Città nel Covid
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Centri urbani, periferie e territori alle prese con la pandemia

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Centri urbani, periferie e territori alle prese con la pandemia

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I mutamenti economici e sociali indotti dalla crisi pandemica hanno di fatto indebolito la forza interpretativa delle letture dicotomiche e contrapposte tra centri (città) e margini (periferie), avvalorando e incoraggiando nuove concettualizzazioni e nuove rappresentazioni, meno polarizzanti e maggiormente orientate alla complementarità tra i luoghi. La pandemia ha, infatti, obbligato a ridefinire il rapporto con lo spazio fisico e con le relazioni interpersonali, ponendo il distanziamento e la limitazione della densità umana come necessità vitali e prospettiva di nuova normalità. Le grandi città conserveranno un ruolo fondamentale nell'architettura territoriale, pur dovendo necessariamente adattare strutture e funzioni, ma è emerso, di riflesso, il ruolo rilevante di forme di insediamento abitativo più periferiche e di vivibilità meno concentrate, fruibili in aree a più bassa densità di popolazione, in territori lasciati ai margini ma potenzialmente riabitabili. Si prefigura la possibilità di introdurre modifiche nella natura di gerarchie e relazioni territoriali e nelle loro rappresentazioni. Quali dunque sono stati gli effetti del distanziamento, del lavoro a distanza, dei limiti imposti all'apertura di attività produttive, scuole, università, alla circolazione delle persone, e alle pratiche di interazione sociale? Quali ne saranno gli impatti non transitori su disparità territoriali, dinamiche dei sistemi produttivi, ed emersione di bisogni di un nuovo modo di vivere e di relazionarsi delle persone? Il volume raccoglie contributi finalizzati a fornire risposte a tali interrogativi, con un approccio multidisciplinare, utile per delineare gli scenari possibili delle dinamiche sociali, economiche e territoriali post-Covid 19.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788855222884

Parte prima

Persistenze strutturali e shock pandemico

I. Riconfigurazioni urbane e nuovi rapporti tra centri e margini

di Filippo Barbera e Antonio De Rossi

1. Introduzione.

Non è per nulla semplice essere testimoni diretti di cambiamenti epocali nel corso della propria vita. Le rivoluzioni politiche sono, tutto sommato, poche e i cambiamenti di fase richiedono spesso tempi di accumulazione di molteplici fattori, economici, demografici e sociali. Anche le pandemie sono in fondo eventi a bassa frequenza, se ne contano 72 con più di 1000 morti dal 429 d.C. al 2020 (Cirillo - Taleb 2020). Inoltre, e più importante, anche gli eventi che ci appaiono come punti di svolta della storia devono fare i conti con la persistenza delle strutture sociali, con la vischiosità dei rapporti di potere pregressi e con i costi sommersi del cambiamento. Da questo punto di vista, il cambiamento sociale non va mai inteso come una sequenza di fasi delimitate e nettamente separate, come sostituzione tra elementi discreti che si succedono nello scorrere del tempo. È, questa, una visione del mutamento sociale che deriva dalla «transitologia» (Stark 1996), una sorta di cornice latente che si attiva in occasione di congiunture critiche, crisi e tensioni tra integrazione sociale e integrazione sistemica. In queste occasioni – quando cioè gli assetti sociali sono scossi da eventi che assumono i tratti del «fatto sociale totale» – la mente si quieta di fronte alle immagini dicotomiche del cambiamento1. Immagini, però, che non sono in grado di cogliere la qualità ibrida del cambiamento sociale e impongono semplificazioni limitanti dei processi storico-sociali. L’effetto della pandemia sui rapporti tra centri e periferie va interpretato in questa accezione: il «post-Covid» non sarà un semplice ritorno alla vecchia centralità degli agglomerati urbani e neppure si costituirà intorno a una nuova centralità dei margini. Alla lettura dicotomica – tanto passatista che intrisa di apparente novità – derivata dalla cornice latente della «transitologia», occorre sostituire rappresentazioni costruite sulle ibridazioni possibili, sul rimescolamento tra elementi e dimensioni che generano nuove configurazioni territoriali. Consideriamo, tra i molti possibili, l’ibridazione tra montagne e centri urbani. Le città, come vedremo di seguito, sono state e continuano a essere al centro delle narrazioni sullo sviluppo territoriale: attrattori potenti e catalizzatori di risorse, poteri e saperi, le città sono assurte a «totem» delle rappresentazioni e dei racconti pubblici sulle traiettorie di sviluppo di paesi e territori. Le montagne, al contrario, sono «i margini dei margini», che oggi paiono acquisire una nuova centralità in molti discorsi pubblici. Qui, però, si pone plasticamente il problema appena delineato: così impostata, la nuova centralità è nuovamente dicotomizzante, divide invece che unire, non lavora sulle interdipendenze, sui flussi e sui confini funzionali dei sistemi territoriali. Ciò è tanto più limitante, quanto più si considera la storia dei rapporti tra città e montagne e le tendenze che stanno caratterizzando oggi questi rapporti. In Italia la lunga storia del rapporto città-montagna si contraddistingue in epoca preindustriale per una relativa autosufficienza della montagna e una certa dipendenza delle città per quanto riguarda le risorse minerarie, agroforestali ed energetiche provenienti dalle terre alte. Tuttavia, tra metà Ottocento e metà Novecento, in relazione ai processi di modernizzazione, questo rapporto si inverte bruscamente e drammaticamente: con la rivoluzione industriale e l’allargamento dei mercati (dei materiali, dell’energia, del lavoro) le città sono sempre meno dipendenti dai loro retroterra montani, mentre questi aumentano la propria subordinazione verso i centri urbani, soprattutto in termini di occupazione e di servizi. Il frutto di questa dipendenza sarà l’impoverimento complessivo delle aree montane, lo spopolamento legato all’emigrazione, il crollo dei regimi socioeconomici tradizionali, l’abbandono velocissimo e ad alto impatto ambientale di ampie porzioni di territorio antropizzato. La montagna diverrà dunque per decenni area marginale (dal punto di vista geografico, delle politiche pubbliche e dell’immaginario collettivo), spazio deprivato o, al più, terreno del loisir per un turismo prettamente cittadino, determinandone l’assoggettamento economico e culturale all’universo urbano. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, si sta delineando un cambiamento in questo rapporto di dominanza-dipendenza, che evidenzia nel nostro paese segni di una rinnovata e non gerarchizzata connessione fra città e montagna, e che va investendo diverse dimensioni territoriali: tra le principali, troviamo quella demografica (con il fenomeno dei «nuovi montanari» e del neo-popolamento alpino, fattore principale di arresto nello spopolamento), quella energetica (con la rivalutazione delle risorse idriche e delle biomasse legnose, e con i correlati processi di innovazione tecnologica), quella identitaria (con nuovi movimenti per la tutela del territorio e con la riscoperta/reinvenzione delle tradizioni locali), quella agro-alimentare (con lo sviluppo dell’agricoltura multifunzionale e con la promozione delle tipicità, della filiera corta, del consumo critico e consapevole), quella turistica (con la crescente domanda di fruizione slow della montagna e di turismo esperienziale), e, non da ultimo, quella infrastrutturale (con la spinta dal basso a mitigare le forme e le modalità di attraversamento delle terre alte da parte dei crescenti flussi di mobilità veicolare e ferroviaria). Se inserito in queste dinamiche di riconnessione tra città e montagne, il post-Covid assume quindi le fattezze di un evento capace di accelerare non tanto o non solo nuove centralità, quanto nuove configurazioni ibride e interdipendenze fisiche e materiali. Depotenziare la troppo facile dicotomia montagne-città, rendere nuovamente visibili i molteplici gradienti degli spazi di mezzo, riconoscere le valenze produttive e non solo di consumo e di tutela degli spazi montani (Barbera - De Rossi 2021).

2. La scommessa di Moretti.

L’immaginario dicotomico, pro o contro le città, ha occupato il discorso pubblico. Di fronte al «fatto sociale totale» Covid-19 non sono pochi coloro che prevedono la morte della città superstar e la fuga verso aree più periferiche. A giugno del 2021, un report del National Bureau of Economic Research dell’Università di Chicago ha stimato che il 37% dei lavori può essere svolto interamente da remoto. Si tratta, perlopiù, di lavori ben pagati o, comunque, meglio retribuiti della media, a evidenziare l’ennesima diseguaglianza creata dal Covid-19. La «fuga dalle città» che ha caratterizzato i lockdown è stata pesantemente segnata da classe sociale, istruzione e reddito, che negli Usa ha preso la forma della «migrazione bianca» dai quartieri residenziali verso altri lidi2. Ci sono state numerose tracce di questo fenomeno al culmine della pandemia e ci sono segnali che la fuga verso i «sobborghi e le campagne» potrebbe avere esiti di lungo termine, in particolare se la tendenza verso il lavoro da casa si andrà consolidando3. Persino uno studioso «metrofiliaco» come Richard Florida ha avanzato il sospetto che i quartieri centrali degli affari che «impacchettano e ammucchiano gli impiegati nei grattacieli» potrebbero avere i giorni contati4.
Enrico Moretti (2013) mette sul piatto un’altra scommessa: le città resisteranno. Le forze centripete sono più intense di quelle centrifughe. Le città sono magneti, attrattori senza eguali al mondo. In una intervista del 2021, Moretti rileva che se si considerano i brevetti nel settore informatico le prime dieci aree metropolitane negli Stati Uniti rappresentano il 70% di tutti gli inventori5. La percentuale sale al 79% se si prendono in esame le persone che lavorano nei settori hi-tech. Tutto ciò, continua Moretti, non può essere ignorato nell’immaginare le tendenze dell’urbanesimo post Covid-19. Ciò che sappiamo in merito ai meccanismi di funzionamento della geografia economica ante Covid-19 ci suggerisce che queste forze di agglomerazione sono piuttosto potenti. E non c’è motivo di pensare che la stessa tendenza all’agglomerazione sarà così diversa in un mondo post Covid-19. Nel caso americano, la continuità prevarrà sul cambiamento e il post Covid-19 sarà in gran parte un ritorno al passato. La scommessa di Moretti poggia, dunque, sulla tenuta delle economie di agglomerazione, pur a fronte dei segnali opposti che sono emersi durante la pandemia, come l’elevatissima percentuale di occupati «colletti bianchi» che lavora da remoto. Come in realtà ammette lo stesso Moretti, l’elastico non tornerà esattamente al punto di partenza e neppure vi saranno mutamenti di fase netti o discontinuità epocali. Si andrà probabilmente verso un modello ibrido con un numero compreso da 1 a 3 giorni a settimana svolti a distanza, almeno per quei lavori dove la compresenza fisica non è dirimente per la produttività. In che modo ciò influenzerà le scelte residenziali? Per presentarti in ufficio tre giorni a settimana, devi comunque vivere nei pressi dell’area metropolitana dove si trova il tuo ufficio. Un minor numero di lavoratori pendolari, inoltre, significa una minore percentuale di lavoratori in viaggio, con una minore congestione delle strade e una maggiore attrattività per il pendolarismo metropolitano. Si tratta di argomenti ragionevoli e interessanti, che invitano ad abbandonare la contrapposizione tra le forze di agglomerazione ante Covid-19 e quelle di decentramento post Covid-19.
Giusti gli argomenti sollevati nel paragrafo introduttivo, oltre le «forze» di agglomerazione evocate da Moretti e alle altre che agiscono nella direzione opposta, i cambiamenti vanno intesi come elementi per la costruzione di una nuova e ibrida configurazione. Né vecchia né nuova. Vi sono, anzitutto, cambiamenti delle preferenze o, meglio, delle meta-preferenze degli attori. L’esplosione della pandemia, la sospensione del tempo quotidiano che l’ha accompagnata, il rallentamento di tempi e ritmi, la ridotta mobilità – per chi se l’è potuta permettere, nell’agio offerto da una condizione abitativa e di reddito, non ansiogena e paralizzante – ha generato un’opportunità per coltivare l’auto-riflessività, potenziato la capacità critica sulle proprie preferenze, aumentato la rilevanza di opzioni prima «fuori dalla cornice». Sono moltissimi i segnali di questa nuova salienza: a volte costretti dalla struttura dei vincoli, a volte per effetti di imitazione, a volte per ragioni legate ai minori costi e alla più semplice accessibilità, gli immaginari che evocano una territorialità ibrida (Barbera - De Rossi 2021) hanno oggi una più evidente importanza rispetto al passato. La seconda forza è di tipo «macro» e riguarda la potenza dei cambiamenti tecnologici in atto e la correlata riduzione dei costi. È una pia illusione pensare di poter resistere allo sviluppo delle forze produttive, quando queste si combinano con una riduzione dei costi. Sia nel pubblico che nel privato, l’effettiva necessità di sopportare i costi fissi associati alla localizzazione fisica degli uffici nella città – specie nelle città globali – è tremendamente diminuita. In mancanza di un chiaro e netto effetto sulla produttività – o senza quei particolari requisiti legati alle industrie creative, all’alta tecnologia o alla ricerca di frontiera che sono facilitati dalla compresenza fisica – diventerà sempre più difficile resistere ai doni di Atena rappresentati dalle nuove tecnologie. I centri delle città globali sono disfunzionali, rispondono a logiche di redditività dei capitali e di segregazione urbana: sono «totem di alto livello» – come li ha definiti con parole potenti Olivier Wainwright sul «Guardian»6:
Luoghi in cui attici con cappelle private e piste da corsa si profilano sopra le fatiscenti proprietà comunali che si snodano lungo la linea ferroviaria, dove decine di appartamenti giacciono vuoti, detenuti da società di comodo con la sede in paradisi fiscali off-shore […] il prodotto di politici schiavi degli immobiliaristi, guidati da una fede cieca nel mercato, anche quando gli investitori hanno iniziato a rendersi conto che avrebbero potuto comprare solo un miraggio.
Le analisi più recenti sul caso americano mostrano già la presenza di un «effetto ciambella» sui prezzi degli immobili: una sostanziale riallocazione della domanda dai centri versi i sobborghi, con la lievitazione dei prezzi in periferia e il calo nei principali centri urbani7. Nessuno dei mega-progetti attualmente in corso a Londra, New York o in altre grandi città è stato progettato per essere impiegato al 50% della sua capacità: se il tempo di lavoro in presenza si dimezzasse – cioè se l’elastico tornasse solo parzialmente al punto di partenza – gli spazi dovrebbero trovare una nuova direzione d’uso, multi e polifunzionale, generando appunto nuove configurazioni ibride. Del resto, va sottolineato che l’ibridazione – la sua forma, intensità e direzione – non è guidata da supposte «esigenze sistemiche» o da direzioni obbligate, ma dipende da rapporti di potere tra territori e dalla capacità politica di spingere la transizione in una direzione piuttosto che in un’altra.
Inoltre, va ricordato che le città globali oggetto della «scommessa» di Enrico Moretti non caratterizzano in modo preponderante la struttura urbana europea, che si articola in reti di città medie, con importanti funzioni urbane in territori policentrici e con diverse traiettorie e divari di sviluppo. Nel contesto europeo, in altre parole, conta di più la dimensione di area vasta che connette la città con il territorio regionale di riferimento che la dimensione urbana in senso stretto. Ciò è anche più evidente nel caso italiano, illustrato nel prossimo paragrafo. L’Italia è il paese il cui più pervasivo tratto unificante è la diversità territoriale: come abbiamo scritto nei due volumi collettanei per la casa editrice Donzelli, Riabitare l’Italia del 2018 (De Rossi 2018) e Manifesto per riabitare l’Italia del 2020 (Cersosimo - Donzelli 2020), poche grandi città, pochissime «metropoli», molte città medie, una miriade di piccoli comuni, borghi, frazioni e reti di città. La riconfigurazione della città post Covid-19 richiede quindi di rendere nuovamente visibili i molteplici gradienti degli spazi di mezzo, riconoscere le valenze produttive e non solo di consumo e di tutela degli spazi montani e rurali in continuità con quelli urbani (Barbera - De Rossi 2021). Proviamo a declinare questo salto di scala sui territori metropolitani che circondano Genova o Torino, andando al di là dei limiti amministrativi o delle visioni consolidate, osservando l’infinito meticciato di situazioni insediative e la complessità dei flussi e interdipendenze che connettono i territori di queste aree. Un intreccio e una continua compenetrazione di urbano, rurale, montano, misconosciuto dalla politica ufficiale rinchiusa nei palazzi dei centri storici delle città e negli spazi virtuali della comunicazione social, che è la realtà materiale, umana ed ecosistemica di grandi parti del territorio italiano, sfondo non indifferente della quotidianità di milioni di persone che questi territori strutturalmente ibridi abitano, attraversano per lavoro, utilizzano per lo sport e il tempo libero. Riconoscere attraverso questo salto di scala – che è di sguardo e concettuale al contempo – la na...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Una nuova sfida editoriale per l’AISRe di Roberta Capello
  6. Shock pandemico e nuove prospettive nelle relazioni centri-margini di Marco Bellandi, Ilaria Mariotti e Rosanna Nisticò
  7. Parte prima. Persistenze strutturali e shock pandemico
  8. Parte seconda. Scenari e prospettive
  9. Bibliografia
  10. Gli autori