L'illusione di una vita saggia
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L'illusione di una vita saggia

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L'illusione di una vita saggia

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Una incredibile testimonianza dall'interno delle Pubblica Amministrazione, che
racconta anche degli anni di Tangentopoli.
Tutti sono colpevoli, nessuno è innocente

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CAPITOLO SETTIMO

Trascorsero gli anni che mancavano alla fine della legislatura senza tanti scossoni. Praticamente non successe niente di rilevante, a parte gli investimenti pubblici in Ucraina che partirono nel 1998 con grande gioia di tutti gli investitori privati. Naturalmente vennero svolte tutte gare pilotate, capirai se qualcuno si faceva sfuggire la torta. Vennero fatte riunioni su riunioni, coinvolti i soliti funzionari compiacenti che facevano qualunque cosa gli si richiedesse, ma alla fine neanche una briciola sfuggì. Per lavorare nei centri servizi vennero, naturalmente, scelti i soliti amici degli amici. Anche le banche fecero finta di partecipare alla grande avventura, aprendo filiali. Naturalmente, sottobanco, chiesero parecchio in cambio. Parecchio che venne concesso senza problemi di sorta. I giornali ogni giorno erano pieni di notizie che grondavano gioia e soddisfazione per le conquiste all’estero delle imprese locali. La gente venne infinocchiata come sempre e non capì che avrebbe pagato sulla propria pelle quelle aperture all’estero, quella e tante altre che sarebbero venute. Perché un giorno, guardandosi intorno da disoccupati, avrebbero finalmente capito che quella che chiamavano conquista era solo delocalizzazione che portava via il loro lavoro. E avrebbero pianto amaramente, ma come sempre, le lacrime amare arrivano quando è troppo tardi.
Il 16 aprile del 2000 si tennero di nuovo le elezioni e Adriano venne ricandidato. A dire il vero lui voleva andare a fare il ministro, ma dovette ripiegare sulla presidenza. Evidentemente gli amici lo preferivano lì. Fare il presidente, comunque, non è che fosse poi una cosa tanto schifosa. Si tenne pure la delega alle attività produttive. Ad aprile-maggio del 2000, Giulia trascorreva le giornate come tutti gli altri e cioè commentando i nuovi arrivati. A ogni nuova legislatura i dipendenti si formulavano lo stesso eterno quesito: “Riusciranno a far peggio di quelli che c’erano prima–”. E ogni volta, immancabilmente, dopo un po’ di tempo dovevano convenire che sì, stavano facendo peggio e che quella domanda era fatta giusto per essere fatta, perché lo sapevano benissimo che a ogni tornata le cose peggioravano.
Come a ogni nuova legislatura,poi, c’era il solito rimescolamento di carte, il solito tourbillon di dirigenti, di addetti alle segretarie, di autisti, di consulenti. Come sempre, alcuni zombie (pochi) rientravano nel giro, altri (diversi) diventavano zombie. Così, come a ogni nuova legislatura, essendo sempre maggiore il numero di partiti che si imbarcavano, dovevano per forza aumentare gli enti, gli incarichi. Le invenzioni erano infinite. Alcune precedenti legislazioni, era stato creato un ente di sviluppo territoriale, un carrozzone senza fine, che i dipendenti avevano soprannominato “il cimitero degli elefanti”, perché vi finivano tutti i politici trombati. Lì venivano dislocati i disperati, quelli che proprio, per quanti sforzi si facessero, non avevano trovato una dislocazione minima, piccina, con un minimo di dignità. Quelli che erano dipendenti pubblici finivano lì a non far niente e a continuare a far politica come se niente fosse, quelli che non erano nemmeno quello, avevano un incarichetto ridicolo a tempo. Tutti contenti, minoranza e opposizione. Andava bene a tutti, tutti attingevano e nessuno diceva niente, al grido di “nessuno torna a casa–. Era, insomma, la Svizzera degli enti inventati. I costi, naturalmente, erano a spese dello stato. Tutto, insomma, come sempre, solo che a ogni nuova legislatura, il carrozzone cresceva e non poco. Richelieu, in tutto questo, aveva in mente progetti ancor più ambiziosi… E di guadagno. La morsa che aveva sulla regione era sempre più ferrea, tutti rispondevano a lui, tutti quelli che contavano, naturalmente. Adriano alla fine si era rassegnato, anzi, aveva capito che schioccare le dita e aver tutto pronto era molto meglio che rimboccarsi le maniche. I nuovi assessori o arrivavano che già sapevano a chi chiedere o venivano subito messi in riga. Insomma, a Richelieu il posto di capo di gabinetto andava stretto, voleva diventare direttore generale, posto che a dire il vero non esisteva. Ma dov’era il problema– Del resto la burocrazia è molto brava a partorire se stessa. Un po’ di leggi e leggine per riorganizzare il tutto, un po’ di casino per rimettere in moto la macchina, tanto tempo perso, soldi, tanti, spesi, ma che vuoi che sia– Richelieu però sapeva che bisognava inventarsi tutta una ristrutturazione che avrebbe fatto apparire le sue smodate ambizioni un qualcosa di utile per la collettività. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta a farla passare nemmeno lui. Per fare quel lavoretto di taglio e cucito la persona ideale era un suo amico sempre pronto, un sociologo, Almerino Dionigi, uno dei tanti che imperversavano nelle pubbliche amministrazioni, un mostro nell’inventarsi l’aria fritta, nel creare definizioni a effetto. Lui sarebbe stato bravissimo nel dare una parvenza di indispensabilità all’organizzazione che aveva in mente. Poi ci avrebbe pensato lui a lavorarsi i politici, l’importante era proporre qualcosa di credibile da rifilare ai cittadini. Per questo, esattamente una settimana dopo le elezioni, perché ’ste cose andavano fatte prima che i politici capissero dove fossero finiti, lo invitò a cena, visto che anche lui non si fidava proprio della “sanità” della sua stanza.
Si videro in un ristorantino fuori mano quasi come due amanti clandestini.
– Allora… – disse Almerino Dionigi appena Richelieu si sedette – cosa hai da dirmi di così urgente–
Richelieu guardò pensieroso il suo amico sociologo. Invidiò come sempre il suo bell’aspetto asciutto, longilineo. Aveva una faccia da puttaniere un po’ sadico, ma alle donne piaceva quel suo aspetto, lo sapeva. Lo sapeva perfettamente anche lui, per quello era sempre così sadico nel gestire le sue storie. Solo che lui non poteva permettersi la faccia da puttaniere. E tanto meno da sadico. Almerino era sui cinquanta, tutti parecchio vissuti. Aveva cominciato come supplente di matematica, poi come docente di analisi di bilancio, perché in quello strano paese che era l’Italia, i laureati in sociologia potevano insegnare praticamente tutto. Insegnare e non solo. Li trovavi nei posti più impensati, anche a dirigere uffici come la ragioneria, come l’agricoltura, dei tuttologi insomma. Questo derivava dal fatto che, una volta, un ministro che aveva una stretta parente laureata in sociologia aveva equiparato quella laurea praticamente a tutto, mancava solo che potesse eseguire interventi chirurgici. La faccenda però faceva comodo a tutti ed era rimasta così. Almerino comunque, maestro nel vendere fumo, alla fine si era messo in proprio. Un giorno aveva scoperto che vendere fumo ai livelli che raggiungeva lui è un’arte rara e si era aperto una società. Venditori di fumo ne trovi quanti ne vuoi, si diceva, ma trasformare il fumo in opera d’arte è dote di pochi. E ci aveva preso, visto quanto lavoro e quanti soldi faceva con la sua società.
– Ho bisogno della tua infinita arte del niente – rispose Richelieu smettendo le sue riflessioni.
– La mia arte però ti fa comodo – rispose Almerino squadrando il culo di una ragazza che passava.
– Il fumo elevato a scienza – quasi rise Richelieu – ma la sociologia è questo. Ti capita di parlare per ore con un sociologo e non capire che cazzo vuole. Per non dire delle facoltà di sociologia… Quanto ti è costata la laurea? –
Si sfottevano sempre così. Richelieu disprezzava i sociologi, ma stimava l’amico e sapeva che solo da lui sarebbe venuto fuori un lavoro perfetto. Un po’ di fumo, un po’ di inglese, che ultimamente salvava tanto, un po’ di termini altisonanti e vuoti… Tanta, tanta retorica, tanti stravolgimenti, tutto per mascherare quello che effettivamente si voleva: promozioni e guadagni. Perché tutta quella roba poteva passare solo concedendo qualcosa a tutti quelli che contavano. Tutto, come sempre, a spese dei cittadini.
– Devi farmi un grande lavoro di ristrutturazione amministrativa dell’ente. Rivedere le strutture, le gerarchie, tutto. Voglio una struttura altamente piramidale e gerarchizzata con la mia persona a capo di tutta la baracca. Il tutto, naturalmente, deve apparire come un grande beneficio per la collettività. Una presa per il culo tipo quella delle aziende ospedaliere, dove vogliono dare a intendere alla gente che davvero si conducano gli ospedali come aziende.
– Ma anche adesso sei il capo di tutta la baracca – disse perplesso Almerino – comunque sì, gran bella presa per il culo quella delle aziende ospedaliere, bella mente quella che l’ha tirata fuori.
– Sì, ma non funzionalmente. Se qualche stronzo non vuol far quello che dico, non ho nessun mezzo legale per costringerlo o per togliergli i procedimenti. Con la riforma che penso io, invece, io posso avocare tutto.
– E come dai alla mia società questo studio? – chiese bevendo un po’ dell’acqua che il cameriere aveva portato.
– E su, non fare domande inutili – rispose secco Richelieu. Se c’era una cosa che non sopportava era l’ovvio. Chiaro che Almerino ci avrebbe guadagnato. Di tutto quel lavoro, il problema assegnazione gara e via dicendo, era proprio l’ultimo dei suoi pensieri.
– Bene – disse Almerino pacato – comincio a buttar giù qualcosa. Tu intanto lavora alla gara.
– Non ti preoccupare, faremo un cappottino giusto per te. Lo sai che siamo una perfetta sartoria su misura.
Giusto in quei giorni Giulia si era ritrovata con un nuovo compagno di stanza, Claudio Allegri, uno che era riuscito, dopo anni di tentativi, a farsi trasferire dal ministero. Il collega che aveva prima si era fatto trasferire, perché si sentiva chiuso da altri funzionari. E fra questi funzionari c’era probabilmente Giulia, che tutti continuavano a vedere come “protetta”. Claudio Allegri, finalmente, non doveva più vivere a Roma e questo per lui era un sollievo enorme. “Andare su e giù a cinquanta anni, è una cosa che non riesco più a fare–, diceva, “sono sfinito–. In effetti, Claudio Allegri, dimostrava molto di più dei suoi cinquant’anni. Era ancora tonico, magro, capelli neri con qualche spruzzata di grigio sulle tempie, che fa sempre uomo interessante, ma si vedeva che era stanco. Si vedeva dal suo muoversi lento, dal suo modo di stiracchiarsi continuamente, come se volesse togliere dai muscoli anni di torpore di viaggi in treno, magari rannicchiato per cercare di dormire un po’.
– Chi ti ha raccomandato? – gli aveva chiesto tranquilla Giulia. Ormai il suo cervello aveva un difetto: ragionava sempre in termini di favori, raccomandazioni, ricatti… Ma non era un difetto, era consapevolezza.
– I preti – aveva risposto molto pacatamente. In lui tutto era pacato e a Giulia sembrava un’enorme stranezza. Se noi qui, dopo un mese diventiamo schizofrenici frustrati, uno che sta al ministero anni, dovrebbe diventare pazzo. Invece era sempre molto posato, tranquillo. Rispondeva sempre garbatamente e a voce bassa.
– E non potevi muoverli prima? – aveva domandato lei sorpresa, visto che uno se ha una scartina di sostegno la usa, mica se la fa sfuggire per anni. Poi i preti erano una bella carta, da sempre considerata una delle migliori. C’era chi li considerava un vero e proprio ufficio di collocamento. Senza manco esagerare, poi.
– Mia figlia ha sposato il nipote di un cardinale solo adesso – aveva risposto sorridendo lui.
– Come fai ad essere sempre così pacato, equilibrato? – gli aveva chiesto – Ne avrai viste di tutti i colori!
– Viste ne ho viste. E molte sulla mia pelle – aveva risposto lui stiracchiandosi ancora una volta, ma stavolta a confermare che non dava peso ai casini – moltiplica per cento quello che succede qui e avrai il quadro dei ministeri.
– Non ti hanno molto turbato, però – aveva detto Giulia ammirata. Trovare uno che ne passa cento e rimane così pacato, era da ammirare, anzi, da studiare.
– Mi turbavano e molto. Ero più giovane e idealista. Era tutta una battaglia, una frustrazione. Poi un giorno ho capito che se volevo sopravvivere dovevo darmi un equilibrio nuovo. E me lo son dato, anche per i miei colleghi di stanza che trascorrevano la giornata a complottare e a non far nulla. Mi son messo a lavorare e a far finta di non veder niente. Mandavo avanti l’ufficio da solo. Praticamente ero come quei bambini che hanno dei genitori scellerati e che per sopravvivere si creano equilibrio per loro e per se stessi. Praticamente diventano i genitori dei genitori. Ecco, io sono diventato il genitore dei miei colleghi.
E Giulia stava proprio riflettendo su come la gente si inventi i meccanismi più strani per sopravvivere, come quel funzionario che non parlava con i colleghi se non di lavoro, che non voleva sapere niente di niente di nessuno, tantomeno i pettegolezzi, perché aveva individuato solo così il meccanismo di sopravvivenza, quando era passata per le stanze la segretaria del capo per la “chiamata a raccolta”. La “chiamata a raccolta” era un sistema molto in uso dentro la regione, ma anche, probabilmente, in altre pubbliche amministrazioni. Succedeva che, quando arrivava la televisione a far le riprese di un convegno, un seminario o altro, i dipendenti dovevano riversarsi in massa nella sala dove si teneva l’iniziativa, per far numero. Ormai ’ste cazzo di chiamate cominciavano a essere numerose, perché tutti i politici volevano sempre apparire, far vedere che facevano, che muovevano. Perché fra le altre cose, oltre a far finta di lavorare, bisognava far… vedere. Quindi è chiaro che di gente ce ne fosse poca. Si ovviava con i dipendenti che tanto, stavano già lì. I dipendenti andavano volentieri, perché finita la solfa del convegno, comunque, si mangiava gratis. Certi si portavano via anche il cartoccio per la cena, dimostrando grande propensione per il risparmio casalingo.
Anche Giulia andava, per il pranzo certo, ma anche per curiosare. E per calcolare quanto costava a partecipante quel convegno. Sempre troppo, per quel che serviva.
– Forza, forza – diceva la segretaria affannata passando per le stanze – c’è poco tempo, sta per arrivare la televisione.
L’orario di arrivo della televisione era l’elemento centrale di tutto il convegno, che mai sarebbe potuto iniziare senza sapere a che ora arrivasse ’sta cazzo di tv. La segretaria, fra i suoi compiti, oltre che la chiamata a raccolta, aveva anche quello di sapere sempre a che ora arrivava la tv. E così, anche stavolta, Giulia si immerse nel fiume chiacchierante delle persone che uscivano dalle stanze e si avviavano verso la sala convegni.
“Sembriamo i bambini che prima di andare al mare con la gita della chiesa, devono andare alla messa,– si diceva facendo le scale. In effetti il meccanismo era quello, lo zuccherino come premio.
Il convegno era la solita noia trita e ritrita di politici che dicevano le solite quattro stronzate ai soliti quattro stronzi che li frequentavano per farsi vedere e per sperare di scambiar quattro parole con l’assessore di turno. Troppe volte Giulia aveva pensato che quelle chiacchiere potevano andar bene sia per un convegno di psichiatria che per uno sul turismo. Magari, però, quello di psichiatria a qualcuno poteva essere utile. Appena seduta sulla bella poltroncina, cominciò a squadrare la gente che affollava la sala. A parte i dipendenti chiamati a riempire, c’erano i soliti addetti ai lavori, e come sempre, neanche un imprenditore. Come al solito si parlavano fra loro del mestiere. Gli imprenditori, visto che il convegno era stato organizzato per loro, avrebbero dovuto essere in tanti, invece, niente, manco uno. Il fatto era che avevano capito già da un pezzo che quei convegni erano fatti per far fare la sfilatina a politici, universitari e consulenti e quindi se ne stavano a casa loro a far cose più serie.
“Tanti soldi buttati via,– pensava Giulia annusando l’aria che cominciava a profumare di pizzette calde. Come sempre, visto che ogni convegno finiva a pappare. Arrivò la televisione, filmò un po’ qua e un po’ là, intervistò il presidente tutto gongolante e poi se ne andò. Dopo poco,ecco i saluti conclusivi, l’ applauso e tutto era finito. E come sempre partì l’assalto al buffet. Sbracciando come gli altri, Giulia si fiondò al tavolo dei vini. Aveva adocchiato un bianco che sembrava favoloso a giudicar dalla bottiglia e non se lo voleva far scappare.
– Ciao Giulia – sentì una voce maschile alle sue spalle.
Giulia, nel sentirsi chiamare, si girò di scatto verso la voce e si trovò di fronte con un piatto pieno in mano, lo zombie col carrello, quello che girava per i piani portandosi dietro l’ufficio, visto che oltre a non aver niente da fare, non aveva nemmeno una stanza.
– Ciao – gli rispose anche sorpresa, visto che sembrava tutto pimpante, allegro. Di solito era tutto un grugnito. E ci credo, visto come lo avevano conciato!
– Sai – le disse cercando di mangiare e tenere in equilibrio un piatto strapieno – stavolta mi sistemo.
– In che senso ti sistemi? – gli chiese meravigliata. Per quanto ne sapeva lei di lui, a parte un piccolo lavoro quando era a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Gli Antefatti
  6. Capitolo Primo
  7. Capitolo Secondo
  8. Capitolo Terzo
  9. Capitolo Quarto
  10. Capitolo Quinto
  11. Capitolo Sesto
  12. Capitolo Settimo
  13. Capitolo Ottavo
  14. Capitolo Nono
  15. I Postfatti