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La vexata quaestio del Pianeta X:
da P. Lowell a R.S. Harrington
Quali sono i limiti del Sistema Solare? Qual è la sua genesi e la sua storia? Vi sono indizi fisici che suggeriscono una storia turbolenta dello stesso, nella quale uno o più corpi celesti intrusi potrebbero averne cambiato la composizione?
Sono interrogativi difficili ed affascinanti ma ai quali nelle ultime decadi possiamo rivolgerci con minore incertezza, soprattutto grazie all’avanzamento dell’esplorazione spaziale ed al progresso della tecnologia d’indagine strumentale.
Inoltre, la presenza di studiosi eclettici capaci di abbracciare più campi d’indagine costituisce un’ulteriore risorsa in grado di gettare luce sulle cosiddette “anomalie scientifiche”. Il cambiamento di paradigma è sempre una fase dolorosa per una comunità scientifica, ma è uno dei motori del progresso della civiltà umana.
Pochi membri di tale comunità sono disposti ad ascoltare ed investigare le cosiddette “anomalie”. Talvolta capita che siano dei non addetti ai lavori, e studiosi per passione, ad esporsi pubblicamente. Essi vengono ignorati o, nella peggiore delle ipotesi, bollati come ciarlatani e sedicenti studiosi in cerca di visibilità. La storia umana è costellata di figure geniali il cui lavoro è stato relegato ai margini, osteggiato e volutamente soppresso. Figure che solo in seguito sono state rivalutate dalla storiografia per quello che meritano.
Prima di affrontare alcuni di questi personaggi, presenterò il primo dei contesti che fanno da sfondo al mio percorso di ricerca giornalistica, iniziato sulle pagine della carta stampata nell’aprile 2006 e maturato pienamente nell’estate 2007: il contesto astronomico.
Nel 1978 l’astronomo James Christy dell’U.S. Naval Observatory (L’Osservatorio Navale degli Stati Uniti, un’istituzione scientifica governativa sotto l’ala della Marina), scopriva il più grande satellite naturale di Plutone. Esso fu battezzato Caronte e la sua scoperta consentì finalmente di calcolare la massa del sistema Plutone-Caronte. Tale massa si dimostrò molto al di sotto di quella precedentemente ipotizzata ed apparentemente responsabile delle piccole perturbazioni orbitali riscontrate sin dal XIX secolo sui moti nel cielo dei pianeti Urano e Nettuno. Oggi sappiamo che la massa del sistema Plutone-Caronte è grosso modo pari a 2,5 millesimi della massa terrestre.
Christy, che operò con un riflettore astrometrico da 155 cm presso l’Osservatorio della Marina di Flagstaff in Arizona (proprio vicino all’Osservatorio dove era stato scoperto Plutone), si accorse che le foto di Plutone presentavano un curioso rigonfiamento: la gobba che appariva indicava evidentemente la presenza di un satellite naturale che il telescopio usato non riusciva a risolvere, cioè a separare otticamente. Contribuì alla scoperta il fatto che si sapeva già che Plutone presentava un’anomala variazione di luminosità, di circa 6.4 giorni. I due pianeti, che costituiscono una sorta di “pianeta doppio”, si eclissano infatti a vicenda; essi sono “bloccati in una rotazione sincrona”20. Solo nel 1988, per mezzo dell’occultazione di una stella, si scoprì che Plutone possiede una debolissima atmosfera e soltanto per mezzo delle straordinarie capacità ottiche dell’Hubble Space Telescope, si è riusciti a risolvere per la prima volta i dischi dei due corpi.
Prima della sua scoperta, l’enciclopedia britannica The Joy of Knowledge (Mitchell Beazley Encyclopaedias Limited, 1976) – esprimendosi sul lontanissimo e ghiacciato pianeta – sottolineava come la sua minuscola massa sembrasse incapace di generare le perturbazioni rilevate sui moti orbitali di Urano e Nettuno; ed è proprio grazie a tali perturbazioni orbitali, ricorda sempre l’enciclopedia, che fu individuato Plutone21 .
La scoperta nel 1930 dall’Osservatorio di Flagstaff del lontano e gelido Plutone avvenne grazie al paziente lavoro dell’americano Clyde William Tombaugh (1906-1997). Essa tuttavia, fu quasi certamente un colpo di fortuna. La ricerca del cosiddetto “Pianeta X” - a cui diede un grande contributo il matematico ed astronomo Percivall Lowell (Boston, 1855-Flagstaff, 1916) -era cominciata proprio perché «si continuò a riscontrare delle perturbazioni notevoli nei moti dei giganti più esterni».22
Le migliaia di lastre fotografiche controllate fra il 1906 ed il 1916 dal miliardario ed ex diplomatico Lowell -ed ottenute fotografando zone celesti vicine al piano dell’eclittica -non avevano evidenziato nulla d’interessante. L’unico scritto scientifico di Lowell in proposito è quasi certamente il suo «Memoirs on A Trans-Neptunian Planet» del 1915, conservato nell’archivio Memoirs of the Lowell Observatory.
Lowell morì nel 1916 senza aver potuto coronare il suo sogno, ma comunque almeno un pianeta fu trovato proprio vicino al punto del cielo indicato da egli (a circa 6° di distanza). Il suo immane lavoro aveva infatti stimolato il giovane Tombaugh, che alla fine scoprì il piccolo Plutone nel febbraio 1930 dopo una sistematica osservazione astronomica. Esso fu individuato comparando fotografie della stessa zona celeste, ma scattate a distanza di pochi giorni nel mese di gennaio: un debole astro puntiforme, leggermente spostato rispetto alle altre stelle fisse, indicò la sua natura planetaria (cioè errante). La notizia della scoperta fu data solo nel mese di marzo (1930).
La conoscenza dello stesso pianeta Nettuno (scoperto nel 1846) fu il risultato di un mirato lavoro d’osservazione che nasceva proprio da calcoli matematici basati sulle perturbazioni orbitali di Urano, le quali suggerivano l’esistenza di un altro massiccio pianeta, più lontano e non visibile ad occhio nudo. Otticamente il nuovo pianeta Nettuno fu individuato a Berlino da Johann Gottfried Galle e H. d’Arrest, ma sulla base dei calcoli astronomici di Urbain Jean-Joseph Le Verrier (1845).
Anche in Inghilterra – alcuni anni prima (1841) ed indipendentemente dal francese Le Verrier – il giovane studente John Couch Adams di Cambridge aveva lavorato teoricamente sull’esistenza di un altro pianeta, sempre sulla base delle perturbazioni registrate sul moto di Urano, ma il suo studio non fu preso seriamente e solo il prof. Challis di Cambridge si dedicò alla ricerca ottica, tuttavia infruttuosa poiché sprovvisto di una carta stellare.
Galle, invece, trovò il nuovo pianeta non appena Le Verrier lo persuase scrivendogli. Nettuno fu individuato la sera stessa del giorno in cui Galle ricevette la lettera del francese: il 23 settembre 1846 il nuovo astro errante fu scovato a circa mezzo grado dalla posizione prevista in cielo.23
In proposito gli astronomi americani R.S. Harrington e P. K. Seidelmann (U.S. Naval Observatory) scrivevano nel 1988 che J.G. Galle riuscì nell’impresa (Nettuno fu individuato a 55 minuti d’arco dalla posizione geocentrica prevista da Le Verrier) perché consultò subito la regione celeste sull’Atlante Stellare dell’Accademia di Berlino (la XXI edizione, per la precisione, stampata nel 1845)24. La “stella”25 mancante (non era ancora possibile risolvere Nettuno in un bel disco) era naturalmente un nuovo pianeta: il pianeta mancante responsabile dei residui sul moto di Urano.
Degno di nota il fatto che fra i primi a proporre una massa planetaria mancante all’appello vi fu un religioso: il reverendo T. J. Hussey (1834), «astronomo dilettante»26.
Ma torniamo a Plutone ed alla sua scoperta. Patrick Moore -un celebre astronomo britannico molto amato in Inghilterra per via della sua opera di divulgazione scientifica - nel suo The Guinness Book of Astronomy pone l’accento sul fatto che la massa di Plutone, anche quando combinata con quella della sua luna Caronte, non è in grado di perturbare in maniera apprezzabile il moto dei giganti Urano e Nettuno; sicché – conclude Moore – non è Plutone il pianeta che Lowell stava cercando27.
Nelle righe successive Moore continua sostenendo che probabilmente esiste un altro corpo planetario ad una distanza maggiore. Questa ipotesi fu avanzata – ricorda Moore - da Pickering all’indomani della scoperta di Plutone28, e ribadita a Monaco di Baviera nel 1950 da un altro astronomo: K.H. Schütte, sulla base di studi di afeli cometari.
Degli studi teorici presentati negli anni 1971-1972 dallo scienziato Joseph L. Brady, del Lawrence Livermore National Laboratory, parlerò successivamente in questo capitolo (vedi il paragrafo Anni ’80: le opinioni di P. Maffei e L. Rosino) e nel capitolo III. Ricordo solo che anche Patrick Moore li menziona nel suo saggio, sempre a proposito della possibile esistenza di un corpo transnettuniano (o transplutoniano, possiamo dire oggi) vincolato gravitazionalmente alla nostra stella, e capace di influenzare i pianeti esterni e le comete. Ma quando cominciò la caccia al cosiddetto “Pianeta X”? Fu l’eclettico Percival Lowell ad iniziarla (pare che a lui si debba l’espressione “Pianeta X”, dove la X indica l’incognita per antonomasia) od egli fu preceduto ed ispirato da altri?
ALLE ORIGINI DELLA RICERCA DI UN PIANETA TRANSNETTUNIANO
Ci racconta Moore nel suo saggio che fu lo U.S. Naval Observatory (si tratta sempre dell’istituto di cui ho parlato prima, quello per cui lavorò Christy) ad essere il primo protagonista: nel 1877 David Peck Todd iniziò dall’Osservatorio della Marina americana la prima ricerca astronomica di un pianeta transnettuniano, usando un telescopio riflettore da 66 cm. Sulla base di perturbazioni orbitali riscontrate nel moto di Urano, Todd predì l’esistenza di un grande pianeta di decine di migliaia di km di diametro, e lontano 52 unità astronomiche dal Sole. Agli studi osservativi di D. P. Todd, che durarono dal Novembre 1877 al Marzo 1878 e si conclusero con un esito negativo, seguirono quelli del francese Camille Flammarion (1842-1925), quelli di G. Forbes (che ipotizzò un pianeta di tipo gioviano, ad un centinaio di U.A. e dal periodo di rivoluzione di mille anni), gli studi di T. Grigull di Münster e le speculazioni di Gaillot e di T.J.J. See; quest’ultimi due, rispettivamente in Francia e negli Stati Uniti, erano persuasi dell’esistenza di più corpi transnettuniani.
Passiamo ora in rassegna alcuni autorevoli pareri di addetti ai lavori del campo astronomico; cominciamo con un lavoro saggistico di un astronomo americano del XX secolo pressoché sconosciuto in ambito europeo. Lo introduco ricordando un aneddoto personale: nel 1998, mentre mi trovavo negli Stati Uniti, entrai in una libreria di Fort Lauderdale (Florida) ed acquistai un polveroso testo di astronomia degli anni ’40: The Elements of Astronomy, McGraw-Hill Book Company, Inc. (New York and London). L’autore del testo è l’astronomo Edward Arthur Fath, a quel tempo professore di Astronomia al Carleton College, un’università del Minnesota. Conservo gelosamente ancora oggi il libro da me acquistato. Si tratta della quarta edizione di un volume del 1944, ma pubblicato per la prima volta nel 1926.
Ritornato in patria alcuni mesi dopo, riposi il libro nello scaffale della mia biblioteca, deciso a consultarlo in seguito. Trascorsero alcuni anni finché nel 2006 cominciai a scrivere articoli ed a realizzare interviste in merito alla vexata quaestio del Pianeta X.
In un giorno di primavera del 2007, se non ricordo male, ripresi in mano quel vecchio volume per esaminarlo con attenzione. Quando lessi le pagine dedicate ai confini del Sistema Solare, rimasi di stucco. Infatti al capitolo XIII intitolato «The Major P...