E oggi? E domani?
Qual è l’utilità, oggi, di queste riflessioni e di questi ricordi?
Gli anni ’80 sono stati l’ultimo periodo di effervescenza della società e dell’economia italiana. Hanno creato molte aspettative ma non le condizioni perché fossero sostenibili nel tempo.
Gli anni ’90 hanno gelato tutto.
Per tanti versi il ’92 può essere identificato come il punto di inizio della crisi del modello Italia, il momento dell’esplosione della questione settentrionale. Sarebbe, però, proprio ingenuo pensare che ciò sia avvenuto all’improvviso, come qualcosa di inatteso, di imprevedibile.
La crisi dei partiti maturava progressivamente da anni e finì per esplodere con tangentopoli ma, allo stesso modo, anche i nodi irrisolti nella società si andavano stringendo da tempo e il tracollo della Lira ne fu la conseguenza coerente.
La crisi di oggi non è scollegata da quella del ’92 però è un passo avanti. Vent’anni non sono trascorsi invano. Fermarsi ai problemi di allora non ci consente di trovare tutte le risposte: è utile e per certi aspetti necessario, ma non è sufficiente.
C’è una tabella che lo spiega meglio di qualsiasi discorso. La tengo scolpita nella testa da quando l’ho vista la prima volta, nel 2008, su «The Economist» riferita, allora, al periodo 1992-2007. Eccola qui, mostra il PIL procapite a parità di potere d’acquisto di alcuni paesi industrializzati, la fonte è l’OCSE:
Non serve commentare, ognuno faccia da sé. La questione settentrionale è scritta qui.
La seconda Repubblica non è stata in grado di incidere sulle contraddizioni che furono alla base della crisi di allora, né sul fronte della politica né su quello dell’economia, oggi lo si può dire con tranquillità.
Così ce le ritroviamo davanti, ingigantite dal tempo trascorso, dalle bugie dette per scansarle e dalla coda di decisioni sbagliate che ne sono derivate. Naturalmente, insieme a tutte le questioni nuove che questi vent’anni hanno prodotto e che lo “showbiz” berlusconiano spesso non ha neppure saputo individuare.
È rimasto l’impasto di diritti, privilegi e clientele ereditato dalla prima Repubblica.
È rimasta l’inadeguatezza politico-istituzionale del sistema della rappresentanza che aveva portato a tangentopoli – la scommessa persa malamente dal PSI, la mancata Grande Riforma.
È rimasto il mito del piccolo è bello, ovvero il problema di come trasformare una struttura economica fragile e sottocapitalizzata, basata sulla piccola e piccolissima impresa, in un sistema in grado di competere nel contesto globale che, oltretutto, nel frattempo si è consolidato e si rafforza sempre più.
L’evidenza di questo stratificarsi di problemi irrisolti si esprime in una bolla elettorale, confusa e indefinita ma molto grande, che ondeggia da vent’anni sopra il sistema politico italiano e che si riversa, a ogni appuntamento elettorale, in opzioni di voto diverse e contraddittorie: Bossi nel ’92, poi Berlusconi nel ’94 e nel 2001. In parte, Prodi nel ’96 e poi nel 2006. La Bonino e l’Asinello di Parisi nel ’99. Di Pietro e Berlusconi e Bossi negli anni 2000. Grillo in questo assaggio elettorale del 2012.
Una bolla con una fortissima componente di protesta e di rabbia: tutti coloro che ne hanno beneficiato erano in qualche modo “contro” qualcosa. Non, però, della protesta e della rabbia di una nuova generazione rivoluzionaria o contestatrice, o di un nuovo ceto che si afferma, con un progetto, magari confuso, in testa e caccia chi c’era prima.
No, è la protesta, è la rabbia di chi ha da perdere cose conquistate, di chi ha paura di perderle perché non vede più con chiarezza davanti a sé. Protesta e rabbia, dunque, ma condite con la prudenza, nel momento della scelta decisiva, quando si fa attenta al Governo che verrà e fa i conti. Non è contro il sistema, solo ha paura di non poterne fare più parte.
L’ultima campagna elettorale a cui ho partecipato davvero, come dicevo sopra, è stata quella del 2006, con la Rosa nel Pugno.
Si usciva da un quinquennio berlusconiano disastroso. Le elezioni amministrative del 2005 avevano descritto un’Italia stanca delle parole di Berlusconi, dei litigi della maggioranza che si appianavano solo quando c’erano in gioco gli interessi personali del capo o quando Pantalone pagava per tutti, come nel caso del generoso rinnovo del contratto degli statali voluto fortemente dall’allora Vice Presidente del Consiglio, Gianfranco Fini.
Fino a quindici giorni prima delle elezioni sembrava una cavalcata vittoriosa del centrosinistra.
In quei giorni ho chiamato un mio vecchio amico d’infanzia, nel frattempo assurto a un ruolo molto importante in una banca altrettanto importante. Mi dice: “Sergio, cosa succede? Mi dicono che la gente viene in banca a ritirare i soldi…”.
C’era stato l’exploit di Berlusconi all’Assemblea di Confindustria mentre il centrosinistra discettava sulle tasse, con l’affabile volto dell’ex Ministro Visco, e su quando un patrimonio fosse abbastanza grande da essere soggetto alla tassa di successione con il festoso contributo di tutti (175.000, 250.000, 500.000, 1.000.000…).
Va bene cambiare, ma non è che ci perdo? In una settimana, l’ultima, quella decisiva, l’umore del Paese virò. Non abbastanza per ribaltare il risultato ma per imporre un quasi-pareggio ingovernabile, questo si. E per uccidere il progetto della Rosa nel Pugno.
Così nel 2008 si votò di nuovo ma, questa volta, senza incertezze.
Rabbiosi ma con il conto in banca e beni al sole, dunque prudenza. Sempre così.
Prodi si contrapponeva, per quanto poteva, al debole sistema partitico che l’aveva proposto, ma per governare.
Berlusconi fin dal suo esordio si è imposto come l’antipolitico, l’antipartitico, quello che si è fatto da sé, contrapposto al “teatrino della politica” di quelli che non hanno mai lavorato, ma l’obiettivo è sempre stato la Presidenza del Consiglio.
La Lega è stata di lotta e di governo, fin che è stata. Anzi, il suo successo più grande è quello del 2009/2010 – il sorpasso al nord – quando si caratterizzava per essere al governo e apriva succursali ministeriali a Monza.
Complessivamente, questi ondeggiamenti disperati dell’elettorato italiano sono l’espressione di ciò che è stato chiamato “la questione settentrionale”, cioè la crisi del modello Italia: questione che si chiama così non perché sia circoscritta al nord ma perché riguarda anche “la parte del Paese che funziona”.
Ondeggiamenti che esprimono combinazioni diverse dello stesso mix di sentimenti, dove di volta in volta prevalgono la disillusione o la paura, la speranza o la rabbia.
Nessuno dei vari leader o movimenti prescelti, però, ha risolto alcunché, tranne Prodi e Ciampi, che ci hanno portato nell’Euro, sistemando un po’ i conti pubblici.
È, dunque, tuttora aperta la sfida che il PSI non aveva saputo vincere: dare voce all’Italia, come diceva uno slogan del PSI degli anni ’80, “di chi vive del proprio lavoro e ragiona con la propria testa”.
Gli illusi e poi delusi dal PSI, in maggioranza hanno creduto un po’ alla Lega e un po’ a Berlusconi.
Non, però, nel senso che si sono semplicemente divisi in gruppi distinti di supporter di Berlusconi o di Bossi. No, ciascuno di loro, dentro di sé, ha creduto contemporaneamente alle parole dell’uno e dell’altro, anche quando erano tra loro contraddittorie.
Ognuno dei messaggi consentiva, a suo modo, di credere che si potesse evitare di mettere in discussione le conquiste personali raggiunte; che le incertezze e le nebbie che avvolgevano il futuro si potessero scacciare con slogan e ottimismo.
In un’intervista, ritengo al «Corriere della Sera», di alcuni anni fa, Fedele Confalonieri dichiarava, più o meno: “Se non ci fosse Forza Italia, voterei Lega.” Eppure era così chiaro che gli interessi di Confalonieri erano distanti da quelli del piccolo imprenditore leghista. Non solo distanti ma spesso alternativi.
Adesso è più chiaro che quegli slogan non andavano da nessuna parte.
Anche se contenevano delle verità – addirittura, talvolta, molte verità – non coglievano il cuore della sfida che si trovava e si trova di fronte all’Italia. Troppo semplicistici, troppo demagogici.
Eppure, ancora oggi, se qualcuno raccontasse bene la stessa storiella di sempre, la voglia di crederci sarebbe tanta, a destra come a sinistra.
D’altra parte, dov’è la visione alternativa? Perché è questo che serve: una visione del futuro che parta dalla realtà di oggi, dai fatti, dai problemi e indichi una strada non demagogica, non superficiale. Credibile. E la coerenza di portarla avanti, costi quel che costi. Anche di perdere.
Le cose, infatti, non vanno bene.
E non è colpa di Berlusconi e della Lega. Non solo, almeno. Come racconta la tabella riportata sopra, sono vent’anni che l’Italia cresce meno di suoi partner europei i quali, a loro volta, crescono meno del resto del mondo.
Ma perché?
Stiamo in Europa. Fermiamoci qui per un attimo.
La Volkswagen costruisce le sue auto in Germania e con profitto. In Germania, dove i contributi e le tasse sono alti, come da noi. Dove anche gli stipendi sono alti, più alti dei nostri. Se non cresciamo, dunque, non è colpa della Cina e delle delocalizzazioni. Almeno, non solo. E neppure della spesa per il welfare.
Noi facciamo i debiti per comprare le auto tedesche. Costano poco di più ma, si sa, la qualità si paga. L’industria tedesca è in boom. In vent’anni l’impresa tedesca dell’auto ha conquistato il primato mondiale del lusso a quattro ruote: Audi, Volkswagen, BMW, Mercedes, Porsche. Innovazione, tecnologia, ingegneri, organizzazione, processi produttivi, pianificazione.
ben noti. E sono rispettati ovunque. Ma il sistema produttivo, nel suo complesso, non produce più novità e, tranne pochi esempi, fatica a crescere, ad assumere una dimensione globale. Rispetto agli anni ’80, abbiamo perso il grip e le conseguenze sono visibili.
I nomi sono sempre gli stessi di vent’anni fa mentre il mercato si è trasformato e si è allargato, ha creato nuovi settori.
Alcuni giorni fa, un po’ intontito dalla pigrizia di un mattino domenicale, mi sono imbattuto in un’intervista del Ministro per il Turismo del Governo Monti. Un dato, citato dal Ministro, mi ha risvegliato. Me lo sono appuntato: nel ’95 il nostro prodotto turistico superava quello spagnolo di 5 miliardi; nel 2010 era inferiore di 12. Diciassette miliardi di scarto: quanti posti di lavoro? Dove erano i governanti? È solo colpa loro?
Siamo stati a lungo il paese leader nella telefonia mobile, non molti anni fa. La penetrazione del GSM da noi è stata più veloce e più estesa. Un’opportunità mancata. Non siamo più leader.
Le nostre quote del mercato globale si sono ridotte in percentuale negli ultimi venti anni mentre la Germania le ha ampliate e la Francia le ha conservate.
Questo non significa una contrazione dei volumi perché il mercato globale nel frattempo è cresciuto moltissimo. Forse, in valore assoluto, il nostro contributo al mercato globale è perfino cresciuto.
È che l’innovazione tecnologica riduce il contenuto di lavoro umano dei prodotti. Questa è la risposta definitiva alla domanda che facevano quei lavoratori della CGIL a un giovane informatico che non sapeva che dire, nei primi anni ’80.
Così, oggi, lo stesso PIL di 20 anni fa richiede meno posti di lavoro di allora. Lo stesso PIL genera disoccupazione.
Per mantenere l’occupazione, dunque, non basta crescere più dell’inflazione, bisogna crescere di più di quanto l’innovazione tecnologica consenta di ridurre l’occupazione, a parità di prodotto.
Questo per rimanere competitivi pur con salari e diritti europei.
C’è una vecchia legge dell’informatica, la legge di Moore, enunciata più di trent’anni fa e, da allora, sempre verificata: la potenza di calcolo dei processori raddoppia ogni 18 mesi a parità di costo.
Ritmi insostenibili, certo. Ma le tecnologie informatiche sono solo una parte dell’innovazione e la parte più veloce. Nel complesso l’innovazione non è così veloce: riguarda i servizi, le infrastrutture, i modelli di business, i processi. Però non avviene per caso, deve essere cercata, favorita, pi...