima. Si sottraggono piazze allo spaccio ignorando volutamente che queste forme di microcriminalità si sposteranno a costituire la preoccupazione di un altro quartiere. Girando lo sguardo dall’altra parte di fronte ad un evidente problema di gioventù “bruciata” in partenza da condizioni di marginalità ereditarie. Quella che all’apparenza è difesa passiva dalle brutture della società nasconde in sé un’anima dura di ostilità attiva: lontano dagli occhi, lontano dal cuore, e lontano da ogni forma di riscatto. Il senso del conflitto tra gruppi che prevale su quello di comunità.
Quando penso a come la tematica della salute mentale (non) viene affrontata in ambito universitario, l’idea di architettura ostile si affaccia con forza nella mia immaginazione. Gli elementi dissuasori questa volta sono una complessa rete sommersa di abitudini tossiche, di mancanze e assenze, disseminati sia dentro l’ambiente universitario che attorno ad esso. Anche questi connotati dalla doppia natura di motore e catalizzatore di fenomeni di divisione ed esclusione. Le vergogne nascoste sono proprio quelle solitudini, gli attacchi di panico, gli anni fuori corso, le rinunce agli studi. Ma anche manifestazioni di fragilità più nascoste e sfumate, che dovrebbero essere ancora più preoccupanti proprio perché più difficili da individuare.
Non si tratta della difficoltà oggettiva della preparazione di un esame o di una tesi: un momento di prova non può venire senza nemmeno un filo di apprensione, che a livelli tollerabili può essere una molla di dedizione e impegno. Parlo di quando l’etica (ed estetica) della sofferenza cresce di volume a dismisura, fino a fagocitare il piacere dell’apprendimento e del confronto. Quando diventa l’elemento preponderante dell’esperienza universitaria: paura per essere paura, pagine da memorizzare in quantità incompatibili con la qualità dell’apprendimento, teoria per essere teoria autoreferenziale e mai pratica. L’esame come un momento di scontro e giudizio sulla persona invece che una semplice indicazione sul livello di comprensione dell’argomento. Un pezzo di carta e non un saper fare.
Abbiamo tutti esperienza di conversazioni tra studenti in cui ci siamo scambiati storie sofferte facendo perfino a gara fra chi aveva la peggiore, con un pizzico di orgoglio e due di auto commiserazione. Eppure, i corsi e le lezioni da cui abbiamo assorbito di più sono stati proprio quelli in cui il materiale era ben organizzato sia in qualità che in quantità e si percepiva un forte lavoro di preparazione dei docenti in primo luogo su sé stessi. Quelli in cui si coglieva in ogni momento il senso di ciò che si stava facendo. Erano anche i corsi in cui sapevamo di non andare incontro ad un esame di quelli che si rischiano di fallire non in base alla propria preparazione, ma in base al lato del letto da cui è scesa quel giorno la persona seduta dall’altro capo della cattedra. Erano, evidentemente, i contesti in cui eravamo sereni e quindi liberi di imparare al meglio. Liberi di essere noi stessi anche nell’apprendimento.
Un sacco di ovvietà, verrebbe da dire, ma quanto spesso tutto questo non sembra scontato. Quante volte prendiamo come dato di fatto che i risultati non siano veramente guadagnati senza essere ingiustificatamente sofferti. Quante volte ci stupiamo di trovare comprensione ed empatia quando invece dovrebbe essere la normalità, non solo nel contesto universitario, ma anche al di fuori di esso.
Ci sono poi, oltre alle tradizioni tossiche, le altrettanto ingombranti pratiche dell’assenza: nella struttura organizzativa universitaria ci sono segreterie, docenti, uffici amministrativi, ma nessuna figura a cui fare veramente riferimento per questioni che riguardano il benessere mentale degli studenti.
Se c’è un fenomeno, in questo senso, più emblematico di tutti, sono le rinunce agli studi. Puntualmente salutate dal silenzio delle istituzioni universitarie, come se ad andarsene fosse un “abbonato” e non una persona che ha dedicato ingenti risorse umane e finanziarie a far parte di quella che dovrebbe (e quanto è frustrante mettere il condizionale) essere una comunità con un suo senso di appartenenza. Come se l’idea di un percorso che si interrompe a quel modo non dovesse far dormire scomodo più di qualcuno che, evidentemente, è stato mancante nel proprio ...

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  1. L’UNIVERSITA' CHE VORREMMO