Rivoluzione e lotta quotidiana
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Ciò che veramente importa è che la gente faccia come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se non quelle che il popolo fa coi propri sforzi. Questa raccolta di lettere, scritti e articoli di Errico Malatesta ha il pregio di fornire grande chiarezza sulla storia dell'anarchia in Italia, i suoi rapporti con sindacati, partiti e movimenti dei lavoratori. In questa pregevole selezione di Biagio (Gino) Cerrito – anarchico e professore di Storia contemporanea all'Università di Firenze – emerge una ferma resistenza all'oppressione dello Stato fascista e l'urgenza di organizzare in Italia una Rivoluzione anarchica. Questa edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull'autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788891142856
Argomento
Storia
Errico Malatesta
Rivoluzione e lotta quotidiana
I.
Il periodo
della maturazione ideologica
1. Considerazioni sulla storia
del movimento anarchico in Italia
a. Il socialismo in Italia1
(…) Quando Bakunin venne in Italia, una profonda crisi travagliava il paese, e specialmente quella parte eletta del paese che partecipava alla vita politica non per basso egoismo di avventurieri e arrivisti, ma per ragioni ideali e amore sincero di bene generale.
Il nuovo regno dei Savoia, cui aveva messo capo la lotta per l’indipendenza d’Italia, non rispondeva punto alle aspirazioni di coloro che prima e meglio di tutti avevano promosso e sostenuto il movimento.
Per lunghi decenni schiere di generosi avevano combattuto con insuperato eroismo per liberare l’Italia dalla tirannide dell’Austria, del papa, dei Borboni e degli altri principotti che se ne dividevano il territorio. Era il fiore della gioventù italiana che, colle cospirazioni, gli attentati, le insurrezioni, affrontava il martirio; e continuamente decimata dai massacri, dalle galere, dai patiboli, si rinsanguava sempre con nuovi altrettanto eroici combattenti.
Le idealità che animavano quegli uomini appaiono, a noi venuti dopo, insufficienti, vaghe, mistiche, spesso contraddittorie, ma erano certamente nobili, disinteressate, umanitarie.
In generale essi volevano l’Italia libera dallo straniero e dai tiranni indigeni, libera dal dominio dei preti e costituita in repubblica unitaria o federale; e per repubblica intendevano un “governo di popolo” che assicurasse a tutti libertà, giustizia, benessere e istituzione.
In conseguenza delle tradizioni classiche e poi per la predicazione di Giuseppe Mazzini, essi avevano bensì l’assurda pretesa che l’Italia fosse superiore a tutti gli altri paesi e predestinata (da Dio, e dalla Natura, e dalla Storia) a essere maestra e guida di tutta l’umanità. Ma il loro mistico patriottismo era lungi dal significare desiderio di dominio sugli altri popoli. Al contrario, essi affrettavano coi voti e coll’opera l’emancipazione e la grandezza del popolo italiano anche perché potesse compiere la sua missione civilizzatrice e aiutare a liberarsi tutti i popoli oppressi: a prova il fatto che i patrioti italiani accorrevano a combattere e versare il loro sangue in qualunque parte del mondo dove sorgeva un grido di libertà.
Ma malgrado tanto eroismo e tanta nobiltà di propositi la causa italiana sembrò per lungo tempo una causa disperata e trovava appoggio solo tra i “sognatori” assetati d’ideale e alieni da ogni mira di vantaggio personale. La gente “pratica”, egoista e pusillanime, subiva pazientemente l’oppressione e per calcolo acclamava i più forti; e i peggiori si mettevano al servizio degli oppressori quali birri e carnefici. La gran massa, misera, ignorante, superstiziosa, restava come sempre materia passiva, strumento docile ma infido di chi poteva e sapeva servirsene.
Poi, quando per la costanza e il crescere dei ribelli, e per fortunate circostanze politiche europee i servi di Casa Savoia trovarono opportuno di sfruttare le aspirazioni nazionali per la sicurezza e l’ingrandimento del regno sardo-piemontese, agli apostoli e agli eroi si frammischiarono i trafficanti e i profittatori, e l’intrigo diplomatico sopraffece lo slancio rivoluzionario.
E così, tra i patteggiamenti e i mercati segreti, le alleanze tra monarchi, le guerre regie cominciate con dubbia fede e vergognosamente stroncate per ragioni dinastiche, le dedizioni dei condottieri popolari, le illusioni degli ingenui e il tradimento dei furbi, si arrivò alla costituzione di un regno italico che era la parodia, la negazione dell’Italia libera e grande sognata dai precursori.
Non si era raggiunta nè l’unità nè vera indipendenza.
L’Austria, padrona sempre della Venezia, restava minacciosa al di qua dell’Alpi, e l’Italia sembrava vivere solo per la protezione interessata e prepotente dell’imperatore dei francesi. Il Papa continuava a tiranneggiare Roma e il Lazio, pronto sempre a chiamare lo straniero in suo soccorso. Il diritto della nazione a governarsi da sé ridotto alla concessione di una Camera dei deputati eletta da un piccolo numero di censiti e tenuta a freno dalla potestà suprema del re, nonché da un Senato di nomina regia. Negata ogni autonomia di regioni e comuni, e tutta l’Italia sottoposta all’egemonia delle caste burocratica e militaresca del Piemonte. Le libertà cittadine sempre a discrezione della polizia. Le condizioni economiche della massa (proletariato e piccola borghesia) a cui si erano fatte tante promesse, generalmente peggiorate e in certe regioni rese addirittura miserabili per l’aumento delle imposte sulla produzione e sui consumi. Quindi malcontento generale; e quando il malcontento scoppiava in tumultuose proteste collettive, la forza pubblica ristabiliva l’ordine con quei massacri di folle inermi, che restarono sempre una caratteristica del sistema di governo della monarchia italiana.
Naturalmente sorsero in abbondanza i patrioti dell’indomani che vollero prender parte al bottino, senza essere stati alla battaglia; e anche molti dei vecchi combattenti, per motivi vari, onorevoli o meno, si adattarono al nuovo regime e cercarono di profittarne. Ma i più sinceri, i più ardenti e con essi i nuovi giovani che per ragioni di età non avevano potuto prender parte alla riscossa nazionale, ma n’avevano respirata l’atmosfera piena di entusiasmo e volevano emulare i loro maggiori, rodevano il freno e anelavano il momento di ricominciare la rivoluzione e di completarla.
Ma cosa fare?
I più influenti, i capi, esitavano tra il desiderio di abbattere la monarchia e la paura di compromettere quel tanto di unità e di indipendenza che si era raggiunto. La gran maggioranza dei repubblicani devoti a Mazzini, pur predicando la repubblica, mettevano al disopra di tutto l’unità della patria, e nonostante l’avversione al sistema monarchico erano sempre pronti a mettersi agli ordini del re quando egli li avesse chiamati a compiere il programma nazionale. E in quanto ai garibaldini, più di tutti ardimentosi e battaglieri ma, al pari del loro duce, senza idee chiare e programma determinato, salvo l’odio ai preti e al dominio straniero, la monarchia poteva sempre a sua posta fermarli o trascinarli, come e più dei mazziniani, col solo darsi l’aria di voler fare la guerra all’Austria o al papa.
In realtà non si faceva nulla contro il regime, e forse date le circostanze era possibile fare qualche cosa d’efficace; ma fra le aspirazioni contraddittorie persisteva, vivo, insofferente, tormentoso il desiderio di fare.
D’altra parte un nuovo fermento d’idee agitava le mani…
Vi erano stati bensì dei pensatori poderosi e precursori geniali capaci di reggere il confronto con qualunque straniero, ma essi erano restati senza grande influenza o totalmente ignorati, come per esempio il Pisacane, tanto che occorse scoprirli dopo, quando già le loro idee erano per altre vie divenute patrimonio comune.
Ma ora, dopo la costituzione del regno, con una certa libertà di stampa, con la maggiore facilità di muoversi e stabilire delle relazioni e per lo stesso sprone delle disillusioni patite, la gioventù incominciava a informarsi e interessarsi delle idee che agitavano l’Europa. Già il concetto dell’Italia nazione-messia appariva a molti fantastico e assurdo ed era sostituito da una più realistica concezione della storia e dei rapporti tra i popoli. La credenza in Dio e nel soprannaturale, tanto cara a Mazzini, era buttata in breccia dal nuovo indirizzo delle scienze naturali introdotto nelle università italiane per opera principalmente di valenti professori stranieri. L’idea di patria e tutte le istituzioni sociali – proprietà, organizzazione statale, famiglia, diritto civile e penale – erano discusse e criticate con nuova larghezza di vedute. La questione sociale, la questione dei ricchi e dei poveri, incominciava ad attirare l’attenzione e pareva già destinata a svalorizzare e mettere in oblìo le questioni di nazionalità.
Mazzini e Garibaldi continuavano a essere idolatrati dalla gioventù più avanzata, che avrebbe voluto averli come capi guide, ma trovava sempre più difficile il seguirli. Poiché Mazzini di fronte all’irrompere delle nuove tendenze s’irrigidiva nel suo dogmatismo teologico-politico e scomunicava chi non credeva in Dio; e Garibaldi, il quale voleva persuadere se stesso e gli altri di stare sempre alla testa del progresso, diceva e disdiceva e in fondo non capiva nulla.
Da ciò il disagio morale e intellettuale, che aggiunto all’incertezza e all’impotenza politiche teneva agitata e scontenta la migliore gioventù italiana.
In tale condizione degli spiriti un uomo come Bakunin, con la fama di grande rivoluzionario europeo che l’accompagnava, con la sua ricchezza e modernità d’idee, con la sua foga e la forza avvincente della sua personalità, non poteva non fare forte impressione su coloro che lo avvicinavano. Ma non poteva creare un movimento a larga base, veramente popolare, causa dei pregiudizi patriottici e borghesi dell’ambiente e per il fatto che molti, malgrado la mutata coscienza, si sentivano ancora legati da giuramenti prestati alla vecchia setta; al che bisogna aggiungere le difficoltà che gli venivano dall’essere straniero, poco pratico della lingua italiana e soggetto sempre a essere espulso dalla polizia.
E infatti egli riuscì subito a interessare degli uomini di valore, che credettero a prima giunta di trovare nelle sue idee la soluzione dei dubbi che li tormentavano, ma non potette far presa sulle masse. D’altronde il pensiero di Bakunin era allora in continua evoluzione, e se egli, spinto dal suo temperamento e dalla logica delle sue premesse, arrivò presto a conclusioni nettamente socialiste e anarchiche, molti dei suoi primi aderenti non potettero seguirlo e man mano si ritrassero, sostituiti però sempre da nuovi più idonei elementi2.
Dal 1864 al 1870, Bakunin, colla propaganda personale in Italia, colla corrispondenza dalla Svizzera, coi viaggi fatti o fatti fare e con le pubblicazioni proprie o da lui ispirate, arrivò a selezionare un certo numero d’uomini che, organizzati intorno a lui in circoli più o meno segreti, presero contatto con il movimento socialista internazionale, introdussero in Italia il socialismo e l’anarchismo e vi fondarono la branca italiana dell’Associazione Internazionale Italiana dei Lavoratori, di cui continuarono a essere gli animatori durante tutta la sua esistenza.
Ma insomma fino alla prima metà del 1870 tutto si riduceva a pochi gruppi intimi e a qualche piccola associazione operaia…
Poi vennero la guerra franco-prussiana, la caduta dell’impero e la proclamazione della repubblica in Francia, la spedizione garibaldina nei Vosgi l’entrata delle truppe italiane a Roma e la fine del potere temporale dei papi, le vicende dell’assedio di Parigi, le elezioni francesi dell’assemblea dei “rurali”, la pace...

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