Viaggio nella costellazione del cancro
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Viaggio nella costellazione del cancro

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Viaggio nella costellazione del cancro

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Medicina narrativa e riflessioni sulla parola "cancro". Cancro, un termine polisemico, una costellazione di significati disparati: inquietanti, tristi e misteriosi ma anche belli, lieti, affascinanti e nel Cancro-costellazione e nel Cancro-segno zodiacale e persino nel cancro-malattia. Il cancro, causa di tante morti, può essere pure una seconda opportunità di vita.Cancro è termine usato anche come metafora del male e carico, in questa accezione, solo di significati nefandi, scellerati e spregevoli: il cancro della politica, il cancro del malaffare, il cancro della mafia. Un orribile cancro sociale contro il quale pare non esistere terapia e che condiziona anche la vita del malato oncologico.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788891179982
La vita sotto il segno
del cancro tra
nebulose e astri
image
Un po’ per volta, passati i giorni della chirurgia, della chemioterapia o di altre terapie, se Dio vuole, ti riaffacci alla vita.
Ti senti rinato. Ogni giorno di più riacquisti forze e sicurezza. E quella sindrome da affaticamento cronico, così ben descritta e codificata dalla Organizzazione mondiale della sanità, ti pare, anche, un’esagerazione, o l’interesse di qualcuno a legare il proprio nome a qualcosa.
Ma non sei come prima. Sei molto diverso da prima. Sei ora farfalla, prima eri crisalide. Nei lunghi giorni di immobilità, come per la farfalla, ti trasformi e ti scopri, piacevolmente, un’altra persona. E, simile alla farfalla, pensi a un’esistenza breve e colorata e riesci anche a sognare una vita ch’è un arcobaleno ricco di colori che si staglia netto contro il sole e maestoso e bello nell’azzurro del cielo.
Ti chiedi quale sarà il tuo destino: sei, davvero, una stella cadente destinata a finire in un lampo, nella costellazione del cancro? Forse. È possibile. Ma non lo sai.
O sei una cometa lucente, e il tuo viaggio continua, ma lontano da Praesepe? E neppure questo sai. Non hai modo di sapere se sei guarito o no. La conoscenza si ferma, come accecata e annaspante anche per tale aspetto, in questa nebulosa del cancro.
Istruzione, conoscenza, esperienza... Quanto più conosci e meglio sai tanto più avverti i limiti del tuo sapere.
Il sapere è potere e ti fa tanto più grande quanto più sei disposto a tenere conto dei tuoi limiti, quanto più sai essere piccolo uomo di fronte alla vastità dello scibile umano e del creato.
Più sai e più ti accorgi di quanto non sai. Più sai e anche solo di ciò che sai percepisci la relatività e il distacco dal reale. Scali con difficoltà sulla collina della conoscenza e davanti a te si spalanca la vastità del sapere umano, con maestose catene montuose all’orizzonte. Lontane, sempre più alte e di un grigio sempre più sfumato e più chiaro. E ti paiono irraggiungibili. E non puoi vedere oltre.
Per non soccombere, e per essere onesto con te stesso e con gli altri, non c’è che una soluzione: devi accettare il tuo essere un granello di sabbia, o anche meno, nell’universo sconfinato.
«La conoscenza scientifica», ricorda Einstein, «non gode di un accesso immediato alla realtà di cui parla, non è come aprire gli occhi e constatare che si è fatto giorno». E, applicato al nostro sapere sul cancro, ti accorgi di quanto siamo ancora lontani dal possedere la chiave di accesso ai tanti misteri di una realtà terribile che vediamo, che tocchiamo, di cui ascoltiamo e apprendiamo ogni giorno e che ogni giorno distrugge tante vite, ma che non conosciamo pienamente.
Il cancro ti cresce dentro, infatti, anche per anni, e senza che tu lo sappia. Ti stravolge la vita e lo combatti, soffrendo; anche questo fa parte della vita, anche se componente crudele. Un altro dei suoi aspetti disumani, però, è quello legato, come già accennato, alla relatività del concetto di guarigione e, conseguentemente, al dubbio non sul domani, ma già sull’oggi di malato oncologico, e spesso non puoi sapere se presunto o reale.
Nessun esame, nessuno strumento, attualmente, una volta trattato il cancro, ti può dire se sei realmente guarito, se sei di nuovo quello che eri prima, prima che la tua prima cellula si trasformasse in cancro.
Nessuno può affermare se la tua storia di cancro è stata solo una triste parentesi e se ti puoi, quindi, riappropriare pienamente della tua vita, non solo in ordine al presente, ma anche al futuro, pure quello ragionevolmente più lontano.
Nessun esame e nessuna apparecchiatura ti possono consentire di guardare serenamente in avanti e di godere dei tuoi affetti senza chiederti, con una certa pena, per quanto tempo ancora lo potrai fare.
E, dopo una vita insieme con chi ha condiviso, con amore incondizionato, la tua esistenza - e con trasporto e amore immenso e tenerezza infinita penso a mia moglie, a Patrizia - ti chiedi, con pena, quale sarà la sua vita ...dopo. A mia moglie auguro, e per lei ne prego, una vita ancora più serena dei nostri anni più sereni vissuti insieme, e ancora più ricca degli affetti più cari. Ma non posso sapere, e mi fa male.
Vorresti certezze quasi assolute; non può convincere, specie il malato esperto, la conoscenza pur sempre limitata degli specialisti più capaci, ma nella costellazione del cancro, con le sue tante nebulose, lo sai, certezze nessuno te ne può dare.
Anche se realmente guarito resti, quindi, un malato oncologico, con tutto ciò che ne consegue: dubbi, incertezze, controlli, costi economici, burocrazia, conseguenze sociali, lavaggio del port, se ce l’hai, ogni mese, e indagini più o meno invasive, ogni tre mesi, ogni sei mesi, ogni anno, con dolore fisico, con l’oppressione e l’apprensione per ogni scadenza, e anche, talora, con risvolti psicologici negativi e rilevanti.
E, in virtù di quanto detto, dopo l’intervento chirurgico, forse, non hai bisogno di farmaci tossici e intanto li assumi, né ti occorrono controlli, anche invasivi, ma intanto li fai; e sei geloso del tuo port, anche se ne avverti continuamente la presenza, anche se perennemente ti dà fastidio. Qualcuno ti consiglia di levarlo. E se occorre ancora? E ho deciso di tenerlo.
È paradossale, insisto, che la scienza non sia ancora in grado di accertare, da subito, cessato il trattamento, la guarigione dal cancro. E voglio ricordarlo a me per primo, perché il tarlo del dubbio si attenui, e lo ripeto in modo chiaro, soprattutto, agli altri. Ma il relativismo prognostico del cancro lo devi conoscere bene, oltre che per spingerti a una maggiore vigilanza, anche per assimilarlo, per elaborarlo, per accettarlo e per convivere, così, più serenamente con i tuoi pensieri. Forse ne sei anche guarito, anche se non lo sai con certezza. E, fino a prova contraria, devi sperarlo.
Anni fa, ai fini di un giudizio di guarigione, si considerava un criterio indiretto, quello temporale. Dopo cinque anni dall’inizio del trattamento, in assenza di ripresa della malattia, ti era concesso di considerarti guarito. Ma forse non lo eri. E il cancro, infatti, talora o spesso si ripresentava!
La clinica, purtroppo, ha smentito questo criterio di guarigione e ora, superata la soglia fatidica dei 5 anni ti attaccano addosso l’etichetta di «long survivor». Diventi un «sopravvissuto a lungo» o «lungo sopravvivente», entrambe bruttissime traduzioni dall’inglese.
In questa sopravvivenza provi a riassaporare la vita a piccoli, piccolissimi bocconi, che rigiri mille volte tra lingua e palato, senza masticarli, per prolungarne il gusto il più a lungo possibile, prima di ingoiarli.
La vita, sì, ti ci rituffi, o ci provi almeno a riappropriarti della tua quotidianità, ma un tarlo è sempre lì, che ti scava dentro gallerie d’incertezza, e lo senti, quasi, nel suo rosicchiare. E il tarlo nella mente può già essere cancro, di nuovo, che ti minaccia silenziosamente, come prima. Ora solo cellule, forse, e non individuabili, ma che potrebbero crescere silenziose e domani essere una massa, un’altra, e non stai tranquillo.
Ma non c’è alternativa: con il tuo tarlo e le tue incertezze, ma anche nella scoperta della gioia di aprire gli occhi a ogni nuovo giorno, ti rialzi e vai avanti, seguendo il tuo cuore; tutto il resto non conta, o è secondario, o deve diventarlo.
Il tempo ora ti appare limitato, e forse non lo è; ma, guarito o non guarito, vivi di essenziale. E non può essere diversamente quando sei un «sopravvivente». Non un «sopravvissuto», ché significherebbe che l’hai scampata, che ce l’hai fatta, ed è termine che i più usano dopo un lasso di anni più ampio.
Credo, però, che non ti puoi mai considerare un sopravvissuto al cancro per davvero! Lo si potrà dire di te, di noi, con certezza e per assurdo, solo quando saremo morti per un’altra causa.
Sopravvissuto è un termine, parlando di cancro invasivo, che va adoperato, a mio avviso, in pochissime occasioni o, sotto il profilo psicologico, quasi cancellato.
Si sopravvive, infatti, a un terremoto, si sopravvive a uno tsunami, si sopravvive a una slavina, si sopravvive a un uragano, ma dopo il terremoto, lo tsunami, la slavina, l’uragano hai la stessa aspettativa di vita che avevi prima di quel tragico evento, la stessa aspettativa di vita degli altri.
Dopo il cancro invasivo, e sottolineo questo qualificativo, non hai le stesse possibilità di vita di prima, non sei come prima, non sei come gli altri. Anche se sei realmente guarito dal cancro sotto il profilo organico, infatti, è come se non lo fossi fino a che non ti sarai scordato completamente della tua storia di cancro.
Ai nostri giorni, in Italia, siamo circa tre milioni di malati oncologici, sopravviventi al cancro o con il cancro o sopravvissuti al cancro. Tra questi ultimi, ovvero i «cancer survivors», si distinguono i «long survivors», ovvero quelli che dopo il termine di 5 anni dalla cessazione di ogni specifica terapia non presentano sintomi correlabili a ripresa neoplastica, e i malati «cronicizzati», ovvero persone che hanno avuto una ripresa del cancro e che sopravvivono.
La condizione dei sopravviventi e dei lungo-sopravviventi al cancro non è delle più semplici, tarlo dell’animo a parte. È, infatti, una condizione caratterizzata da tante sofferenze, ma che si sopportano se non c’è dolore. Il dolore lo temi e ne sei sopraffatto prima ancora che ti uccida. Ecco perché è importante che il dolore venga combattuto nella maniera più efficace.
«Chiunque può sopportare un dolore tranne chi ce l’ha» osservava, con un certo sarcasmo, William Shakespeare.
Nella vita riesci, più o meno facilmente, a essere uomo e a conservare integra la tua dignità in ogni condizione psicologica, in ogni condizione sociale. Non ci riesci più quando il dolore fisico, atroce e opprimente, non ti dà tregua e ti opprime, giorno e notte.
Il dolore fisico è ben più gravoso di ogni sofferenza psicologica. Non è un tarlo che scava gallerie di dubbio nella mente, ma piuttosto un trapano che trafigge materialmente il tuo corpo, e ben più acutamente.
Il dubbio ti rende cupo, nel volto e nell’umore, pensoso e taciturno; il dolore ti fa irrequieto, il dolore ti fa piangere, il dolore ti fa urlare. E nel dolore sei solo. Mentre «la gioia rende l’uomo socievole, il dolore lo allontana dagli altri», ha osservato Friedrich Hebbel.
Penso, e ne sono certo però, che si riesca ad accettare il dolore con la Fede. E credo che si riesca a sopportare e a vincere un grande dolore con una grande Fede, perché, come ha scritto Tommaso Moro, «non c’è dolore in terra che il Cielo non possa guarire».
E credo, al contempo, che la sofferenza e il dolore non siano assolutamente una punizione divina.
«Di fronte alla facile conclusione di considerare il male come effetto della punizione divina», Benedetto XVI ha ricordato che il Vangelo «proclama l’innocenza di Dio, che è buono e non può volere il male», sottolineando che le sventure non sono effetto delle colpe personali di chi le subisce. Secondo il Papa emerito, «in presenza di sofferenze e lutti, vera saggezza è lasciarsi interpellare dalla precarietà dell’esistenza e leggere la storia umana con gli occhi di Dio».
E Papa Francesco ha scritto in Lumen Fidei: «All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce.
La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino».
Non è questa la consolazione dell’impotenza, come qualcuno crederà, ma la Fede nella potenza del Cristo, morto in croce, trafitto materialmente in ogni sua parte, per la salvezza di ognuno di noi, sollevandoci da ogni sofferenza.
Ma il dolore, umanamente, va capito, il dolore va trattato, il dolore va mitigato, il dolore va sedato, perché l’uomo sofferente sia più uomo.
Sin dai tempi più antichi è stato compreso quanto sia importante combattere il dolore. Già nel IV secolo a.C., infatti, Ippocrate, per alcuni Galeno, evidenziò una verità incontestabile e sempre valida: «Divinum opus est sedare dolorem» (è opera divina sedare il dolore). Tale assunto costituisce uno degli scopi più nobili ed elevati della scienza medica, allora come oggi, dopo 2500 anni.
Quest’insegnamento afferma che non la cura della malattia ma la sedazione del dolore è opera divina. Mentre la terapia di una patologia, quindi, era considerata compito dell’uomo, la sedazione del dolore pareva opera così elevata, così benefica, così straordinaria da implicare, quasi, un intervento soprannaturale.
Cancellando il dolore è la divinità che agisce per il bene dell’uomo: bene che è, quindi, lo stato di assenza di dolore, mentre la sofferenza fisica è il male, il male più insopportabile per la condizione umana.
La malattia non dolorosa è, quindi, tollerabile, mentre il dolore è inaccettabile, perché il dolore limita, offende, ferisce e annulla, finanche, i diritti e la dignità dell’uomo.
Si può convivere con tanti stati morbosi, si convive con cardiopatie gravi, si convive con gravi broncopneumopatie, si convive con patologie invalidanti, si convive con paralisi degli arti, si convive nella condizione di gravi mutilati, si convive con l’insufficienza renale cronica e la pena delle ripetute dialisi, si convive con tante forme di cancro, senza disperarsi, ma è impossibile convivere con il dolore fisico grave, ottenebrante la mente e ogni senso.
Finalmente oggi, di ciò ch’era chiaro già nella metà del primo millennio avanti Cristo, si vanno convincendo i nostri programmatori di sanità. Finalmente si vanno istituendo centri specializzati di terapia del dolore e cure palliative, anche se alcuni sono solo specchietti per le allodole o etichette per giustificare un incarico agli amici.
«Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità», affermava ancora il medico Santo, Giuseppe Moscati.
Il dolore si cura anche con la condivisione, con la pazienza, con la sopportazione, con la benevolenza, con la carità e con l’amore.
Sì, l’amore! «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Dante) può ben vincere il dolore: concetto già chiaro nell’antichità. Sofocle, di pochi decenni precedente a Ippocrate, scrisse che «una parola ci libera di tutto il peso e il dolore della vita: quella parola è amore».
E nell’amore dei propri familiari si vive e si sopravvive. Con il loro amore si vive e si sopravvive anche nella sofferenza psicologica e nel dolore fisico, nelle difficoltà di ogni tipo, anche sociale e relazionale, e pure con le conseguenze della chemioterapia, di vario tipo, tra cui una fastidiosa e continua disestesia palmo-plantare che mi porto ogni giorno appresso.
Problemi? Sì. Tutti coloro che viaggiano nella costellazione del cancro ne hanno. E ne ho. Ma uno sguardo a chi mi è caro e torna la gioia di vivere: una gioia piena, pari alla gaia ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dirritto d'autore
  4. Ringraziamenti
  5. Dédicace
  6. Prefazione di Don Aurelio Marino (Sacerdote)
  7. Premessa
  8. Se fossi astronomo
  9. Se fossi astrologo
  10. Ma sono un malato esperto
  11. La diagnosi di cancro tra nebulose e astri
  12. L’attesa della terapia tra nebulose e astri
  13. La terapia chirurgica tra nebulose e astri
  14. Le terapie complementari tra nebulose e astri
  15. La vita sotto il segno del cancro tra nebulose e astri
  16. Postfazione di Roberto Losso (Giornalista)
  17. Indice