Tiranni e Dittatori
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Diceva Winston Churchill: «La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate finora». Come dargli torto? La democrazia, in effetti, conosce debolezze, eccessi, distorsioni, complicazioni, necessita di continui aggiornamenti e messe a punto. È indubbio. Ma al termine del nostro impressionante viaggio attraverso le figure dei dittatori più «singolari» del XX secolo, dopo aver constatato quante sofferenze questi abbiano provocato alle popolazioni nel cui nome hanno giustificato la loro presa del potere, quanti danni abbiano prodotto nei paesi da loro amministrati, quante perdite abbiano causato alle
economie da loro gestite, non possiamo non tornare con sentimenti di piena condivisione all'affascinante formula di sir Winston. Preferire, cioè, la peggiore democrazia alla migliore dittatura, in attesa magari di un nuovo sistema di governo proprio del XXI secolo, al momento, però, ancora da immaginare.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788866183068
Argomento
Economia

DITTATURE E PROPAGANDA

Fidel Castro: rivoluzione realizzata o rivoluzione tradita?
Strano destino quello di Fidel Castro. Ha condotto una Rivoluzione anche per combattere politici corrotti e collusi con la mafia americana, cacciando dal paese «padrini» e «famiglie» di vario genere, ma al termine della sua vita si ritrova a somigliare sempre di più proprio ad un padrino, non molto dissimile dal vecchio Corleone popolarizzato da Mario Puzo. Come un «capo-famiglia» ha, in effetti, gestito il potere attraverso cerchi concentrici formati da parenti, amici, accoliti, fedelissimi, facendo poco conto degli organismi istituzionali ed eliminando senza pietà possibili antagonisti e rivali emergenti.
Come un «capo-famiglia», nel momento del declino fisico, ha trasmesso il suo potere al fratello Raúl, nella migliore tradizione della mafia siculo-americana. Come un «capo-famiglia», stanco ma vincitore delle battaglie combattute, morirà tranquillamente nel suo letto circondato dall’affetto della sua ampia congrega: figli, fratelli, cugini, nipoti, sorelle, amanti, compagne ecc.
Strano destino quello di Fidel Castro. Ha liberato il paese dalla dittatura sanguinaria e corrotta di Fulgencio Batista per far sprofondare l’isola in un altro abisso dittatoriale, di una durata questa volta da Guinness dei primati. Ha spazzato via la Cuba batistiana, definita il «bordello dell’America», ma ha lasciato poi prosperare un turismo sessuale forsennato che fa oggi di Cuba il «bordello del mondo». Ha annunciato la Rivoluzione Permanente, ma il suo sistema si caratterizza come il più conservatore al mondo, in un paese irrigidito nel tempo dove vige piuttosto la Repressione Permanente. Ha promesso la terra ai contadini e il paese ai cubani (espellendo le odiate multinazionali), ma Cuba è diventata di fatto una sorta di sua proprietà personale, trattata a volte anche con cura e attenzione per le persone che vi abitano, ma facendolo sempre come un grande feudatario medievale che, paternalisticamente, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male per i propri soggetti. Ha abolito il latifondo privato, ma ha creato il latifondo di Stato, con il risultato che oggi Cuba è costretta ad importare più dell’80% dei prodotti necessari a soddisfare i propri fabbisogni alimentari. Ha cercato, in un sussulto di dignità nazionale, l’affrancamento dagli Stati Uniti, ma ha poi lasciato che il paese dipendesse interamente dall’Unione Sovietica prima e dal Venezuela dopo. Ha promesso una produzione di zucchero superiore ai livelli ante-Rivoluzione (7-8 milioni di tonnellate), ma oggi Cuba deve importare zucchero giacché la produzione attuale (1 milione circa di tonnellate) non copre il fabbisogno nazionale. Ha predicato i valori della pace internazionale, ma non ha esitato a mettere Cuba in una situazione suscettibile di scatenare sui cubani il diluvio atomico e di causare la terza guerra mondiale, lasciando irresponsabilmente istallare i missili nucleari sovietici puntati contro la Florida. E anzi rimproverando a Nikita Kruscev di aver scelto la via del compromesso, dopo la dura e decisa reazione di John Kennedy. A crisi risolta, al momento dello smantellamento delle rampe, nelle strade la gente, spinta dalla propaganda ufficiale, scandisce: «Nikita Mariquita, lo que se da no se quita» (Nikita Frocetto, non si riprendono i regali fatti). I regali sono i missili nucleari sovietici! Ha fatto balenare la costruzione di una nuova Cuba adattata alle specifiche finalità socialiste, ma le strutture edilizie di base sono rimaste sostanzialmente quelle delle precedenti generazioni borghesi. La stessa celebrata e simbolica Plaza de la Revolución (già Plaza Civica) è un legato dei governi borghesi. Il Malecón poi, il famoso ed emblematico lungomare avanero, è lo stesso di cinquant’anni fa con gli stessi alberghi una volta proprietà dei vari Meyer Lansky o Lucky Luciano o Santos Trafficante. Non vi è insomma sul celebrato Malecón un solo edificio che si possa accreditare all’edilizia rivoluzionaria. Ha privilegiato all’inizio del suo governo istruzione e sanità per tutti, ma i due settori conoscono oggi una profonda crisi dovuta al degrado del sistema collettivista e al forsennato «internazionalismo socialista» che ha portato medici e maestri cubani in tutto il mondo (dietro peraltro compenso per lo Stato cubano in una sorta di cooperazione «a pagamento»), sguarnendo gli organici e gli effettivi all’interno dell’isola. Ha ferocemente condannato l’embargo economico e commerciale degli Stati Uniti, ma ne ha fatto un formidabile alibi per giustificare carenze del regime, tralasciando di aprire le porte ai paesi dell’Unione Europea, possibili portatori di investimenti colossali a beneficio della popolazione cubana.
Strano destino quello di Fidel Castro. Ha promesso l’avvento nei Caraibi del «paradiso dei lavoratori», ma, cinquant’anni dopo il suo ingresso all’Avana alla testa dei barbudos vittoriosi, a Cuba si registra:
– il più alto tasso di emigrazione al mondo. Il 23% della popolazione vive fuori dei confini e il principale desiderio delle nuove generazioni è di abbandonare l’isola;
– un tasso di suicidi tra i più alti al mondo (22/100.000 abitanti);
– un tasso di divorzi tra i più elevati al mondo (65% nei primi due anni di matrimonio);
– una forte crisi di identità nazionale (3 milioni di cubani hanno sollecitato la cittadinanza spagnola in base alla «legge dei nonni» recentemente approvata da Madrid);
– la popolazione carceraria più numerosa al mondo (100.000 reclusi, in circa 200 centri di detenzione, su una popolazione di 11,2 milioni di persone);
– l’equilibrio razziale di fatto non raggiunto nonostante i proclami ufficiali (solo il 6% dei dirigenti è nero, l’80% della popolazione carceraria è nero, appena il 22% delle matricole universitarie riguarda giovani neri);
– il triste primato mondiale di un paese dove distribuire pubblicamente la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU (pure da Cuba ratificata) è considerato un reato penale… Un primato che fa chiaramente intendere quale sia la situazione delle libertà fondamentali e dei diritti umani nel paese.
Insomma, Rivoluzione realizzata o Rivoluzione tradita?
Fidel Alejandro Castro Ruz nasce a Biran (Holguín), nella parte orientale dell’isola, il 13 agosto del 1926, da Angel Castro, umile immigrato galiziano che a forza di sacrifici e duro lavoro diventa un solido proprietario terriero, e da Lina Ruz, giovane domestica messa a servizio presso Don Angel al quale darà ben sette figli (Angela, Ramón, Fidel, Raúl, Juanita, Emma, Agustina) e che solo con il tempo riuscirà a normalizzare la lunga relazione extra-coniugale, diventando la legittima signora Castro.
Come tutti i ragazzi benestanti dell’epoca, Fidel studia dai gesuiti spagnoli. Alle scuole La Salle e Dolores di Santiago nei primi anni e successivamente presso l’esclusivo collegio Belén dell’Avana, dove si impregna di sentimenti di onore e di dignità, tipici valori della hispanidad e si distingue per le sue capacità di ragionamento e le sue qualità atletiche.
Nel 1945 si iscrive alla facoltà di diritto dell’Università dell’Avana, vivace, turbolento e spesso anche violento scenario di scontri politici tra opposte fazioni, dove viene a contatto con ambienti nazionalistici ferocemente contrari alla dominazione economica yankee e che predicano l’abolizione del famoso «emendamento Platt», inserito come allegato alla costituzione cubana nel 1901 (che conferisce in pratica agli Usa il diritto di intervenire militarmente a Cuba qualora gli interessi di Washington siano posti in pericolo). È il periodo in cui Fidel si impegna attivamente nelle file del Partito Ortodosso del senatore Eddy Chibas, nazionalista e anticomunista dichiarato.
Laureatosi, fatto il praticantato presso un piccolo studio di avvocati associati dal 1950 al 1952, Fidel è totalmente preso dagli impegni politici e tralascia l’attività professionale. Pensa anche di candidarsi al parlamento per il partito di Chibas. Sennonché le previste elezioni vengono cancellate dal colpo di Stato – peraltro incruento – del filo-americano Fulgencio Batista, il quale torna al potere per la seconda volta e instaura un regime autoritario che pur tuttavia lascia un discreto margine di manovra ai partiti d’opposizione e soprattutto alla stampa non governativa.
Da giovane avvocato Fidel protesta, presentando nelle dovute forme un ricorso alla suprema corte, contestando anche da un punto di vista giuridico l’iniziativa di Batista. Da giovane politico sa che il ricorso non ha alcuna chance di essere accolto, ma sa anche che gli darà un’ampia visibilità politica e gli farà conquistare ulteriori simpatie e appoggi.
Esaurita quindi la via legale, Fidel decide di ricorrere a mezzi più convincenti ed è pronto all’intervento armato. Organizza con i suoi seguaci politici più stretti e fedeli (circa 130 giovani, tra i quali il fratello minore Raúl) l’assalto alla caserma Moncada di Santiago, la seconda città del paese, sicuro della parallela sollevazione del popolo orientale, il più povero e sacrificato del paese. L’assalto tuttavia, malgrado l’indubbia audacia concettuale, si rivela un totale fallimento, in parte a causa dello stesso Fidel che fa venir meno l’elemento sorpresa. L’attacco alla caserma è previsto infatti alle primi luci dell’alba del 26 luglio 1953, mentre i militari sono ancora immersi nel sonno dopo le festività del carnevale santiaguero. La colonna di autovetture dei giovani rivoluzionari si avvicina quindi all’ingresso della caserma, ma la Buick guidata da Fidel intercetta una pattuglia di due batistiani, non prevista nello scenario degli assaltanti. Fidel cerca allora di scagliarsi contro di loro a tutta velocità, prima che questi abbiano il tempo di capire che cosa stia succedendo e di reagire. Sbaglia però la manovra (a causa, si dice, della mancanza degli occhiali da vista che per un vezzo, pur essendo molto miope, odia indossare) e finisce sul marciapiede rimanendo in panne di traverso ed ostacolando il proseguimento delle altre autovetture. I due militari intanto hanno il tempo di posizionarsi adeguatamente e di cominciare a sparare dando l’allarme generale. Fine dell’effetto sorpresa. Bilancio dell’operazione: 64 giovani uccisi durante e subito dopo l’assalto, 22 soldati morti, Fidel, Raúl e i principali dirigenti del Movimento arrestati. Un disastro. Ma Fidel con la sua famosa autodifesa durante il processo a Santiago («condannatemi pure, non importa, la Storia mi assolverà»), vero e proprio Manifesto rivoluzionario, ne farà una strabiliante vittoria politica. Il 26 di luglio diventerà dal 1959 festa nazionale per ricordare la «gloriosa epopea del Moncada».
Fidel, Raúl e gli altri superstiti dell’assalto vengono condannati da 12 a 15 anni di reclusione da scontarsi nell’isola dei Pini (oggi Isola della Gioventù). Prematura fine dell’avventura politico-militare di Fidel Castro? Niente affatto, proprio grazie al suo «miglior nemico», l’ex-sergente divenuto il primo presidente mulatto della America Latina! Batista commette due anni dopo il processo di Santiago il più grande errore della sua vita politica: approva un’amnistia in favore dei giovani reclusi dell’Isla de los Pinos nella falsa aspettativa di una sorta di riconciliazione nazionale e per tener conto anche delle suppliche di Lina Ruz, la mamma di Fidel. È certo che se Batista si fosse comportato con Castro come questi si comporta oggi con i propri oppositori politici, non ci sarebbero state né la Rivoluzione né la dinastia Castro.
La situazione politica intanto diventa sempre più agitata e complicata, con continui conati di rivolta promossi da un’opposizione divisa e frantumata e successive violente repressioni governative. Fidel e Raúl preferiscono di conseguenza esiliarsi in Messico da dove organizzare in maniera più coerente la «rivincita» contro Batista. In tale prospettiva raccolgono importanti fondi dai fuoriusciti cubani, riuniscono 82 uomini pronti a tutto (tra i quali l’argentino Ernesto «Che» Guevara e l’italiano Gino Doné), acquistano uno sgangherato yacht di 18 metri, il mitico Granma (abbreviazione di Granmother – nonna – così battezzato dal primo proprietario americano), e il 2 dicembre del 1956, dopo sette giorni di avventurosa traversata, sbarcano sulla costa orientale dell’isola, presso la località di Niquero.
Ma sulla costa ad attenderli ci sono elementi dell’esercito batistiano messi in allarme dai servizi di intelligence. Il gruppo è in sostanza sterminato, solo una ventina di elementi riescono a fuggire e a rifugiarsi fortunosamente sulla Sierra Maestra, dove inizia l’epopea che due anni dopo segnerà la vittoria della Rivoluzione. La storia ufficiale parlerà invece sempre di tredici superstiti, nello scoperto intento di alimentare la leggenda di un nuovo Cristo tropicale che si rifugia nella Sierra con i suoi dodici apostoli. Castro in poco tempo incontestabilmente si afferma come il Capo dell’opposizione a Batista, sulla scia anche dell’originale e inedito sistema di avviare nelle zone man mano conquistate infrastrutture di auto-governo (scuole, ospedali, tribunali) di cui beneficiano soprattutto i poveri contadini, sempre più favorevoli ai giovani barbudos portatori di una nuova giustizia sociale. Del resto chi non lo è, rischia di essere eliminato brutalmente. Con Castro si allineano anche le correnti dell’opposizione democratica e anticomunista che chiedono il ritorno alla costituzione del 1940.
Nel maggio del 1958 fallisce un’operazione su grande scala tentata da Batista per farla finita con i guerriglieri della Sierra. Castro è intanto sempre più popolare grazie anche alle sue straordinarie doti di creatore di immagine e di regista di se stesso, fortemente aiutato in questa fase dal celebre reportage del giornalista americano Herbert L. Matthews, del «New York Times» che ne fa un ritratto particolarmente accattivante, dipingendolo per l’opinione pubblica internazionale come un generoso Robin Hood dei tropici. Un Robin Hood peraltro non ancora comunista. Come dirà acutamente lo stesso Matthews, «il comunismo non era la causa delle Rivoluzione, ne è diventato il risultato». Un risultato peraltro utile al Líder Máximo per togliere di mezzo gli avversari e mantenere un potere pieno e assoluto per oltre mezzo secolo
Disponendo ormai di un consistente numero di uomini armati (circa 2000), Fidel decide di approfittare del momento favorevole per sferrare l’attacco finale, lanciando verso ovest due colonne comandate rispettivamente da Camillo Cienfuegos e da Che Guevara, una in direzione nord, l’altra lungo la carretera central per tagliare il paese in due e impedire l’arrivo dei rinforzi governativi nelle zone orientali controllate dagli uomini di Raúl Castro. Operazione che riesce in pieno. Le comunicazioni tra l’Occidente e l’Oriente del paese sono totalmente interrotte. Nella città di Santa Clara Che Guevara resiste al bombardamento dell’aviazione governativa e cattura anche un treno blindato nemico considerato imprendibile, mentre la popolazione locale comincia a sollevarsi e si moltiplicano le diserzioni tra le file batistiane. Nello stesso periodo le colonne di Fidel e Raúl entrano in Santiago, la capitale dell’Oriente, nel contesto generale di un paese paralizzato dallo sciopero generale e in attesa del crollo finale del regime che in effetti implode clamorosamente, come un castello di carte. Il 1° gennaio 1959 Fulgencio Batista lascia precipitosamente il paese alla volta di Santo Domingo, non senza essersi abbondantemente servito dalle casse dello Stato.
Non ci sono più ostacoli per i giovani barbudos che vincono per la consunzione di un avversario che non crede più nella legittimità del proprio combattimento e per le immense aspettative di una popolazione stanca dei metodi gangsteristici di Batista. Guevara e Cienfuegos entrano senza difficoltà all’Avana il 2 gennaio. Fidel arriva il 7, dopo un viaggio trionfale (ben studiato e di immenso impatto mediatico) attraverso i mille chilometri che vanno da Santiago all’Avana. Il giorno dopo il suo arrivo assume ufficialmente l’incarico di Comandante in capo delle forze armate rivoluzionarie. Il 13 febbraio diventa Primo Ministro (carica allora esistente), con Osvaldo Dorticòs, nominato qualche mese dopo Presidente della Repubblica a seguito dell’allontanamento del poco malleabile Manuel Urrutia. Gli Stati Uniti riconoscono subito il governo installatosi all’Avana.
Comincia l’era rivoluzionaria. I nuovi dirigenti del paese si fissano due obiettivi prioritari: discontinuità assoluta con il precedente regime e parallelo consolidamento del potere. Vengono così immediatamente chiuse le case da gioco e i luoghi della prostituzione, confiscati i beni dei mafiosi e dell’élite batistiana, dichiarata la guerra al traffico di droga. Vengono poi approvate misure dirette in favore della popolazione con l’aumento dei salari, la diminuzione dei canoni di affitto, la riduzione delle tariffe pubbliche, del prezzo dei medicinali ecc. Si mette poi mano alla riforma agraria, proclamata già nel maggio del 1959, abolendo il latifondo che lasciava a 3000 famiglie la proprietà del 70% delle terre coltivabili e iniziando una redistribuzione delle terre tra cooperative e campesinos. Insomma è chiara l’impostazione «sociale», peraltro non ancora comunista e collettivista, del governo.
Ma nessuno si deve intromettere nei piani rivoluzionari. Per evitare sbandamenti iniziali del regime, sempre possibili nel frastagliato movimento d’opinione che ha portato alla fuga di Batista, occorre dar prova di assoluta decisione, incutendo terrore nella popolazione e mettendo a tacere qualsiasi forma di contestazione. Il segno lo darà lo stesso Che Guevara, nominato Procuratore Generale e comandante militare della vecchia fortezza La Cabaña trasformata per l’occasione in tetra prigione politica. Qui verranno ammazzate senza pietà, in processi-spettacolo che si svolgono negli stadi di base-ball e sotto le telecamere della televisione, dalle 200 alle 400-600 persone (secondo le fonti), non di rado con la partecipazione diretta dello stesso Che, il quale mai adotterà un provvedimento di grazia. Tutti gli accusati saranno condannati e tutti i condannati saranno fucilati. Con il consenso evidentemente del Comandante in capo e sulla scia dell’aberrante principio avallato dai giuristi rivoluzionari: «la Rivoluzione è fonte di diritto!».
Per completare l’opera, affinché non ci siano più dubbi su chi comanda nell’Isola e in vista di una gigantesca opera di epurazione (o di purificazione?), l’argentino istituisce, sempre con l’assenso dell’amico Fidel, veri e propri campi di concentramento dove le vittime, lasciate in condizioni di degrado umano in attesa di essere torturate o fucilate, periranno a migliaia. Si illustreranno in questa macabra classifica i campi di Guanaha, Santiago de la Vega e di Capitolo (specialmente ideato per i bambini al di sotto dei 10 anni).
Non si dispongono di cifre esatte sulle vittime del regime castrista. Secondo dati ufficiali vi sarebbero state nei cinquant’anni di regime comunista 5.670 vittime «dirette». Ben diverse le cifre fornite dalla dissidenza, che avanza il numero complessivo di 88.000: 18.000 deceduti a causa di persecuzioni varie, 3000 fucilati, 1000 morti in prigione e 66.000 deceduti nel disperato tentativo di lasciare il paese. Sono cifre che potranno essere confermate o smentite solo quando si apriranno gli archivi segreti cubani. Ci potranno essere allora delle sorprese, anche sgradevoli.
In ogni caso nei primi anni della Rivoluzione, la ventata di terrore è volutamente alimentata e si accompagnerà inoltre ad un sistematico controllo della popolazione sul territorio che non avrà eguali in America Latina. Un sistema che nel corso di cinque decadi si è talmente perfezionato che oggi il regime può anche permettersi il «lusso» di non arrestare, torturare o eliminare fisicamente i dissidenti. La persona in odore di dissidenza, infatti, comincia col perdere il posto di lavoro, è oggetto di angherie amministrative di tutti i tipi (telefono interrotto, tagli delle luce elettrica ecc.), provocazioni fisiche, i figli hanno problemi a scuola, i vicini si tengono alla larga e via dicendo. Il candidato alla dissidenza politica insomma è un condannato certo alla segregazione civile, all’isolamento sociale e ad una difficile se non impossibile sopravvivenza. Un eccellente deterrente, quindi, che funziona e frena gli slanci contestatori ancor prima che si possano esprimere. Un deterrente che si basa sul perfetto funzionamento del servizio interno di controspionaggio, la famosa DGSE (Direzione Generale per la Sicurezza dell...

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  1. Copertina
  2. Titolo della pagina
  3. Copyright
  4. Contenuto
  5. Premessa
  6. Dittature e Decolonizzazione
  7. Dittature e Business
  8. Dittatura e Culto Della Personalità
  9. Dittature e Sterminio
  10. Dittature Paranormali
  11. Dittature e Propaganda
  12. Dittature Irreali
  13. Bibliografia