1. Questo è il secolo della solitudine
Accoccolata contro di lui, il mio petto che preme sulla sua schiena, i nostri respiri sincronizzati, i piedi intrecciati. Ecco come abbiamo dormito per oltre 5000 notti.
Ma ora dormiamo in stanze diverse. Di giorno zigzaghiamo a due metri di distanza. Abbracci, carezze, baci, il nostro codice quotidiano è ora proibito, «stai lontano da me» è il mio nuovo appellativo affettuoso. Tossendo di continuo, sentendomi dolorante e malata, ho il terrore di contagiare mio marito se mi avvicino troppo. Quindi mantengo le distanze.
È il 31 marzo 2020, e insieme ad altri due miliardi e mezzo di persone, un terzo della popolazione mondiale, la mia famiglia è in isolamento.1
Con così tante persone chiuse in casa, condannate a lavorare a distanza (sempre se si ha ancora un lavoro) senza poter andare a trovare amici o persone care, uscendo di casa al massimo una volta al giorno, «mantenendo la distanza sociale», «in quarantena» e «autoisolamento», era inevitabile che le sensazioni di solitudine e isolamento salissero alle stelle.
Dopo due soli giorni di lockdown il mio migliore amico mi scrive il messaggio «l’isolamento mi sta facendo impazzire». Il quarto giorno mio padre di 82 anni mi scrive su WhatsApp: «Ho vagato solo come una nuvola». In tutto il mondo, gli operatori dei numeri telefonici per la salute emotiva hanno riscontrato non solo notevoli picchi nel volume di chiamate durante i giorni di distanziamento sociale forzato, ma anche che un numero significativo di chiamate arrivava da persone che soffrivano la solitudine.2 «La mia mamma non vuole abbracciarmi o avvicinarsi a me», ha confidato un bambino sconvolto a un volontario della linea di assistenza britannica Childline.3 In Germania, dove a metà marzo le linee di assistenza stavano ricevendo il 50% di chiamate in più del solito, uno psicologo che rispondeva alle chiamate ha notato che «la maggior parte di chi chiama ha più paura della solitudine che di essere contagiato».4
Eppure il secolo della solitudine non è iniziato nel primo trimestre del 2020. Quando il Covid-19 ci ha colpito, molti di noi si stavano già sentendo soli, isolati e divisi da molto tempo.
Perché siamo diventati così soli e cosa dobbiamo fare per ritrovarci è il tema centrale di questo libro.
Bella in rosa
24 settembre 2019. Sto aspettando, seduta alla finestra, la schiena appoggiata al muro dipinto di rosa.
Il mio cellulare vibra. È Brittany – è in ritardo di qualche minuto. «Non preoccuparti,» le scrivo. «Hai scelto proprio un bel posto». Ed è così. La clientela così naturalmente bella, aggraziata come una gazzella, con i portfolio da fotomodella sottobraccio, suggerisce quanto sia alla moda il Cha Cha Matcha nel quartiere di Noho a Manhattan.
Qualche attimo dopo, arriva. Slanciata, atletica, il suo sorriso si allarga quando, scrutando la stanza, incontra il mio sguardo. «Ehi, adoro il tuo vestito», dice.
Per 40 dollari all’ora non mi aspetto niente di meno. Perché Brittany è «l’amica» che ho noleggiato per un pomeriggio da una società chiamata Rent-a-Friend. Fondata dall’imprenditore del New Jersey Scott Rosenbaum, che aveva visto l’idea decollare in Giappone, ora diffusa in decine di paesi in tutto il mondo, il suo sito web offre più di 620 000 amici platonici a noleggio.
Non era la carriera che Brittany, una ragazza di 23 anni di una piccola città della Florida, aveva in mente quando aveva ottenuto un posto alla Brown. Eppure, non essendo riuscita a trovare un lavoro in scienze ambientali (la materia in cui si era laureata all’università), e preoccupata per il suo debito studentesco, spiega la sua decisione di offrire in affitto la propria compagnia come una scelta pragmatica, e il suo lavoro emotivo solo come un’altra freccia al suo arco da cui trarre profitto. Quando non si offre in affitto – lo fa in media qualche volta a settimana – aiuta alcune start-up con le pubblicazioni sui social network e offre servizi come assistente personale tramite TaskRabbit.
Prima di incontrarla ero abbastanza nervosa, non sapendo se «amica» fosse una parola in codice per partner sessuale, né se l’avrei riconosciuta dalla foto profilo. Ma nel giro di qualche minuto sono sicura che siamo sul piano degli «amici senza benefici». E nelle ore successive, mentre giriamo per il centro di Manhattan chiacchierando di #MeToo e della sua eroina Ruth Bader Ginsberg, e poi da McNallys mentre parliamo dei nostri libri preferiti, a volte mi dimentico persino che sto pagando per la compagnia di Brittany. Anche se non era come una vecchia amica, mi sembrava una nuova prospettiva divertente.
Ma è da Urban Outfitters sulla Broadway che ne rimango davvero affascinata, proprio quando il tempo del nostro incontro comincia a esaurirsi. Con il sorriso ormai stampato in faccia, tra continue battute, scherza con me mentre rovistiamo tra una pila di magliette, e giocosamente si unisce a me nel provare cappelli alla pescatora color Crayola. A quanto pare mi stanno davvero bene. Anche se immagino me l’avrebbe detto in ogni caso.
Chiedo a Brittany degli altri che l’hanno noleggiata, gli altri «consumatori di amicizie» come me. Mi racconta della donna riservata che non voleva presentarsi da sola a una festa, dell’informatico di Delhi che si era trasferito a Manhattan per lavoro, non conosceva nessuno in città e voleva compagnia per cena, del banchiere che si era offerto di passare a trovarla con del brodo di pollo quando era malata. «Se dovessi riassumere la tua tipica clientela, cosa diresti?» le chiedo. La sua risposta: «Professionisti soli, tra i 30 e i 40 anni. Quel tipo di persona che lavora molte ore e sembra non avere il tempo di farsi degli amici».
È un segno dei nostri tempi il fatto di poter ordinare compagnia con la stessa facilità con cui posso ordinare un cheeseburger, solo con qualche click sul mio cellulare, il fatto che sia emersa quella che chiamo economia della solitudine per sostenere – e in ...