Posso parlare con te dell'Essere?
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Posso parlare con te dell'Essere?

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Informazioni sul libro

Posso parlare con te dell'Essere?, contiene una appassionata risposta data agli esperti lettori di "Desiderio d'infinito" sul problema della conoscenza. Tutto il nostro conoscere è fondato nella capacità della persona e solo in essa: non c'è il ricorso a nessun ente esterno, Dio compreso.

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788893063197
LETTORE CURZIO C.
Professore di filosofia
Lei individua il caposaldo speculativo e l’asse portante della sua riflessione nel «principio d’identità dell’essere, che parte dall’intuizione dell’identità fra essere e pensiero»: in senso generale, l’affermazione suona quantomeno equivoca, evocatrice di un parmenidismo ideologico filosoficamente non più accettabile nella sua ingenuità.
La chiarificazione che Lei ne dà (“Tutto ciò che è essere [reale, logico o relativo] può essere pensabile e tutto ciò che è pensabile, può essere un ente reale, possibile, logico e relativo, salvo che non sia nulla”) suona un po’ vuota nella sua genericità: che vuol dire che tutto ciò che è pensabile può essere un ente reale ecc? Pur ammesso, ma non concesso, per questa via, arrivo dritto, dritto ai cento talleri kantiani…
La tesi, credo, andrebbe dunque necessariamente meglio differenziata ed esplicitata, magari alla luce della critica posteriore più acuta (mi limito a fare i nomi di Kant, Heidegger, Pareyson; ma, se vuole, scendo anche sul terreno della mistica speculativa, e allora le cito Bonaventura, Eckhart, Cusano…).
Quanto lei chiama identità (di essere e pensiero) si determina, a mio modo di vedere, come trasparenza (di essere e pensiero): essere e pensiero sono trasparenti l’uno all’altro, in un gioco di reciproca incidenza, nel senso che il pensiero è sempre espresso nell’essere e l’essere, in sé intrinsecamente intelligibile (ricorda il trasc. Del verum?), è sempre espresso in un pensare. Questo rapporto di espressione porta il discorso su un piano del discorso ben differente da quello da lei calcato, cioè, sul piano, precisamente, fenomenologico - ermeneutico della manifestatività / espressività dell’essere, capace di interpretare con profondità insospettata le categorie della metafisica classica. Non a caso, infatti, proprio su questo la metafisica sta oggi riflettendo, impegnandosi con grandi e fecondi risultati intorno a una categoria come quella del dono, ontologicamente determinante.
Inoltre, la presunta identità di cui lei fa tesi evidente per sé, in realtà è meno evidente per sé di quanto non sia, invece, raggiunta per necessità logica.
La richiamo alla prospettiva teofanica che le ho sopra giusto accennata: pensare autenticamente l’essere nella sua evidenza al pensiero significa pensare tale evidenza in termini di espressività radicale; e in rapporto all’ente, come auto manifestazione dell’essere nella sua differenza da esso. Altrimenti la metafisica resterà sempre in agguato come una ideologica e “violenta” riduzione delle strutture fondamentali del senso…
Mi fermo qui per il momento, perché credo di averle lanciato sufficiente provocazione circa una posta in gioco – su questo ne conveniamo – di tanta importanza! Spero di potermi confrontare di nuovo a breve con Lei, e le porgo per intanto i miei migliori auguri.
Risposta
Riporto la risposta di Heidegger a proposito dell'evidenza immediata: “Lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso” e “Lasciar vedere dall’essere stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso (alla luce dell’essere)”. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: “Verso le cose stesse!”. (Heidegger, Essere e tempo, 1927, Longanesi & C., Milano, pag.55, inizio).
Questo primo punto della fenomenologia di H., a parte la particolare concezione fenomenologica, non lo vedo diverso dal principio “dell’evidenza immediata” colta hic et nunc nella realtà esistente, per me, e colta nei fenomeni, per lui.
L'evidenza immediata mi fornisce le intuizioni basilari, senza alcuna mediazione dall’esterno e dal’interno, dalle quali posso partire per interpretare anche “sul piano precisamente fenomenologico-ermeneutico della manifestatività ed espressività dell’essere capace di interpretare con profondità insospettate le categorie della metafisica classica”: è quanto ho cercato di fare e ho trovato che il concetto (come anche l’idea e il simbolo) di essere non è il suo nulla e neppure solo fenomeno, ma esprime anche i suoi aspetti essenziali ed accidentali: parlando di concetto, di idea e di simbolo mi sembra di pormi proprio in una dimensione ermeneutica della manifestatività ed espressività dell’essere; l’unica differenza fra noi è che per me il concetto, l’idea e il simbolo di essere colgono non solo il fenomeno, ma anche il noumeno (usando un’espressione kantiana), cioè anche gli elementi essenziali ed accidentali dell’essere (usando termini aristotelici). Sono queste due scelte di fondo che colorano distintamente ogni nostro ragionamento e quindi vanno risolte sin dal loro inizio, dal loro cominciamento o dalla loro arché che ho espresso con il concetto, con l’idea e con il simbolo: l’essere è, il suo nulla non è, il suo poter essere è.
Riconosco, con lei, che è problematica la mia frase che così recita: “Il principio d’identità o di essere parte dalla intuizione immediata dell’identità fra essere e pensiero”.
Con la frase intendevo esprimere che è importante cogliere, per intuizione immediata, l’essenziale relazione fra essere e pensiero (da lei chiamata anche trasparenza). Non è che, secondo quel che penso, l’intuizione immediata fornisca una conoscenza ingenuamente identica fra essere e pensiero, ma, dopo un lungo e attento susseguirsi d’intuizioni immediate colte nelle varie esperienze interne ed esterne, ho verificato che tutto ciò che penso, corrisponde ad aspetti dell’essere reale o possibile o logico o relativo; viceversa, che tutto ciò che è un essere (reale, possibile, assoluto, relativo o logico) lo posso pensare; quindi non si tratta di una uguaglianza matematica, ma di una relazione essenziale fra essere e pensiero, che sono due realtà complementari nella loro distinzione reale, infatti, per me, l’essere si identifica e contemporaneamente si distingue dal pensiero, essendovi fra i due una relazione essenziale.
Riconosco che l’espressione da me usata «nel principio d’identità dell’essere, che parte dall’intuizione dell’identità fra essere e pensiero» si presta a una interpretazione problematica, ma è mia convinzione che fra pensiero (cioè i miei atti di conoscere) ed essere (ogni realtà possibile o attuale) vi sia una relazione trascendentale per la quale vi è fra loro una corrispondenza (o trasparenza) che implica sempre una identificazione, ma anche una reale distinzione.
Nel testo, nell’ambito del realismo moderato, ho usato il termine “identità” per indicare la “trasparenza” o la “corrispondenza” o "la relazione" o “l’identificazione” fra essere e pensiero, ma senza negare la loro contemporanea e reale distinzione; sicché si tratta di modi di comunicare e di esprimersi: purtroppo l’altro potrebbe non capire! Chiedo scusa.
È importante e fondamentale che il principio dell’essere, raggiunto con l'evidenza immediata, non sia una vuota espressione nella sua genericità, ma sia la base e il pilastro da cui partire e che la sua verità ci venga dalla sua evidenza immediata, ed è anche importante notare che la mia personale opinione, in questo momento del mio cammino, la ritengo per metodo una possibilità accanto alle altre possibilità per cui deve essere ri-valutata dall’evidenza immediata.
Con piacere ho visto che anche altri si sono impegnati di trovare nuove categorie come quella del “dono” che tra l’altro ho utilizzato in diversi punti del trattato. Condivido pienamente la fecondità della categoria “dono”, che per me ha il suo fondamento metafisico nella concezione ternaria dell’essere e, precisamente, s’identifica con la categoria “persona” e quindi l’ho fondata nell’essere stesso: la persona è dono.
Lei gentilmente mi ha offerto di confrontarci anche su altri punti, ebbene la mia risposta è la pubblicazione del “Desiderio d’infinito” di cui lei ha letto il manoscritto. L’ho fatto via internet, per potere dialogare con chi lo volesse in maniera più chiara e apertamente, dopo aver precisato e fissato meglio il mio pensiero. Quindi sarei felice di avere ulteriori riscontri con lei.
La ringrazio della sua valutazione che mi è stata molto utile, non per mutare sostanzialmente il mio pensiero, ma per renderlo più consapevole e scorrevole. Grazie.
Replica del Lettore Curzio C.
Rispondo al suo cortese invito cercando di rimanere (a fatica, lo confesso) sul suo piano argomentativo. E arrivo al dunque.
Penso che una aporia affetti seriamente l’impianto radicale del suo riflettere e argomentare.
Lei basa tutto il suo discorso sul principio d’identità secondo cui “l’essere [indeterminato] è ciò che è e [come tale] si oppone al nulla”, ossia ciò che, opponendosi al nulla, lo nega.
Ma ogni negazione è sempre “negazione di”: cioè occorre che il nulla sia qualcosa, perché vi si possa opporre, negandolo. Ciò che si distingue per opposizione al nulla fa del nulla cui si oppone un qualcosa dal quale appunto si distingue opponendovisi/negandolo come un qualcosa ecc. E così all’infinito in una circolarità tutt’altro che virtuosa: una cattiva infinità!
L’aporia è elementare: l’essere si oppone al nulla, e lo nega, facendone qualcosa (ontologizzandolo). Se ammetto ciò, tutto quello che Lei argomenta in deduzione del principio d’identità è mero flatus vocis. La vera domanda insomma è: perché l’essere abbisogna del nulla per affermarsi nella sua indefettibile positività? E se il nulla non è e non posso parlarne, perché invece continuo ad affermarlo come un “qualcosa” (da cui l’essere si distingue opponendovisi/negandolo) e a parlarne per significare l’essere? Forse che l'essere non ha abbastanza forza?
Si potrebbe pensare di uscire dall’aporia ponendo l’opposizione/negazione del nulla da parte dell’essere come distinzione interna all’essere stesso; ma allora l’essere sarebbe anche nulla; ovvero l’essere opponendosi al nulla si opporrebbe a se stesso e si negherebbe in se stesso. E comunque ciò non mi spiega ancora - se non in termini di mero gioco linguistico - perché l’essere abbisogna del nulla per affermare se stesso.
Lei rimane aporeticamente parmenideo nel suo punto di partenza che è peraltro affatto problematico e da quanto leggo tutte le sue risposte alle obiezioni si muovono nel circolo che ho detto sopra.
Mi faccia sapere. Un cordiale saluto.
Risposta
Chiarissimo prof. Curzio, grazie per aver cercato di rimanere (a fatica, lo comprendo) sul mio piano argomentativo e sulle mie interpretazioni. È questo un gesto squisitamente apprezzabile perché riconosco il mio linguaggio di difficile comprensione.
Lei ha capito bene quando dice che tutto il mio discorso si basa sul principio d’identità secondo cui “l’essere [indeterminato] è ciò che è e [come tale] si oppone al nulla” e lei giustamente conclude che l’essere, opponendosi al nulla, viene negato; ma mi sembra che non concluda bene quando dice che io sia incorso in un’aporia che segna seriamente l’impianto radicale del mio riflettere e argomentare, infatti, c’è un’altra possibilità che pare lei non abbia considerato e che ci permette di superare l’antinomia o aporia parmenidea, quella che lei ha ben stigmatizzato con l’espressione: “L’aporia è elementare: l’essere si oppone al nulla, e lo nega, facendone qualcosa (ontologizzandolo)”.
Se fosse vero quanto ha interpretato del mio pensiero, giustamente si dovrebbe concludere che tutto quello che argomento in deduzione dal principio d’identità è mero flatus vocis, infatti, l’essere, in tale interpretazione, “abbisogna del nulla per affermarsi nella sua auto manifestatività e positività”; ora se il “nulla non è” non posso parlarne né “affermare che sia un “qualcosa” di opposto all’essere quale sua negazione ed è un’aporia quindi parlare del nulla per dare un contenuto all’essere! Opportunamente lei mi chiede: “Forse che l’essere non ha abbastanza forza?”
E giustamente lei fa notare che non si esce dall’aporia “ponendo l’opposizione/negazione del nulla da parte dell’essere come distinzione interna all’essere stesso”, infatti, “allora l’essere sarebbe anche nulla; ovvero l’essere opponendosi al nulla si opporrebbe a se stesso (perché il nulla sarebbe una cosa o un essere) e si negherebbe in se stesso” e “l’essere abbisognerebbe del nulla per affermare se stesso”.
La conclusione rivolta a me è “criticamente” pesante: “Lei rimane aporeticamente parmenideo nel suo punto di partenza che è peraltro affatto problematico e da quanto leggo tutte le sue risposte alle obiezioni si muovono nel circolo che ho detto sopra.”
Professore, sono convinto che ci sia un’altra possibilità che ci permette di superare l’antinomia o aporia parmenidea...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Diritto d'autore
  4. Prefazione
  5. Posso parlare con te dell’Essere?
  6. LETTORE FABIO G. Professore di Filosofia
  7. LETTORE RODOLFO Z. Professore di Filosofia
  8. LETTORE GIOVANNI C. Professore di Filosofia
  9. LETTORE DANIELE P. Insegnante di lettere esperto in Buddismo
  10. LETTORE CURZIO C. Professore di filosofia
  11. LETTORE ANGELO T. Professore di Filosofia e di Storia della Filosofia
  12. LETTORE ROBERTO F. Autodidatta
  13. BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
  14. Indice