1. Canto dell’arte
L’estetica della cura
Qualche anno fa mi chiesero di partecipare a una conferenza in un museo per discutere «l’estetica della cura». L’invito diceva: «In un anno [2016] caratterizzato da una retorica politica divisiva e da atti di esclusione, la questione della cura è riemersa – con forza – nel discorso culturale […] Che aspetto può assumere oggi un’estetica della cura come struttura profonda capace di guidare la pratica artistica a livello formale e materiale? Le idee di cura – che sono anche una forma d’amore – come si trasformano in estetiche di protesta? Come fa a sopravvivere l’arte – come possiamo prendercene cura e come può curarci?».
L’evento non si tenne, ma l’invito mi fece riflettere. In un mondo dove così tante persone sono poco curate e anzi spesso sono trascurate in modo aggressivo, addirittura punitivo, oppure costrette a curare gli altri a scapito di se stesse e dei propri cari – un mondo, tra l’altro, dove il trionfo costante della cosiddetta «libertà» sulla cosiddetta «cura» è all’origine di molte sofferenze passate e presenti, ma anche dell’estinzione della vita terrestre per come la conosciamo – è comprensibile il tentativo di valorizzare urgentemente la cura dappertutto, arte inclusa. L’urgenza corrisponde alla richiesta – che va rafforzandosi da un po’ nei circoli attivisti – per una «politica della cura», definita da Gregg Gonsalves e Amy Kapcznyski come «una nuova politica […] organizzata sull’impegno a provvedere universalmente ai bisogni umani; a compensare il potere della classe lavoratrice, delle persone di colore e dei più vulnerabili; a rigettare l’approccio carcerario ai problemi sociali».1 Si rifà inoltre all’opera della studiosa Christina Sharpe che, insieme ad altri, ha immaginato la cura come «un modo di sentire e di compatire e di comprendere, un modo per accudire i vivi e i morti», e si collega nello specifico alla creazione e alla fruizione artistica.2
Dato il mio interesse in tutto questo, perché, mi chiedevo, la mia prima reazione a una «estetica della cura» che andasse oltre a un principio animatore per certi artisti era stata: bleah?
Riflettendoci mi sono accorta che, sebbene fossi sempre stata contraria all’arte che vuole terrorizzare o mettere in pericolo il pubblico o i partecipanti, non mi ero mai rivolta all’arte in cerca di cura, almeno non in maniera diretta. In effetti, era proprio la sensazione che l’arte se ne fregasse a permettermi di interessarmene. Certo, alcune opere d’arte motivate da questa attenzione per la cura mi hanno commossa o arricchita, motivandomi a loro volta (anche se di solito diffido della motivazione). Apprezzo che l’arte se ne freghi perché la considero un portale verso forme di libertà e di sostentamento fondamentalmente diverse da quelle generate dalla politica, dalla terapia e dall’assistenza diretta. Per usare le parole dell’artista Paul Chan: «Il potere sociale collettivo ha bisogno del linguaggio della politica, di conseguenza le persone hanno bisogno, tra le altre cose, di consolidare la propria identità, di fornire delle risposte […] di far succedere le cose. Mentre la mia arte è soltanto dispersione di potere […] E quindi, in un certo senso, progetto politico e progetto artistico a volte sono in contrapposizione». Riconoscere e permettere l’esistenza di questa contrapposizione (quando avviene) non significa escludere l’estetica dalla politica. Significa valorizzare e ammettere le differenze – tra sensibilità, sfere e tipi di esperienze – e sbarazzarsi dell’idea che la pratica estetica e politica si rispecchino, o persino che dialoghino amichevolmente.3 È fondamentale soprattutto quando si invoca la cura, un grido di battaglia che, applicato all’arte, è molto più delicato di quanto sembri.
È delicato perché l’arte ha lo status di cosa a sé stante, il cui significato, come dice Jacques Rancière, «non appartiene a nessuno, ma sussiste tra [artista e spettatore], escludendo qualsiasi trasmissione uniforme, qualsiasi identità di causa ed effetto». Mentre la cura può facilmente scivolare nel paternalismo o nel controllo quando non è percepita come tale dal destinatario (pensate all’ultima volta che qualcuno ha fatto qualcosa che non volevate o non avete apprezzato «perché ci teneva a voi»), l’arte si distingue per l’indeterminatezza e la pluralità degli incontri che genera, siano essi tra l’opera e il creatore, tra l’opera e il suo pubblico variegato, oppure tra l’opera d’arte e il tempo. La sua capacità di significare qualcosa di diverso per spettatori diversi – alcuni dei quali non sono ancora nati, oppure sono già morti – complicherà qualsiasi giudizio sul significato di una data opera che sia spacciato per certezza, oppure dato per scontato o immutabile.
Questa indeterminatezza non ha mai impedito a critici o curatori (oppure agli organizzatori delle conferenze) di dedicarsi all’eterno passatempo di attribuire una valenza positiva (o negativa, come nel caso dell’«arte degenere» di Hitler) a qualunque concetto filosofico, politico o etico, per poi usarlo come strumento di classificazione artistica. Tanto i critici progressisti quanto i conservatori (in mancanza di termini migliori) giocano a questo gioco, poiché entrambi spesso partono dalla premessa che l’arte abbia una funzione morale, tipo «mostrarci come vivere» o «favorire la connessione», oppure quella di accentuare un altro valore (che sia «la cura», «la comunità», «la bellezza», «l’onore», «la ribellione», «la socialità», «la sregolatezza»). Nei circoli letterari, la filosofa Martha Nussbaum è famosa per la sua convinzione che «leggere romanzi ci renda persone migliori» (devono essere i romanzi giusti, ovviamente: sì al maestro delle relazioni, Henry James; no al solipsistico Samuel Beckett); molti critici hanno passato al vaglio la poesia allo stesso modo, come Juliana Spahr che afferma, in Everybody’s Autonomy: «Quando affrontiamo la domanda cardine della critica letteraria, cioè quali identità produca l’opera, dovremmo valorizzare le opere che incoraggiano la connessione». Ma come si fa a distinguere quali opere «incoraggiano la connessione» e quali no, quando l’unica cosa che tutta l’arte fa (inclusa quella di Beckett!) è trasmettere un segnale, lanciare una comunicazione; una trasmissione che è impossibile invalidare ontologicamente soltanto perché contiene elementi misantropi, opachi o antisociali?
Forse è per questo moralismo implicito che i sofismi sull’arte prendono una piega un po’ imbarazzante quando incontrano opere d’arte e artisti reali, che spesso preferirebbero che il loro campo d’azione restasse meno codificato ed edulcorato. Ecco, per esempio, il commento della pittrice Amy Sillman a un discorso di Franco Berardi:
Ho assistito di recente a una conferenza di Franco «Bifo» Berardi sul non lavorare (qualcosa che non ha molto senso se in realtà ti piace «lavorare» nel tuo studio). Alla fine ha fatto una distinzione tra arte e lavoro, dicendo che l’arte è la creazione di qualcosa di bello, importante, erotico, empatico – e come sempre, quando sento descrivere in questi termini quello che facciamo, volevo vomitare. Non creiamo delle belve sexy. Se proprio, chiamatela libido anziché erotismo; noi vogliamo un’arte animata anche dalla bruttezza, dalla distruzione, dall’odio, dalla lotta. Forse punk è la descrizione che più si avvicina, ma cosa c’è di meno punk che fare le ore piccole nello studio cercando di realizzare un dipinto a olio «migliore»? È così serio, così premuroso – con il grembiule, la lingua tra i denti, il pennello a mezz’aria, concentratissimi, assomigliamo agli artisti in un film di Jerry Lewis. Che cosa stiamo facendo? Posso solo definirlo come la ricerca di quella cosa fragilissima che si chiama complessità. Non è lavoro alienato e nemmeno precisamente una merce, ma un bisogno, un modo di rimescolare il mondo, proprio come il nostro sistema digestivo rimescola il cibo.
Sillman riecheggia il mio «bleah» con la sua voglia di vomitare: entrambi sono tentativi viscerali, innegabilmente infantili, di rigettare il desiderio ostinato dei critici che vogliono trasformare un’attività corporea, compulsiva, potenzialmente patetica, eticamente screziata o agnostica in qualcosa di «bello, importante, erotico, empatico». Entrambi concepiscono la creazione artistica come una pratica metabolica, un «modo di rimescolare il mondo», e non come un’attività alchemica, da proteggere, dal valore sociale dimostrato. Notate, inoltre, che la versione di Sillman di «dedicarsi dell’arte» evoca l’immagine semplice di un’artista nel suo studio, impegnata a realizzare un dipinto a olio migliore: dedicarsi all’arte, per molti artisti, spesso significa trovare il tempo, lo spazio, l’abilità e la determinazione di fare il meglio possibile, qualunque cosa significhi per loro. Per chi è ancora sproporzionatamente costretto a prendersi cura degli altri – cioè, spesso e volentieri, le donne – questa dedizione significa capire come sospendere o alleggerire il fardello della cura altrui per trascorrere un tempo sufficiente nello studio con un grembiule, pennello a mezz’aria.
Quando scrivo di arte, cerco di tenere a mente questa voglia di vomitare. Provo a immaginare un approccio che non sia moralista o nauseante, sapendo che tutti noi abbiamo i nostri chiodi fissi («apertura», «sfumatura», «contesto» e «indeterminatezza» potrebbero essere i miei). Provo a tenere a mente il corpo dell’artista – cosa sente, cosa vuole, cosa è costretto a sperimentare – insieme alla consapevolezza che il fallimento – estetico o d’altro tipo – è una parte integrante, inevitabile del processo. Cerco di tenere accesa la semplice domanda di Sontag, in Contro l’interpretazione: «Che cosa potrebbe essere una critica capace di servire l’opera d’arte anziché usurparne il posto?». Perché non è soltanto una questione di come fare della buona critica o di come tenere la critica al suo posto, cioè presumibilmente al servizio dell’arte geniale da cui scaturisce. È anche una questione etica, perché la domanda di Sontag ci ricorda che il mondo non esiste per amplificare o esemplificare i nostri gusti, valori o predilezioni preesistenti. Esiste e basta. Non siamo costretti ad apprezzarlo, né a tacere il nostro scontento. Ma rivolgersi all’arte sperando che reifichi una convinzione o un valore già nostro, per poi infuriarci o vendicarci se non lo fa, è ben diverso dal rivolgersi all’arte per vedere che cosa sta facendo, che cosa succede, per trattarla come un posto dove attingere «alle notizie incostanti su quello che gli altri intorno [a noi] pensano e sentono», come ha detto una volta Eileen Myles.
L’estetica ortopedica
Erano queste le mie riflessioni in un libro del 2011, The Art of Cruelty. Lì analizzavo l’eredità delle rivendicazioni fatte dall’avanguardia storica sugli effetti benefici della rappresentazione (o, più raramente, della riproduzione) della crudeltà, della violenza, dello shock. Quelle rivendicazioni non mi convincevano, ma mi sono tenuta alla larga da dichiarazioni generiche su cosa è raggiungibile attraverso la rappresentazione della brutalità. Mi sono soffermata invece sull’importanza del contesto, sull’indeterminatezza causata dal tempo, che trasforma il significato iniziale e il pubblico dell’opera d’arte, e ovviamente sulle nostre emozioni mutevoli. Ho provato a esporre questo ragionamento raccontando le mie incursioni personali nelle aree più turbolente dell’arte novecentesca, sperando di modellare una certa apertura e curiosità, ma libera e felice di sapere che potevo andarmene in ogni momento (una condizione valida più nell’«arte» che nella «vita»: come ci ricorda Sontag in Davanti al dolore degli altri, «non ci sarà un’ecologia delle immagini. Nessun comitato di tutori razionerà l’orrore […] E neppure gli orrori diminuiranno»). Sono sempre stata scettica riguardo a quella che il critico d’arte Grant Kester ha definito «l’estetica ortopedica» – la convinzione dell’avanguardia che ci fosse qualcosa di sbagliato in noi, che andasse aggiustato attraverso un intervento artistico – nonostante questa convinzione animi molta arte che mi interessa. Spesso, però, la ricetta ideale per favorire l’autonomia e la liberazione degli altri non è avere delle forti aspettative su come si sentono e dovrebbero sentirsi davanti a certe opere d’arte; quindi ho lasciato che mi guidasse la formula di Rancière secondo cui «un’arte è emancipata ed emancipante quando […] smette di volerci emancipare».
Quel libro è stato pubblicato soltanto dieci anni fa, ma le sue tesi andrebbero aggiornate, ora che il dibattito novecentesco sui meriti di épater la bourgeoisie è stato ampiamente scalzato dal discorso su come e quando certe trasgressioni artistiche dovrebbero essere «chiamate a rispondere», con il risultato che ora la cosiddetta sinistra è relegata – a torto o a ragione – in una posizione punitiva e repressiva, mentre i paladini della moralità di destra appaiono di nuovo attratti (per quanto in modo ipocrita, selettivo, persino sadico) dalla disinibizione, dalla sregolatezza, dalla dissolutezza e dalla «libertà e il divertimento» (cito l’ex avvocato del gruppo neofascista dei Proud Boys – ora sospeso dalla pratica – secondo cui il gruppo si batte per «l’amore della patria, un governo ridotto, la libertà e il divertimento» oppure il sedicente «frocio pericoloso» Milo Yiannopoulos, che si descrive come «un artista [che vuole creare] cose provocative e pericolose» e contrastare «la cazzo di noia oppressiva, commercializzata, del movimento mainstream progressista ed estremista del Left Pride» con «la magia divertente, dispettosa e dissidente che rende la comunità gay così fantastica!»).
Questo ribaltamento può sembrare strano, ma non è nuovo. L’idea che la trasgressione artistica sia allineata alla politica progressista o alla giustizia sociale è smentita dalla nascita stessa dell’avanguardia, inaugurata dal Manifesto del futurismo italiano del 1909; lì l’autore, Filippo Tommaso Marinetti, introduce il concetto di «violenza igienica» che avrebbe seminato il panico nel corso del secolo e annuncia che il suo movimento vuole «glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo per le donne». In meno di un decennio, il futurismo italiano – pioniere dell’innovazione tipografica e poetica conosciuta come parole in libertà e di una marea di altre attività estetiche radicali che presagivano l’arte performativa e il punk rock – si unì ufficialmente al Partito nazionale fascista di Mussolini.
In un’epoca in cui bigotti e malfattori rivendicano «la libertà di parola» come grido di battaglia ipocrita e strumentalizzato, è comprensibile che qualcuno reagisca criticando, rifiutando o svilendo il discorso sulla libertà, sostituendolo con quello sulla cura. Ma bisogna analizzare anche la cura e le conseguenze della contrapposizione tra i due termini. Perché oltre...