La desistenza terapeutica
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Informazioni sul libro

Con desistenza terapeutica s'intende l'atteggiamento terapeutico con il quale il medico desiste dalle terapie futili ed inutili. La desistenza terapeutica è un concetto che proviene dall'ambito medico dell'anestesia-rianimazione e si applica nei confronti dei pazienti malati terminali ed ha la sua base nel concetto di accompagnamento alla morte secondo dei criteri bioetici e di deontologia medica già stabiliti. La desistenza terapeutica non ha niente a che fare con l'eutanasia, da cui anzi prende le distanze, ed inoltre vuole combattere l'accanimento terapeutico.

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Informazioni

1. INTRODUZIONE

La morte é uno dei tabù più forti con cui l’uomo moderno si confronta e per questo si ha difficoltà ad affrontarla. La morte e la sofferenza sono vissute come qualche cosa di lontano e, quando siamo personalmente toccati da queste esperienze, cerchiamo automaticamente di trovare in ogni modo un rimedio per dimenticare presto. Questo perché nel nostro inconscio, la morte non è mai possibile per noi stessi, è inconcepibile immaginare una fine reale della nostra vita qui sulla terra e casomai ci si immagina una fine sempre attribuita ad un intervento drammatico esterno, per opera di qualcun altro. In altre parole, nel nostro inconscio noi possiamo solo essere uccisi; è inconcepibile morire di una causa naturale o di vecchiaia.1
La morte è ancora un avvenimento spaventoso, terribile; la paura della morte è una paura universale, anche se crediamo di averla dominata a molti livelli.
Ecco perché negli ultimi anni si è iniziato ad affrontare, con sempre maggiore attenzione, il problema, sorto soprattutto in conseguenza alla comparsa di nuove strategie d’intervento nel campo delle terapie intensive che ne hanno fatto accrescere la portata terapeutica, del limite che il medico avrebbe o non avrebbe nel mantenere in vita un paziente in condizioni critiche. In questo ambito, infatti, è molto più pressante e drammatico il problema delle decisioni di fine vita nei confronti di un paziente morente perché il progresso tecnico-scientifico ha fornito al medico di Terapia Intensiva nuove possibilità di intervento sui pazienti in condizioni critiche, come l’abolizione della coscienza mediante sedazione prolungata, la sostituzione di funzioni vitali come la respirazione oppure la possibilità di diagnosticare la morte con criteri neurologici, rendendo così possibile il trapianto di organi. Queste nuove possibilità hanno posto inizialmente il delicato problema di quando sia opportuno porre dei limiti alle cure intensive, per poi coinvolgere il resto degli ambiti della Medicina che affrontano pazienti inguaribili in situazione di malattia terminale.
Questo lavoro, non pretendendo di essere esaustivo né di dare giudizi, cerca di affrontare i concetti delle problematiche di fine vita partendo dallo stato attuale delle cose per arrivare a descrivere quell’approccio medico che si sta ormai configurando sempre più come la soluzione ai dilemmi etico-deontologici che inevitabilmente si sono creati nelle coscienze.

2. GLI AVVENIMENTI

Le decisioni di fine vita sono diventate motivo di interesse per l’opinione pubblica soprattutto dopo il clamore mediatico legato alle tragiche vicende umane e giudiziarie di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby. Di seguito vengono presentati brevemente i due casi.

2.1. Eluana Englaro

Era dal 1992 che Eluana "dormiva": da quel mattino del 18 gennaio, quando la ragazza venne ricoverata a Lecco in coma profondo per un gravissimo trauma cranico riportato in un incidente stradale.2 Come se non bastasse, la frattura della seconda vertebra cervicale la condannava quasi sicuramente alla paralisi totale. Ma sul momento la cosa più urgente, per i medici, era strappare la ragazza dalla morte. Per questo motivo venne intubata e le vennero somministrati i primi farmaci. I due rianimatori fecero capire chiaramente ai genitori che in questi casi non resta che attendere il decorso delle successive 48 ore, per vedere come avrebbe reagito Eluana. Niente, la ragazza continuó a vegetare. Dimessa dalla rianimazione nell’aprile 1992, venne portata in un altro reparto dell’ospedale di Lecco, dove venne sottoposta a una serie di stimoli, nella speranza di un sempre più improbabile “risveglio”. Intanto il padre Beppino, consigliato dal primario del reparto di rianimazione, chiese un consulto a vari specialisti. Ma il verdetto fu sempre lo stesso: bisogna aspettare. Il lavoro che stavano facendo all’ospedale di Sondrio, dove Eluana venne trasferita nel giugno 1992, era ineccepibile. In realtà la speranza si ridusse ben presto a zero. Infatti, dopo dodici mesi, fu possibile fare una diagnosi definitiva e sicura di stato vegetativo permanente, ossia irreversibile. Con tale termine si definisce lo stato di coma caratterizzato dalla incapacità di risposte appropriate all’ambiente e ai bisogni interiori, pur conservando una autonoma funzione cardiorespiratoria: gli occhi sono aperti, esistono cicli sonno-veglia, sono mantenute le funzioni vitali autonome, ma non è presente alcuna attività motoria finalizzata. La corteccia cerebrale compromessa dal trauma era andata incontro ad una degenerazione definitiva perdendo tutte le funzioni di cui è responsabile: dall’intelletto agli affetti e, più in generale, della coscienza. Situazione poi confermata dall’autopsia che evidenzió la distruzione di quasi l’80% della materia cerebrale.
Ed ecco come viveva Eluana3: i suoi occhi si aprivano e si chiudevano seguendo il ritmo del giorno e della notte, ma non vedevano. Le labbra erano scosse da un tremore continuo, gli arti tesi in uno spasmo ed i piedi in posizione equina, una cannula dal naso le portava il nutrimento allo stomaco. Ogni mattina, gli infermieri le lavavano il viso ed il corpo con spugnature. Un clistere le liberava l’intestino. Ogni due ore la giravano nel letto. Una volta al giorno la mettevano su una sedia con schienale ribaltabile, stando attenti che non cadesse in avanti. Poi di nuovo a letto.
Carlo Alberto Defanti, primario del reparto di neurologia dell’ospedale Niguarda di Milano, che visitò Eluana alcuni anni prima, ebbe modo di dire: “Malgrado non soffra direttamente per il suo stato, dovrebbe essere chiaro a tutti che la sua condizione è priva di dignità. Di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, totalmente nelle mani del personale che la assiste. La sua condizione è penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di un risveglio e per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne compiutamente il lutto”.
Il 9 febbraio 2009, dopo più di 17 anni di stato di coma e tutti i gradi di giudizio in tribunale, Eluana Englaro moriva a Udine in seguito alla sospensione due giorni prima dell’idratazione e della nutrizione artificiali. Sono stati assolti da qualunque responsabilità legale sia Beppino Englaro che il personale sanitario che ha accompagnato la donna nei suoi ultimi giorni di vita.4

2.2. Piergiorgio Welby

Piergiorgio Welby naque a Roma il 26 Dicembre 1945. All’età di 16 anni venne colpito da una forma progressiva di distrofia muscolare.5 Negli anni ’60, per alleviare la sofferenza, iniziò a fare uso di droghe e si dilettò nella pittura e nella scrittura. Sempre in quegli anni incontrò, durante un viaggio parrocchiale a Roma, colei che divenne a breve sua moglie, Wilhelmine Schett, oggi conosciuta come Mina Welby. Negli anni ’80 le sue condizioni peggiorarono ulteriormente e fu costretto a disintossicarsi dalla droga facendo uso di metadone, che sortì l’effetto desiderato, ma lo costrinse definitivamente a rinunciare all’uso delle gambe. Fu sua moglie che nel luglio 1997, chiamò i soccorsi in seguito ad una crisi respiratoria di Welby che, per sopravvivere, fu attaccato giorno e notte ad un respiratore automatico. Questa condizione lo spinse a chiedere più volte che gli venisse «staccata la spina», ma la sua richiesta non fu accolta. Nel 2002 aprì un forum per far conoscere la sua situazione e chiedendo a gran voce quella che riteneva essere eutanasia. Questo scatenò in Italia un dibattito sulle questioni di fine vita e sui rapporti tra legge e libertà. Nel 2005 scrisse un libro “Lasciatemi morire”6 dove cercò di spiegare le ragioni della sua battaglia ed il diritto dei malati terminali di porre fine alla propria esistenza.
Il 6 dicembre 2006 Livia Turco, allora Ministro della Salute, auspicò un intervento del Consiglio Superiore di Sanità che chiarisse se nel trattamento medico a cui era sottoposto Welby fosse ravvisabile un accanimento terapeutico. Il Consiglio diede parere negativo.
Il 16 dicembre 2006 il tribunale di Roma respinse la richiesta dei legali di Welby di porre fine all’accanimento terapeutico, dichiarandola «inammissibile» in quanto, secondo il giudice, seppure esista il diritto di chiedere l’interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale, è un «diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento».
Il Consiglio Episcopale Permanente7, così si espresse nei riguardi di questa vicenda:
“Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla [...] ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà.”
Il 20 Dicembre 2006, secondo la sua volontà, Welby morì aiutato dal dott. Mario Riccio, medico anestesista che, dopo averlo sedato, gli staccò il respiratore.8 Su di lui venne aperta un’indagine, ma nel febbraio 2007 l’Ordine dei medici di Cremona riconobbe che il professionista aveva agito nella piena legittimità del comportamento etico e deontologico, chiudendo la procedura aperta nei suoi confronti.

3. LA SITUAZIONE DEONTOLOGICA E LEGISLATIVA

Attualmente l’unico esempio di normativa che tenga conto della manifestazione di volontà del paziente in stato di fine vita è quella sugli espianti e trapianti d’organo, che ha introdotto delle norme del tutto nuove con la legge del 1 aprile 1999, poi integrata dalla legge del 16 dicembre 1999 sul trapianto parziale di fegato (trapianto da vivente) e dal decreto legge dell’8 aprile 2000 in materia di prelievi e trapianti di organi e tessuti. Così, mentre le procedure per il prelievo di organi sono regolate dalla legge punto per punto e obbligatoriamente discusse dai medici in équipe, le norme che gestiscono la “decisione di fine vita” sono lacunose e non meglio definite. In questo contesto ci si deve quindi iniziare a chiedere se vi siano delle regole che ogni medico dovrebbe avere presenti per affrontare queste difficili situazioni e se esse trovino un fondamento nella deontologia e nelle leggi dello Stato.

3.1. Codice di Deontologia Medica

Il 16 dicembre 2006 è stato approvato il nuovo Codice di Deontologia Medica che apporta delle sostanziali modifiche, rispetto ai precedenti, sul modo in cui il medico deve mettere in atto la propria professione nei confronti del paziente. Esso non fa riferimento né alla bioetica religiosa né a quella laica ma affronta temi delicati cercando di dare una risposta a problemi che sono sempre più importanti e pressanti.
Di seguito si riportano gli articoli che trattano l’atteggiamento professionale con cui il medico deve affrontare il paziente in stato di fine vita.9
articolo 16
“Accanimento diagnostico-terapeutico”
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.
articolo 17
“Eutanasia”
Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.
articolo 18
“Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica”
I trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di alleviarne le sofferenze.
articolo 20
“Rispetto dei diritti della persona”
Il medico deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentale della persona.
articolo 22
“Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica”
Il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento.
articolo 23
“Continuità delle cure”
Il medico deve garantire al cittadino la continuità delle cure. In caso di indisponibilità, di impedimento o del venir meno del rapporto di fiducia deve assicurare la propria sostituzione, informandone il cittadino. Il medico che si trovi di fronte a situazioni cliniche alle quali non sia in grado di provvedere efficacemente, deve indicare al paziente le specifiche competenze necessarie al caso in esame. Il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica.
articolo 35
“Acquisizione del consenso”
Il medico non deve intraprendere a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. A Maury, il nostro angelo.
  4. Dedication
  5. 1. INTRODUZIONE
  6. 8. BIBLIOGRAFIA