II Capitolo
Il delicato rapporto tra magia e psicopatologia evidenziato da alcuni autori in letteratura-saggistica e filosofia
2.0 Magia e storia in Ernesto de Martino
Ernesto de Martino definisce la pratica della magia «una lotta per la presenza contro il rischio della dissoluzione». Come il mito, essa non distingue tra soggetto e oggetto, che si fondono in una sola realtà, dando luogo alla confusione e alla commistione della parte con il tutto. Il nome diventa una sola cosa con la sua immagine, lungi dall’essere la mera rappresentazione della cosa stessa. La religione introduce invece una separazione delle forme, iniziando a operare una distinzione tra soggetto e oggetto. L’Io si pone in relazione con Dio, cercando di ingraziarsi la sua benevolenza con preghiere, sacrifici ed espiazioni. Si assiste a un passaggio graduale dal primitivo al contemporaneo, in cui si può osservare una derivazione delle forme più evolute da quelle primitive, in epoca storica successiva. Allo stesso modo, la storia ha sostituito la magia, introducendo il nesso di causalità nella spiegazione degli eventi naturali, e superando la fantastica interpretazione dell’immaginazione caotica e vitalistica del pensiero originario. Contro la distinzione delle forme crociane, in arte, filosofia, economia ed etica, de Martino predilige la netta superiorità del momento artistico creativo, perché è propriamente all’arte che fa riferimento il comportamento magico. Il mago, lo Sciamano, non è altro che il “Cristo Magico”, l’eroe della presenza, che sa assumersi la responsabilità della comunità, contro il rischio della sua dissoluzione, prendendo su di sé il nulla come possibilità, e facendolo fiorire nel “ci sono” della presenza e della cura. È il passaggio dalla natura, in cui l’uomo vive senza consapevolezza del suo esistere, alla storia, laddove quella presenza si fa cosciente di sé, unitamente al terrore che l’esistente possa sempre e comunque, da un momento all’altro, dissolversi nel niente. Non si fa fatica a comprendere l’angoscia del nulla, che de Martino interpreta attraverso la crisi della presenza e la possibilità, per l’esserci, di dissolversi e sparire, se si pensa che lo studioso approdò a queste conclusioni dopo le tristi vicende della Seconda Guerra Mondiale, con il tremendum che quel conflitto aveva portato sulla scena. I crimini dei lager, dei gulag, delle foibe. Poi la bomba atomica. Tutte le costruzioni umane erano diventate volatili e labili. Strutture di carta pesta che in un solo attimo potevano essere spazzate via per sempre. L’opera antropica, che segna il passaggio culturale dalla natura alla storia, non aveva nulla di compiuto, di definitivo, di assoluto. Ma veniva continuamente e sempre rimessa in discussione, perché labile, volatile, precaria, e destinata a scomparire nel tempo. L’angoscia del nulla, della desertificazione, attanagliavano l’umanità nella morsa gelida dell’orrido che si era appena consumato, col terrore che tutto quel male potesse ancora ripetersi. Il Novecento, il secolo breve dei due conflitti mondiali, e della Rivoluzione Russa, aveva dimenticato la magia buona, la magia bianca. Lo Sciamano, il Cristo Magico, l’Eroe della presenza, si erano dissolti come neve al sole. E adesso si sperava in un nuovo avvento messianico. Solo la magia poteva salvare il mondo dalla follìa stregonesca dell’uomo senza Dio, che pretende nietzscheanamente di sostituirsi a Dio. L’umanità passava, irreversibilmente, dal mondo del divino al piano della storia, nel quale, per sopravvivere, doveva tornare a inventarsi un mondo nuovo, un futuro possibile. Così la magia lasciava, pian piano, il suo posto. De Martino studia Croce, assimilandolo e contrapponendosi, allo stesso tempo, al pensiero del “filosofo napoletano”, come viene definito il pensatore nato a Pescasseroli. Per Benedetto Croce, difatti, la magia è il cominciamento della storia, ed è il suo primo atto nel mondo della natura, come tentativo di affermare la presenza umana contro il rischio della dissoluzione. Perché non vi può essere storia senza magia, che sia completamente fuori dalla natura, dal momento che bisogna presupporre quest’ultima per il verificarsi successivo dell’accadimento dei fatti veri e reali che quella significa e rappresenta. Anche in de Martino la magia è sostanzialmente il primo atto della storia deputato a sconfiggere la paura della dissoluzione e la crisi della presenza dell’umanità totalmente immersa nella natura. In quanto tale, il comportamento magico intende riaffermare la presenza umana nella storia, che vuole orientare e dirigere, e alla quale non lascia lo spazio per soccombere. Il mago qui è evidentemente interpretato come l’homo faber, autore del suo proprio destino, non succube, ma dotato di capacità di azione e di intervento pragmatico sul mondo. Egli è l’assolutamente umano, che cambia, modifica, ordina e organizza la realtà esterna, in modo intelligente e adattivo all’ambiente. La magia e la religione con i loro riti esorcizzano il rischio dell’assenza e della scomparsa umana dalla scena del mondo. Compito identico lo avranno successivamente la scienza e la tecnica. Ma anche l’economia con la ricerca dell’utile, secondo l’insegnamento crociano della dialettica dei distinti nelle quattro forme dello spirito. Perché per il neoidealista la storia è sempre e comunque Storia dello Spirito. Per de Martino invece, che è studioso e seguace di Marx, non esiste storia senza prassi. E la storia è il luogo in cui si concretizza l’esistenza, che va oltre la natura e costruisce la cultura. Ed è proprio l’economia, nella interpretazione storiografica di tipo marxiano che ne fa de Martino, ad avere la meglio sulle altre forme dello spirito, arte, filosofia ed etica, della dialettica crociana dei distinti. Perché la storia per Marx è prassi e lavoro, in quanto è storia dei rapporti economici, e non si dà se non dentro il materialismo storico e nel materialismo dialettico della lotta di classe. Così, le quattro forme dello spirito della dialettica crociana, arte, filosofia, economia ed etica, esorcizzano, al pari della magia, della religione con i suoi miti, della scienza e della tecnica, la paura di sparire dalla scena esistenziale del mondo. La paura che genera l’idea che il mondo possa finire. E riaffermano con forza la presenza umana, attraverso i segni culturali che l’umanità in cammino disegna nella sua storia, nell’intento di dominare l’imprevedibilità della natura. Già Kant studiava la metafisica come umana necessità della ragione di dare una spiegazione e offrire un senso al mondo. E Heidegger sosteneva che l’esistenza autentica non è quella che si vive nel “si dice” della chiacchiera, ma è quella che si attualizza nell’incontro dialogante e dialogato con l’altro esserci, con il quale si condivide umanamente l’essere per la morte, cioè la finitezza storica dell’esserci, e del suo stare al mondo. Per de Martino, il passaggio dalle forme esistenziali obnubilate e ambigue, che attraversano i percorsi della magia e della religione, fino alla coscienza certa della presenza umana, che riafferma se stessa nella costruzione culturale del mondo esterno, non è possibile se non passando attraverso la storia, vissuta come dovere imprescindibile di tutta l’umanità, che vuole continuare a essere presente, nonostante la catastrofe del secolo breve, per esorcizzare il rischio, sempre incombente, della dissoluzione e dell’assenza. Difatti, se ci si ferma all’interpretazione primitiva del mondo, vissuto attraverso l’atavico animismo magico, si rischia di scivolare nella patologia schizofrenica che separa i fatti e gli eventi, spiegandoli sommariamente ed estrapolandoli dalle loro effettive cause reali. Mentre soltanto la comprensione storica del mondo costruisce il significato culturale su quello estemporaneo e deterministico della natura, testimoniando la libertà individuale e collettiva nell’agire responsabile e pragmatico. L’umanità imprime, nella storia, un senso orientato all’andamento lineare e ordinato del tempo, dalla necessità del passato, alla possibilità del presente, fino all’azione progettuale orientata verso il futuro, inserendo il nesso causale dentro la lettura dei fatti, e riaffermando il dovere della presenza, contro la desertificazione e la vuota possibilità dello spettro del nulla. Ma è ancora possibile, attualmente, scrivere una storia della magia? Della magia si può e si deve fare storia — risponde de Martino. Ma il punto focale della questione, per comprendere il fenomeno magico, non è tanto insito nella contestualizzazione culturale dell’evento, quanto piuttosto si concentra nell’attitudine, del nostro etnologo, a estrapolare dalla localizzazione culturale, e geografico-territoriale, quelle caratteristiche della magia lucana che la rendono un elemento tipico della mentalità collettiva, e del comune sentire, del Regno di Napoli, e del Mezzogiorno italiano, sebbene poi, ogni epoca storica, e ogni luogo geografico, abbiano le loro evidenti manifestazioni di cultura popolare, differenti le une dalle altre. Un tratto condivisibile della mentalità magica è, ad esempio, la superstizione religiosa, tipica di un certo paganesimo di fondo, delle origini, che potrebbe indurre a propendere per una laicità pagana intrinseca alla mentalità contadina del Sud. Tale paganesimo sarebbe espressione della ritualità formale, e tutta esteriore, degli stessi culti religiosi dei fedeli cattolici. E si manifesterebbe nel verificare che molti riti sacramentali, uno per tutti il Battesimo, vengono ritenuti comunemente una forma tipica di rituali beneauguranti, apotropaici e propiziatori. Vi sono, poi, dei rituali tipici, di città e luoghi geografici, che connotano la dimensione culturale e spirituale, segnando alcuni territori in modo del tutto particolare. Come il caso della città di Napoli e della jettatura.
2.1 Il magico Sud
In Sud e Magia di Ernesto de Martino, pubblicato per la prima volta nel 1959, l’autore si occupa prevalentemente di studiare e rappresentare le forme della magia lucana, nel meridione italiano, partendo dall’...