La fabbrica della cura mentale
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La fabbrica della cura mentale

  1. 184 pagine
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La fabbrica della cura mentale

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Nonostante siano passati oltre quarant'anni dall'approvazione della legge che avrebbe dovuto sancire il superamento definitivo della barbarie manicomiale, Piero Cipriano – psichiatra riluttante, come si definisce – ci racconta in presa diretta cos'è oggi un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Grazie al suo sguardo impietoso, quei luoghi che avrebbero dovuto garantire una gestione umana ed efficace delle crisi psichiatriche ci appaiono invece come le nuove roccaforti di una rinata «cultura manicomiale» in cui il potere del sano sul malato è ancora gestito in modo arbitrario e burocratico. Con alcune notevoli differenze rispetto al passato: se il manicomio tradizionale ricordava un campo di concentramento, l'attuale spdc ricorda piuttosto una fabbrica, dove il primario è il direttore, lo psichiatra il tecnico specializzato addetto alla catena di montaggio umana e il malato la macchina biologica rotta da aggiustare. E quando il farmaco non basta, ecco che tornano le fasce: proprio come nei vecchi manicomi.

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Informazioni

Editore
Eleuthera
Anno
2021
ISBN
9788833021591
capitolo terzo
La fabbrica della cura mentale
È appena iniziata l’estate del 2008. Sono uno psichiatra. Lavoro in un spdc. Non ho ancora quarant’anni. Perciò non ho conosciuto i manicomi.
Non ho fatto in tempo perché la Legge 180, trent’anni fa, li ha aboliti. Messi fuori legge. Illegali. Ora, la crisi mentale acuta trova soluzione con il ricovero nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, meglio conosciuti come spdc, piccoli reparti collocati nell’Ospedale Generale. Reparti uguali agli altri, messi apposta negli ospedali generali, mescolati ai reparti di medicina, di chirurgia, di ortopedia, di ginecologia. Solo così la persona affetta dal mal mentale non sarà messa all’indice, stigmatizzata, segregata, nascosta, come ai tempi dei manicomi. Questo, almeno, era l’intento dei legislatori della 180.
Però non ho mai capito perché li hanno chiamati Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Come se avessero voluto enfatizzare che lo scopo del ricovero è fare per prima cosa la diagnosi, e dopo la cura. La cura, ho detto. Non la detenzione. Altrimenti li chiamavano Servizio Psichiatrico di Detenzione e Controllo. Invece no. Li hanno chiamati di Diagnosi e Cura.
Diagnosi, perché in psichiatria pare sia fondamentale la diagnosi. Ma la diagnosi in psichiatria è una banale questione grammaticale. Un modo come un altro per mettere il nome a un quadro clinico, a un fenomeno, così, dopo che gli hai trovato il nome, quel fenomeno ti pare meno ignoto. La nosografia psichiatrica è basata sul dsm americano, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association, e sull’icd, l’International Classification Deseases, dell’Organizzazione Mondiale della Salute, ed è una pura convenzione nominalistica, di scarso valore oggettivo. Una nosografia che, unica tra le classificazioni mediche, non trova mai, per nessuna delle sue sindromi, un correlato eziologico che sia uno. Eppure li hanno cercati i marker delle cosiddette malattie mentali, non è che non li abbiano cercati. Ma niente. Zero. I disturbi psichiatrici sono gli unici, in medicina, senza un’eziologia definita, senza una patogenesi accertata, senza alterazioni anatomopatologiche, senza terapie mirate. Esiste solo un quadro clinico. Solo quello. Uno star male, senza sapere perché.
Per cui non esiste alcun modo, sulla base dei criteri diagnostici dsm o icd, per distinguere una schizofrenia da una depressione maggiore, da un disturbo bipolare o da un altro di questi nomi. È così, e chi sostiene il contrario è in malafede.
Richard Benthall, in un saggio del 1988, ha sostenuto che non ci sarà mai una teoria convincente sulla schizofrenia (e questo discorso può essere esteso alle altre principali diagnosi psichiatriche), innanzi tutto perché si può vivere tranquillamente anche senza la diagnosi di schizofrenia. A patto però che la psichiatria si sottragga all’ossessione kraepeliniana di dover per forza trovare l’essenza della malattia mentale. Basterebbe ricordare che Emil Kraepelin, il padre della nosografia psichiatrica (un vero fissato), nel 1920, dopo aver passato quarant’anni a scrivere il suo Trattato, ormai giunto alla nona edizione, ammise finalmente che non era in grado di distinguere le sue due grandi malattie, la demenza precoce (che Eugen Bleuler aveva chiamato schizofrenia) e la psicosi maniaco-depressiva. Suggerisce Benthall di non ragionare per categorie diagnostiche ma per problemi. Se una persona ha le voci, si organizzi la cura su questo disturbo, e definiamolo, se proprio lo vogliamo etichettare, uditore di voci, non schizofrenico.
Scrive Alberto Gaston, nel suo fondamentale Genealogia dell’alienazione: «Una cosa è un uomo che soffre, vede, nel suo spazio circostante, mostri che noi non vediamo, urla terrorizzato e ci dice che gli vengono sottratti i pensieri, e ben altra cosa è la schizofrenia, nome concetto che noi usiamo per designare l’esperienza che quello stesso uomo ci comunica». E specifica che la nosologia è una specie di «onomastica», ovvero «una successione di nomi propri con i quali si è deciso di indicare alcune espressioni esperienziali, considerate abnormi». Tutto questo perché gli psichiatri, in fondo, sono rimasti i «medici che credono di essere di grande utilità ai loro malati dando un nome alla loro malattia» (Immanuel Kant, nel Saggio sulle malattie della testa, del 1764). Per cui, negli ultimi decenni, lo scopo di creare un linguaggio comune tra gli psichiatri di tutto il mondo ha parcellizzato le vecchie entità morbose in una miriade di sindromi, fino a dar vita alla classificazione «artificiale» codificata e computerizzata del dsm-iv.
La nosografia psichiatrica ufficiale, pertanto, è figlia della psichiatria biologica americana e del complesso negoziato che gli psichiatri americani hanno realizzato. Nosografia che, quando viene comunicata, con i loro manuali (dsm-iv, icd-10), alla periferia dell’impero, viene da noialtri pedissequamente applicata.
Io, invece, mi fido più di Basaglia, che suggeriva la sospensione del giudizio riguardo all’eziologia, alla patogenesi, alla nosologia/nosografia, e perfino rispetto alla terapia della malattia mentale (l’unico dato certo è la sua fenomenologia, che Basaglia non ha mai negato). Purtroppo, la Legge 180, che pure è un prodotto della sua rivoluzione, ha partorito i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, servizi il cui primo scopo rimane, ahimè, quello di fare la Diagnosi, cioè scrivere il nulla. Scrivere un nome che significa poco o forse niente.
E dopo la diagnosi, scopo del spdc è dare una cura per quel quadro clinico con quel nome. La Cura, va da sé, nei spdc sono i farmaci. Farmaci che, senza teorie eziopatogenetiche sulle malattie mentali, sono dati ex adiuvantibus, come si dice. Ma pure l’elettrochoc era dato ex adiuvantibus. E funzionava. Toglieva la memoria e il depresso si scordava di essere depresso. Pure la lobotomia era fatta ex adiuvantibus. E funzionava. Senza un pezzo di cervello i furiosi erano più calmi. Vorrei vedere. Pure legare al letto gli aggressivi funziona. Non possono più muoversi. L’aggressività non la possono più esercitare. Così procede la psichiatria: ex adiuvantibus.
Eppure, se chiedete in giro, tutti diranno che il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura non è un manicomio. Nel manicomio il tempo è sospeso. Non esiste. È spezzato. È congelato in un eterno presente. Al ricoverato che chiede: quando esco?, il medico, ogni santo giorno della sua vita reclusa, gli può rispondere: domani. In spdc pure gli può rispondere: domani. Però in spdc il tempo esiste. Esiste per legge. Si articola mediante la regola del sette, il limite massimo di giorni, consentito dalla legge, per costringere un malato mentale acuto a curarsi. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (tso) si dovrebbe risolvere nel tempo di una settimana, come dice la legge, però spesso si raddoppia e si triplica e si quadruplica e diventa di nuovo il tempo eterno del manicomio. Ma sono casi rari. Per fortuna sono ancora eccezioni. In sette giorni (o poco più) il malato mentale è fuori. E questa, grosso modo, è pure la durata dei ricoveri volontari (che poi volontari del tutto non sono mai, c’è sempre il suggerimento: le conviene accettare di ricoverarsi, se no il ricovero diventa obbligatorio). Una settimana, il tempo biblico, è diventato il tempo clinico da quando, chiusi i manicomi, senza storia e fuori dal tempo, il tempo ha ricominciato a scorrere, il tempo in cui una crisi mentale si deve per forza risolvere.
Ma allora, il spdc, se non è un manicomio, che cos’è?
Se il spdc non è un manicomio io direi proprio che assomiglia a una catena di montaggio. Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il spdc ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti. E non si dica che denigro il presente e rimpiango il passato, perché non è così. Adesso è meglio di prima. Il spdc è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la 180, come viene ricoverato nella gran parte dei spdc d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto.
Il malato arriva talvolta agitato se non furioso (parlo di un certo tipo di malati acuti, gli agitati, perché i tranquilli non danno questi problemi). Tralasciamo di dire perché arriva così rabbioso e seguiamo l’iter di un malato molto agitato. Viene trattenuto da più persone (medici, infermieri, ausiliari, agenti ...

Indice dei contenuti

  1. Dello stesso autore
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione alla nuova edizione
  5. Epigrafe
  6. Capitolo primo
  7. Capitolo secondo
  8. Capitolo terzo
  9. Capitolo quarto
  10. Capitolo quinto
  11. Capitolo sesto
  12. Capitolo settimo
  13. Capitolo ottavo
  14. Capitolo nono
  15. Capitolo decimo
  16. Capitolo undicesimo
  17. Capitolo dodicesimo
  18. Capitolo tredicesimo
  19. Capitolo quattordicesimo
  20. Capitolo quindicesimo
  21. Capitolo sedicesimo
  22. Capitolo diciassettesimo
  23. Capitolo diciottesimo
  24. Capitolo diciannovesimo
  25. Capitol ventesimo
  26. Poscritto
  27. Riferimenti bibliografici