Anno Domini 894
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Informazioni sul libro

Negli anni più bui e violenti del medioevo una donna strappata dai suoi affetti diventa contessa riuscendo a prevalere su oltraggi e violenze. La sua vita si intreccia, insieme alle tempestose avventure di suo figlio, con le torbide vicende di un'epoca tormentata, dove lei stessa dovrà interpretare un ruolo chiave nella storia di un paese lacerato dai conflitti feudali.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788891140722
Argomento
Storia
Capitolo terzo
Moirano
Le ultime anime della notte cercavano un rifugio dalla prima luce del mattino; alcune pigramente, altre più svelte, quasi impaurite dal chiarore lattiginoso che sembrava rendere ancora più buie le ombre del bosco ammantato di una nebbia bassa e fradicia.
Nella guazza gli zoccoli consunti di Ildebrando schiantavano i ramoscelli bassi della sterpaglia dando il segnale d’inizio ad un concerto di trilli, fischi e gorgheggi: i rumori della foresta nel primo albeggiare di un giorno al finire dell’inverno. I piedi di Moirano, fasciati da calzari rabberciati, si muovevano più silenziosi, come l’ultimo animale notturno prima che il cielo si tingesse di viola, di rosso, di rosa e poi lo sfavillio del sole che avrebbe asciugato l’umidità persistente delle tenebre.
I due giovani lavoravano vicini senza intralciarsi; le dita dure di gelo spezzavano con facilità rami anche grandi e robusti che raccoglievano a fascine nelle tuniche lacere, sollevate dalle caviglie verso il petto per farne una sacca provvisoria, ma capace.
Faceva ancora freddo, forse la primavera sarebbe tardata, e la legna, per quanta ce ne fosse, non era mai abbastanza per scaldare le misere casupole abbarbicate su quei passi maledetti degli Appennini. Era un lavoro che bisognava fare presto, prima di tutte le altre incombenze della giornata e alle ragazze toccava alzarsi ancora prima del buio per andare a fare un carico giornaliero di ramaglie; ai ceppi pesanti e poderosi, che si consumavano lentamente nei focolari, avrebbero pensato gli uomini.
L’erba fradicia aveva inzaccherato ad entrambi le gambe fino alle ginocchia e la lurida tela, zuppa dallo strusciare sulla terra umida, era diventata pesante.
Era ora di smettere prima che facesse giorno.
Una grossa felce dagli steli resi duri dalla linfa ghiacciata schiaffeggiò le gambe di Moirano lasciandogli un segno rosso a cui lui nemmeno badò; a differenza di Ildebrando, non faceva caso nemmeno alle ortiche e neppure alle spine. Muoversi nella foresta gli era naturale come respirare. Negli anni della sua infanzia il bosco era stato il suo compagno di giochi, i suoi libri di scuola, la sua maestra di vita. Solo per questa sua abilità erano riusciti ad arrivare fin lì senza un tratturo, un sentiero qualsiasi che facesse loro da strada tra l’intrico degli alberi e la barriera pressoché impenetrabile del sottobosco. Per questo avevano affidato a loro due la missione.
“Preferirei avere la mia spada, anziché essere camuffato come un ilota.” grugnì Ildebrando.
“Abbassa la voce. Se riusciamo a vedere com’è fortificato il passo senza essere scoperti possiamo farcela a tornare indietro interi.” sussurrò Moirano.
“Potremmo anche abbandonare quei bastardi di teutonici e passare alle truppe di Adalberto.”
“Non credo che gli uomini del marchese riserverebbero buona accoglienza a due spie.”
“Questo travestimento fa ridere. Sono le femmine a portare a casa le ramaglie da ardere, non i maschi.”
“Ricordati la parte. Se ci scoprono, le nostre donne sono scappate per paura dei soldati, perciò tocca a noi fare legna.”
“Sarà la volta che ci taglieranno la gola per farci dire dove si sono nascoste e andare a spassarsela. Sta a vedere che mi tocca crepare per difendere l’onore di una sorella che non ho.” e scoppiò in una risata che iniziò roca, ma poi subito si spezzò diventando stridula.
Il colpo che Moirano gli assestò nella bocca dello stomaco lo lasciò senza fiato, ma avrebbe reagito con pari violenza se la mano dell’amico non l’avesse artigliato alla spalla inducendolo a fermarsi: negli occhi un muto segnale di allarme. Poi il braccio si mosse adagio e l’indice indicò una rupe più avanti, quindi il dito si portò di traverso alla bocca nel convenzionale segno del silenzio ed infine la mano con uno sbrigativo gesto eloquente lo invitò a seguirlo senza far rumore.
L’albero era spaccato in due: una parte svettava ancora orgogliosa verso il cielo, l’altra, marcia e ormai quasi corrosa, si era abbattuta sul dirupo friabile in cui era stata scavata una nicchia, quasi completamente nascosta. Solo una stretta fessura ricoperta dai rovi ne poteva segnalare la presenza ad un occhio esperto, tanto che Ildebrando, pur essendo ad un passo di distanza dal nascondiglio, non l’aveva ancora individuato.
Moirano, invece, si avvide subito che l’erba all’ingresso dell’antro era stata calpestata e le ramaglie che lo ostruivano erano posticce, messe a bella posta per ingannare chiunque non fosse pratico di quella foresta.
L’indice ancora una volta silenziosamente indicò il rifugio.
“Come hai fatto?” mormorò Ildebrando a voce talmente bassa che neppure il suo compagno udì le parole e rispose solo avendo intuito il senso della domanda.
“L’odore; non di bestia, di uomo.” e, convinto che chi si era rintanato in un buco così piccolo non potesse rappresentare un pericolo, con un calcio tirò via i rovi che celavano la fenditura.
Da dentro la tana due occhi sbarrati dalla paura.
“Te ne stai nascosto come un coniglio. Ma che razza di soldato sei?”
Il bambino, valutando al volo che i due, pur forestieri, non erano uomini d’armi ma poveracci come lui, visti i cenci che avevano indosso, mise di fuori la testa balbettando un linguaggio rozzo da montanari.
“Non sono un soldato io. Li odio quelli.”
“Qui intorno ce ne sono?”
“È pieno.”
“Perché ti nascondevi?”
“Il capitano, quando di notte viene a trovare mia sorella, mi manda via. Non vuole nessuno.”
“Nemmeno dei suoi?”
La testa incrostata di terriccio ciondolò in un diniego imbronciato ma perentorio.
“Dove abiti?”
Con un cenno della testa il piccolo indicò oltre il dirupo.
“Tuo padre?” interloquì per la prima vola Ildebrando.
“Il capo gli ha permesso di portare via le bestie, altrimenti i soldati se le prendevano loro. Mia sorella gli piace.”
“Le vuoi due belle fascine di legna già pronte?”
Al tacito consenso del bambino indicò con un cenno dietro le loro spalle.
“Quando sarà giorno portatele a casa. Adesso nasconditi di nuovo.” e con una manata lo ricacciò nella cavità.
“Andiamo, abbiamo poco tempo.” sibilò al suo compagno.
Lo stambugio era vicino. Superata la balza, pochi passi tra i cespugli, una breve corsa sul prato scoperto come ombre furtive di spettri vendicativi e arrivarono a ridosso della capanna. Poco sotto, dove le pareti dirupate della gola si aprivano in un più ampio pianoro, si sentivano i rumori dell’accampamento non lontano: nitriti di cavalli, voci ancora assonnate, stridio di ferraglia.
“Lo ammazziamo?”
“Dopo che avrà parlato per forza.”
“E la ragazza?”
“Speriamo che non si metta ad urlare.” in ogni caso Ildebrando raccattò un bastone nodoso.
Fuori dall’uscio solo la forma scura di un bel cavallo da guerra.
“Magari potessimo prenderlo.”
“Non ce la faremmo a scappare. Dobbiamo ritornare attraverso i boschi.”
Ildebrando annuì e prese a frugarsi sotto la tunica. Moirano aveva già in mano uno stiletto acuminato che aveva estratto da dietro la schiena.
Lo scricchiolio della porta parve il fragore di un tuono. Dentro, il ronfare pesante degli ultimi momenti di sonno prima del risveglio.
I ragazzi si infilarono nella fessura come due serpi striscianti.
Sul pagliericcio di frasche due corpi addormentati si proteggevano l’un l’altro dal rigore della stagione.
Una mano sulle labbra della fanciulla, che istintivamente lanciò un urlo subito soffocato sul nascere dalla stretta sulla bocca, e il bastone calò impietoso imponendole il silenzio con un colpo sordo, mentre una lama aguzza lacerava la pelle dell’uomo conficcandosi appena appena nella gola per non sgozzarlo.
L’uomo d’armi capì all’istante la situazione e non mosse un muscolo, solo con voce strozzata mormorò una bestemmia aggiungendo l’unica minaccia di cui poteva disporre.
“I miei uomini, sono qui intorno.”
Per tutta risposta la punta di un secondo pugnale gli scalfì il ventre nudo pronta all’affondo.
“Quanti ne hai là sotto?”
“Tanti.”
Il ferro che gli premeva contro l’addome penetrò più a fondo e il capitano sentì il sangue scorrergli giù lungo l’inguine. Era avvezzo alle ferite e sapeva che, finché la lama non avesse trafitto i visceri e fosse rimasta piantata solo nelle fasce muscolari, non avrebbe corso pericolo di vita.
I suoi aggressori erano due ragazzi, ma non doveva farsi ingannare dall’età. Avevano entrambi facce da Caini. La ragazza vicino a lui non era morta, respirava ancora, ma uno squarcio sulla fronte apriva un solco sanguigno nel livido nerastro che si andava velocemente diffondendo sul volto.
Dei due, il coltello alla gola era il più pericoloso; sarebbe bastato un gesto brusco o maldestro e avrebbe concluso i suoi giorni scannato come un porco.
“Tanti quanti?” ringhiò il giovane e il dolore al ventre divenne più acuto.
“Solo qui c’è più di una compagnia. Tutti uomini di mestiere e bene armati.”
“Quali passi liberi per attraversare gli Appennini?”
“Nessuno. Sono tutti presidiati in forze e parecchi plotoni battono i boschi. Nelle valli poi ci sono squadroni e squadroni di cavalieri.”
“Balle. Adalberto da Toscana non ha tutti questi uomini. Nemmeno con l’aiuto di suo fratello Bonifacio è in grado di mettere insieme tanti armati come dici tu.” e sul collo si disegnò un taglio che impiastricciò la mano di Moirano.
Negli occhi dell’uomo ormai era dilagato il terrore e si rattrappì sul pagliericcio rifugiandosi contro il corpo immoto della femmina che giaceva scomposto. Per un attimo, solo per un istante fu libero dal morso delle due lame, ma subito queste lo inseguirono. Questa volta l’estremità affilata dello stilo infierì poco sotto lo sterno e l’uomo non riuscì più a reggere: un getto d’orina gli colò giù dalle cosce.
“Vi scongiuro. Dirò tutto.”
L’altra punta premeva brutale sotto il mento.
“I marchesi di Toscana non sono soli.” continuò tutto d’un fiato “Quando sono stati arrestati a Pavia hanno giurato fedeltà all’imperatore solo per poter fuggire e organizzare la resistenza sugli Appennini allo scopo di proteggere la ritirata di Guido, che si è rifugiato nel suo ducato a Spoleto. Come loro anche i conti Ildebrando e Gerardo hanno prestato giuramento ad Arnolfo, ma in segreto erano alleati con il mio signore. Appena liberi ci hanno raggiunto con tutti i loro eserciti.”
Il sangue e il piscio avevano formato una pozza ripugnante nel giaciglio in cui il capitano si sprofondava per trovare scampo. Inutilmente allungò un braccio alla ricerca della sua spada, il ge...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Contesto storico degli avvenimenti
  5. Capitolo primo “Aquilio”
  6. Capitolo secondo “Maria”
  7. Capitolo terzo “Moirano”
  8. Note su Marozia
  9. Indice