capitolo quarto
Governo e popolo: qualche riflessione
L’autonomia locale e il ritorno all’età comunale
Esaminando le disposizioni dello Statuto della Reggenza, ci si accorge del fatto che l’autonomia territoriale può essere considerata alla stregua di un vero e proprio principio fondante del nuovo ordinamento giuridico fiumano. La Reggenza, infatti, così radicata al territorio su cui viene istituita, e nell’intima unione con il suo popolo ancora “irredento” e a cui la sua proclamazione cerca appunto di dare una redenzione nell’indipendenza da ogni altro soggetto politico, ridisegna di fatto l’architettura istituzionale dei poteri costituiti, sino a rimettere in discussione anche la centralità tipica dello Stato sabaudo.
Lo Stato fiumano non riproduce le strutture politiche e giuridiche del Regno d’Italia, a cui pure aveva inizialmente guardato sperando nell’annessione e in un atto di forza da parte delle autorità di Roma, né a esso si ispira per tratteggiare almeno le linee fondamentali della concreta organizzazione del potere costituito e del controllo del territorio. La Reggenza, al contrario, ne prende le distanze, e pensa a un proprio modello, innovativo ma allo stesso tempo con un occhio di riguardo alla continuità e alla tradizione, dove l’evocazione di un mitico e lontano passato convive, pur nelle sue contraddizioni, con l’impeto rivoluzionario che avrebbe voluto immaginare mondi del tutto nuovi. Ciò, del resto, e come già detto, era una diretta conseguenza del ricco e variegato sostrato culturale della Reggenza, sin dai giorni dell’impresa fiumana, che si rifletteva nelle varie correnti di pensiero che, in un certo qual modo, trovarono un’ideale unità d’espressione nella Carta dannunziana. Inoltre, ciò non poteva che presentarsi come una necessità innanzitutto culturale, dal punto che, come ricordato, il territorio di Fiume aveva sempre goduto di un determinato grado di autonomia, prima con lo Statuto Ferdinandeo del 1530 e poi come corpo separato della Corona Ungherese, vivendo e crescendo in un contesto autonomistico e multiculturale come era stato quello dell’Impero austroungarico.
Alla luce di ciò, uno dei punti su cui è interessante soffermarsi è appunto quello dell’autonomia territoriale. Laddove, infatti, l’Italia sabauda aveva creato uno Stato unitario e accentratore, allo scopo di consolidare il proprio potere dopo il processo di unificazione e il venir meno degli Stati preunitari, la Reggenza costruisce un modello organizzativo e statuale estremamente decentrato e autonomistico, dove, come espresso dallo Statuto, il potere centrale avrebbe avuto solo alcune limitate prerogative, e dove il resto delle competenze sarebbe stato devoluto alle autonomie locali.
Molteplici furono i modelli a cui l’immaginifica mente del Vate poté ispirarsi, ma non si deve nemmeno scordare che, e come ricordato, molte furono già da principio le influenze culturali presenti nel contesto fiumano di allora. Piuttosto che proporre un modello statualistico e accentratore, di per sé impossibile vista l’assenza di un potere nazionale disposto a rivendicare Fiume al suo territorio sovrano, i costituenti fiumani si richiamarono alla tradizionale amministrazione autonomista, i cui echi culturali non poterono non risultare in qualcosa, a suo modo, di familiare.
Sicuramente il modello della Serenissima Repubblica di Venezia era ben presente ai costruttori del nuovo sistema della Reggenza, ancor più se si considera come il suo richiamo, e il richiamo a quella “isola di antica tradizione veneta”, costituiva il ritorno ancestrale di una cultura localmente radicata nel territorio istriano e dalmata, e mai del tutto dimenticata. Inoltre, anche la Confederazione Elvetica, con il suo antico modello decentrato e autonomo caratterizzato dalla convivenza di una pluralità di etnie, ispirò in un certo modo la Carta del Carnaro nella parte relativa alle autonomie locali e alle loro prerogative.
Ciò che tuttavia fu il richiamo culturale e politico più interessante e significativo con riguardo al decentramento amministrativo, comunque, fu senza dubbio quello alla società medievale, e all’epoca dei comuni. Sempre dalla società medievale, infatti, il Vate aveva attinto per lo stesso nome da dare alla stesura definitiva della Carta, ossia Statuto della Reggenza, richiamandosi appunto agli antichi statuti comunali. Il termine, inoltre, ricorre in altre parti del testo, con il significato più generico di normativa, connotato tuttavia da una concezione tipicamente medievale: più che la lex romana, infatti, in questo caso ci si richiama agli statuti comunali della Respublica medievale, quindi a normative dettate dalle autonomie, fortemente radicate al territorio, secondo quel peculiare assetto di potere “dal basso” che la Reggenza stava allora creando.
Il richiamo alle autonomie medievali è esclusiva intuizione di D’Annunzio, e non è presente nella stesura originaria di De Ambris, che pur concependo una forma di governo decentrata non giunge e creare un modello socio-politico che, in questo, tracci un chiaro parallelismo con quella particolare forma di autonomia giuridica e amministrativa che fu quella medievale.
Il richiamo all’età comunale è particolarmente significativo, per una pluralità di ragioni. In primo luogo, è interessante soffermarsi sull’evocazione ancestrale di un antico modello, tra la realtà e la leggenda, riadattato alla modernità e trasfigurato, per così dire, dall’immaginazione istrionica di D’Annunzio, che anche nella sua opera poetica non mancò di dare risalto all’epoca medievale, riletta alla luce di una narrazione mitica e suggestiva.
L’immediata partecipazione popolare al governo della Reggenza attraverso un sistema politico a democrazia diretta, poi, avrebbe potuto essere valorizzata dalla continuità con il modello medievale, appunto caratterizzato dall’autonomia statutaria del comune e dalla rappresentatività dei corpi intermedi nella vita sociale. Si tratta, in sostanza, della rimessa in discussione della rappresentatività del modello liberale e della democrazia rappresentativa, ma anche del presidenzialismo, come già osservato con riferimento alle corporazioni, e quindi del recupero di una forma di governo molto più antica, che avrebbe dovuto assicurare la partecipazione sociale attraverso l’autonomia locale e il decentramento. In ultima analisi, è proprio in questo rigetto dei modelli politici allora dominanti in favore di qualcosa di completamente altro che può convivere l’impeto innovatore delle diverse anime della Reggenza: dalle istanze social-rivoluzionarie del socialismo deambrisiano alla fascinosa evocazione del mito medievale di D’Annunzio, il tutto riletto alla luce della presa d’atto dell’inadeguatezza dei modelli socio-politici correnti.
Da ultimo, non bisogna neppure dimenticare che, nonostante le evidenti differenze dovute all’epoca storica, il modello comunale del Medioevo italiano, soprattutto con riferimento all’Italia centro-settentrionale, presentava alcune analogie con la situazione di Fiume in quegli anni. Nell’Italia dell’anno Mille, infatti, l’età comunale, con la sua autonomia e i suoi statuti, nasce e fiorisce con il progressivo allentamento dei vincoli politici e giuridici facenti capo ai feudatari e all’istituzione universalistica dell’Impero, consentendo lo sviluppo di un modello decentrato e relativamente autonomistico. Allo stesso modo, sebbene con un atto di volontà ben più immediato della progressiva affermazione dell’autonomia comunale, Fiume aveva rivendicato la sua autonomia da ogni soggetto statale circostante, compreso il Regno d’Italia, che si rifiutava di procedere all’annessione. La soluzione autonomistica interna, in fondo, è una riproposizione coerente della proclamazione dell’autonomia della “città di vita”, fermamente intenzionata, vista l’impossibilità del ritorno alla Madrepatria italiana, a creare una nuova società e un uomo nuovo per abitarla.
La riscoperta dell’autonomia comunale, rivisitata alla luce delle mutate esigenze sociali e del nuovo contesto politico fiumano, è espressa nel disposto dell’articolo 3, che, in punto di principio, afferma tra le altre cose che la Reggenza ha per ordinamento “le più larghe e le più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro secoli gloriosi del nostro periodo comunale”. Una disciplina di dettaglio, inoltre, è dettata nell’apposito capo della Carta, dedicato ai comuni, che traduce in disposizioni prescrittive quello che, fino ad allora, era stato un evocativo richiamo culturale, che si riproponeva di riportare in vita, sebbene rivisitandolo, un modello antico di secoli. L’articolo 22 dello Statuto rappresenta la norma fondamentale per quanto riguarda le autonomie locali, e racchiude in sé il cuore della disciplina autonomistica fiumana. La norma è composta da due commi, ognuno dei quali espressivo di un principio fondamentale. Ai sensi del primo comma, “Si ristabilisce per tutti i Comuni l’antico «potere normativo», che è il diritto d’autonomia pieno: il diritto particolare di darsi proprie leggi, entro il cerchio del diritto universo”. Ai sensi del secondo comma, invece, i comuni “esercitano in sé e per sé tutti i poteri che la Costituzione non attribuisce agli officii legislativi esecutivi e giudiziarii della Reggenza”.
La norma, tracciando le linee fondamentali di un sistema autonomistico e decentrato, affronta il tema da due punti di vista complementari e distinti: quello legislativo e giuridico, di cui al primo comma, e quello politico, di cui al secondo comma. Se la seconda disposizione è la tipica norma che riconosce primaria competenza agli enti locali nell’attuazione delle proprie politiche, riservando al Governo centrale unicamente l’esercizio di alcune funzioni sovrane, la disciplina del potere normativo dei comuni appare giuridicame...