Tenetevi forte: espatriamo!
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Tenetevi forte: espatriamo!

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Tenetevi forte: espatriamo!

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Informazioni sul libro

E se un giorno decidessimo di lasciare tutto e partire per un altro Paese? La destinazione, una metropoli dell'India del Sud, lascia inizialmente perplessa l'autrice di questo memoir. Ma la curiosità per l'esperienza di espatrio e la voglia di un cambiamento di prospettiva per la propria famiglia hanno la meglio sulle iniziali resistenze.
L'autrice, con uno sguardo divertito, accompagna il lettore nel suo percorso di conoscenza e adattamento tra sorprese quotidiane, incontri insoliti e inciampi culturali. Gradualmente apprezza le peculiarità e si confronta con le bizzarrie di un popolo, un Paese e una cultura lontani da noi, ma poi non così diversi. Fino a scoprire se non la passione, sicuramente l'affetto per il Paese che la ha ospitata.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788892616264
I comfort di casa
Per i primi tempi a casa non abbiamo né internet né televisione. Di internet se ne occupa mio marito tramite l’ufficio, che ci deve fornire la linea telefonica e quindi il collegamento per avere il wi-fi. È così che scopriamo che, nella magnifica “casa bella” che abbiamo scelto tra tante incertezze, non c’è linea telefonica di terra. Finora ci siamo sempre mossi con i cellulari, quindi non ci siamo mai accorti di nulla. Ma per avere un collegamento internet stabile è necessario collegare il modem alla linea telefonica di terra, e qui non c’è. Ci viene spiegato il perché: i vicini della casa accanto, un’enorme villona con torrette panoramiche e parco piantumato con statue di cervi sacri, davanti alla quale dovrebbero passare i cavi telefonici, sono esponenti del partito di opposizione rispetto a quello ora al governo. Per questo, pare, è escluso che vengano fatti i lavori di posa dei cavi: portare i cavi fino a noi finirebbe per favorire anche loro, cosa inammissibile. Un altro esempio di intreccio tra il particolare e il generale, tra la politica alta e quella spicciola, e la logica toruosa che vige da queste parti.
Ha così inizio il passaggio in casa nostra di una infinita teoria di marchingegni che ci consentano il collegamento wi-fi: il router mobile, il wi-max e altri nomi per me misteriosi. Il tutto significa installazioni di antenne e altri aggeggi sul tetto o per le scale, con un andirivieni di tecnici che assicurano, ogni volta, che tutto funzionerà. Ogni volta il tecnico è una persona diversa, di una società telefonica diversa, che non sa quale altro strumento è stato provato prima. A volte arrivano anche quattro persone: il tecnico, l’impiegato della ditta di Carlo, il responsabile supervisore, e un autista, doveroso in presenza del supervisore. Quattro individui che vanno su e giù per le scale di casa mia, senza scarpe, come usa qui. Ovviamente arrivano a casa in orario di lavoro, quando ci sono io sola, e mi tocca gestire un argomento che conosco molto poco esposto in un inglese che mi fa dubitare di tutte le certificazioni che ho collezionato negli anni: possibile che io, dopo anni di studio del mio idioma preferito, mi riduca a dover far ripetere anche tre o quattro volte quello che mi viene detto? Eppure è così: alle riunioni della scuola americana seguo perfettamente, ma con l’accento indiano ho serissime difficoltà.
Nonostante tutti i tentativi, i collegamenti internet risultano sempre molto instabili e altalenanti, soprattutto quando si devono allacciare alla rete più computer contemporaneamente, il che significa ogni giorno, dato che i miei figli devono fare i compiti online.
Nel frattempo ci rendiamo conto che anche i cellulari e la linea internet 3G non sono sempre affidabili: pare che funzionino solo nell’area centrale della casa; al piano inferiore dobbiamo stare in mezzo alla sala, su una mattonella precisa per parlare al telefono, altrimenti appena più in là, in cucina, non c’è campo. Al piano superiore lo stesso, nella saletta il segnale si riceve, ma nelle camere no. Il che si traduce con la necessità di modificare anche la disposizione dei mobili. Avevamo scelto una casa con la camera dei ragazzi ampia in modo da poter contenere anche le loro scrivanie, ma ora queste vanno spostate in soggiorno per poter utilizzare internet. Soprattutto, appena accendono il collegamento loro, devo spegnere io: impensabile collegare più di due apparecchi per volta.
Un elettrodomestico cui rinunciamo senza troppo struggimento è la lavastoviglie. Questa meraviglia moderna nelle cucine indiane in genere non è prevista, non c’è nemmeno uno spazio apposta nelle vicinanze del lavello, perché, come al solito, il lavoro umano costa molto meno di quello meccanico e la maid sostituisce egregiamente l’elettrodomestico.
Per quanto riguarda il televisore, fisicamente c’è, è già sul suo mobile di fronte al divano. Il fatto è che non abbiamo ancora stipulato nessun contratto che ci consenta di vedere dei programmi, quindi resta spento. Dopo aver consultato altri espatriati decidiamo che la soluzione migliore per ricevere notizie internazionali e vedere qualche film o documentario in inglese è Tata Sky.
Faccio qualche telefonata per fissare una visita da parte dei tecnici e arriva il giorno dell’installazione. L’appuntamento col tecnico di Tata Sky è per “dopo le undici”.
Verso mezzogiorno perdo la pazienza e chiamo l’assistenza clienti: “Dov’è il tecnico? L’appuntamento era per le undici.” Naturalmente mi rassicurano: “Yes madam, dopo le undici arriva.” Non so se pranzare o no, mi scoccerebbe farmi trovare con il piatto in tavola, così rimando, e al nervosismo dell’attesa si aggiunge il calo degli zuccheri.
Il tecnico si presenta a casa solo verso le tre del pomeriggio; dal suo punto di vista è puntuale, essendo di fatto arrivato ‘dopo le undici’. Inizia uno scambio di richieste (“La tv va messa in quell’angolo lì”) e proposte (“Non c’è la presa: bisogna far scendere il cavo dall’esterno”) inframmezzato da attese in cui lui si consulta con l’ufficio, conversazioni difficoltose sostenute dalle traduzioni del fido autista, cavi calati dal tetto lungo il muro esterno fino alla sala del piano terra, incomprensioni riguardo ai costi. Ovviamente perdo la pazienza innumerevoli volte, do in escandescenze e sbraito nella mia lingua madre, esasperata dall’imperturbabilità del tecnico, un ragazzetto piuttosto giovane che deve anche divertirsi alla vista di questa occidentale pallida e alterata. Abbiamo due punti di vista diversi: io ho vissuto la giornata d’attesa come un affronto al mio essere il-cliente-che-ha-sempre-ragione e sono a dir poco indignata dal fatto che non mi si chieda neanche scusa del ritardo; il tecnico è consapevole del fatto che sono io ad aver bisogno di lui, e non viceversa, e soprattutto sta facendo il suo giro senza minimamente farsi influenzare dal tempo che gli ci vuole. Anzi, è proprio il concetto di tempo a essere diverso: le tre non sono forse dopo le undici? Si comporta di conseguenza, con un aplomb per me a dir poco irritante; flemmatico procede come se nulla fosse, guardandomi con una certa sufficienza: questa donna straniera così irritabile.
Mi ripete parecchie volte che il costo di un cavo più lungo di dieci metri non rientra nell’installazione standard ed è a carico mio. Faccio due conti, e dato che la casa è a due piani, e che ogni piano in media è di tre metri, calcolo che probabilmente userà al massimo sei metri di cavo, sette, se vogliamo abbondare. Ma dopo più di un’ora di trattativa e montaggio, col buio che incombe, pur di non rimandare a un altro giorno la conclusione dei lavori, nonché ripetere un’ulteriore attesa snervante, cedo: pago l’uscita, i lavori di installazione e anche tutto il cavo che mi lascia “per eventuali emergenze” (basterebbe per una palazzina di quattro piani) e prego solo che, una volta pagato il canone, la TV funzioni, perché non voglio più rivedere né lui né altri tecnici. Imparo una lezione che varrà sempre d’ora in poi: ti prendono per sfinimento. La mia debolezza consiste nell’aspettarmi che le cose siano fatte entro certi termini di tempo e qualità, una chiara eredità delle mie abitudini occidentali; la loro forza sta nel fatto che qui questi termini non esistono, o per lo meno i canoni di riferimento non sono uguali a quelli delle mie aspettative. Siccome si gioca in casa loro, le regole che valgono sono le loro. In fondo l’installazione l’ho avuta: cos’ho da lamentarmi?
Culture shock e ritorno
Ancora prima di partire dall’Italia avevamo dovuto promettere ai ragazzi che per Natale saremmo tornati a casa. Inoltre, un giorno di novembre mia madre mi telefona per dirmi che i ladri sono entrati nel nostro appartamento, lasciando un disordine indescrivibile, qualche danno e il gatto terrorizzato. Il nostro gatto è rimasto a casa perché, dovendo stare in albergo appena arrivati, non avremmo saputo dove metterlo. Avevo lasciato l’incombenza di scendere a dargli da mangiare a mia madre, che abita un paio di piani sopra di noi. Ma dopo l’episodio dei ladri le chiedo di portarsi il gatto nel suo appartamento, perché ho una gran paura che i ladri tornino e magari trovino lì mia madre: non posso pensare alle conseguenze. Così a Natale, la prima vacanza lunga della scuola, si torna a casa. Prima di partire compro qualche decorazione natalizia, palline e ghirlande, e addobbo l’albero di frangipane di fianco alla piscina, più che altro perché mi diverte il contrasto caldo e sole con la festa invernale.
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Quando arriviamo a casa provo uno shock al contrario durante questo primo, anche se breve, rientro in Italia; mi colpisce il silenzio che regna in paese, interrotto solo dallo scampanìo lontano di qualche chiesa: non me lo ricordavo più. E poi la bellezza di certe giornate terse di dicembre, l’aria frizzante e secca, il traffico ordinato, senza strombazzamenti, la guida che scivola tranquilla, senza buche e sobbalzi. Per la prima volta dopo parecchi mesi faccio la spesa al supermercato e mi rendo conto delle innumerevoli varietà di pelati, passata di pomodoro e prodotti di cui quasi mi ero dimenticata. Mi godo persino il freddo, chi l’avrebbe mai detto, visto che l’ho sempre patito; invece avvolgermi nelle sciarpe mi dà un certo piacere. Sarà anche perché so che non dura.
Gli amici ci sommergono di domande, io racconto un po’ di aneddoti, ma una parte di me vuole solo scordarsi di quell’altra vita lontana, che mi sembra piena di difficoltà e tensione, paragonata a questa che ben conosco e che mi viene facile. Non mi sembra neppure di essere io, quella là che vive in India, mi sono sdoppiata. Eppure ci sono anche altrettante cose che apprezzo, le continue sorprese, le conoscenze nuove, la scoperta di tutto quello che mi stupisce, mi sconvolge e mi stimola allo stesso tempo. D’altra parte mi accorgo anche che qui comincia a non essere più completamente casa mia: gli amici fanno riferimento a trasmissioni televisive che io in India non vedo, battute su politici di cui mi sfugge la rilevanza, nonostante cerchi di tenermi aggiornata leggendo il quotidiano online. Questo è il periodo in cui i genitori degli studenti qui, come facevo io fino a prima della partenza, cominciano a pensare al soggiorno estivo all’estero per i figli per migliorare l’inglese, cosa di cui ora non mi devo più occupare. Anzi, vorrei che i miei non scordassero l’italiano. Mi raccontano dei primi festini che i ragazzi organizzano in prima liceo con l’intervento di studenti più grandi: del timore che facciano la loro comparsa alcolici e stupefacenti. Non che a Chennai non si senta parlare di party con qualche eccesso, ma anche solo per il fatto di avere l’autista, io so sempre dove sono i miei figli e con chi, non come qui in Italia; là, diciamocelo, godono di una libertà vigilata, che tutto sommato durante l’adolescenza per un genitore può essere un vantaggio. Mi rendo conto che stiamo cominciando a viaggiare su strade diverse, e che più tempo starò lontana più sarà così. Come d’altra parte anche i miei racconti da esotici diventano presto ripetitivi.
Ma la cosa che mi mette maggiormente a disagio è la domanda delle domande: “cosa fai là?” Perché se a tutti e chiaro che Carlo lavora come avrebbe fatto in Italia, e che i ragazzi vanno a scuola come avrebbero fatto in Italia, il vero mistero sono io. Come passo il mio tempo?, come occupo le mie giornate?, e forse anche, come contribuisco al reddito familiare? Perché io in Italia ho sempre lavorato; e le amiche e le colleghe non si capacitano che ora non sia più ‘produttiva’. Oppure mi immaginano a oziare tra un caffè con le amiche e una battuta di shopping estremo. Io, invece, mi sento più stanca, stressata e messa a dura prova di quanto lo siano mio marito e i miei figli. Perché comunque loro interagiscono con un mondo internazionale di cui conoscono le regole. Per me invece ogni giorno è una sorpresa, una scoperta, una lotta per capire e farmi capire, una caccia al tesoro. Nelle giornate buone mi diverto anche, ma in quelle meno buone frustrazione fa rima con depressione. Quindi devo smontare intanto la convinzione che stare a casa coincida col passare le giornate sotto l’ombrellone o alla spa, e poi convincere che la mia ‘produttività’ consiste nel consentire una vita il più possibile priva di intoppi a tutti i membri della famiglia, cercando contemporaneamente di salvaguardare la mia salute mentale. È per questa ultima ragione, soprattutto, che do lezioni di italiano e di inglese, non certo per guadagnare; mi garantisce uno scopo intorno al quale far ruotare almeno un po’ del mio tempo, e delle interazioni con persone come me, nelle mie stesse condizioni di espatriate disorientate, che a loro volta decidono di imparare o migliorare una lingua per avere un punto fisso e una motivazione nel loro calendario. È sempre per questo che porto avanti il blog per un anno, cercando, nello scrivere per raccontare ad altri, di trovare uno sguardo oggettivo e di mettere in luce quanto di buono e divertente c’è in quello che sto vivendo.
Il tempo in Italia sembra scorrere più veloce e è già ora di ripartire, questa volta con due ‘bagagli’ importanti: la gatta, in trasferta definitiva verso l’India, e mia mamma, che si fermerà con noi qualche settimana. Partiamo di nuovo da Linate via Francoforte. La gatta non può viaggiare con noi in cabina perché è troppo pesante, quindi la consegno nella sua gabbietta all’addetto dell’area cargo da dove la imbarcheranno nella stiva. Mi piange il cuore a lasciarla lì, ma mi convinco pensando che avrebbe disturbato tutti coi suoi miagolii se fosse stata in cabina con noi. Ho pronta con me la cartellina con tutti i documenti sanitari che la riguardano: oltre al biglietto aereo abbiamo dovuto fare certificati medici che attestano la sua immunità alla rabbia. Ma nessuno mi chiede nulla: controllano le etichette applicate sulla gabbietta e basta. Allo scalo di Francoforte mi sembra di vedere il suo trasportino che viaggia su un carrello bagagli e finisce nella pancia dell’aereo per Chennai. Mia madre è tutta contenta dell’avventura, io mi intristisco un po’ a salutare l’Europa. Mi sento di nuovo lacerata, anche se questa volta so cosa mi aspetta, non c’è l’ansia della prima partenza, anzi quasi un po’ di nostalgia della mia vita indiana.
In aeroporto a Chennai superato il controllo passaporti mi riprendo dallo stordimento del viaggio quando sono nell’area bagagli: sto guardando sul nastro per vedere se la gatta apparirà insieme alle valigie quando sento il suo inconfondibile e sonorissimo miagolio, e la vedo su un carrello bagagli spinto da un facchino. Sono molto sollevata dal ritrovarla viva e vegeta. Mi viene consegnata e anche qui nessuno mi chiede nulla dei suoi certificati. Recuperiamo tutte le valigie e troviamo il fido Raghu che ci aspetta fuori. Sembra abbastanza impressionato alla vista della miciona nella sua gabbia, e la soprannomina prontamente “the tiger”.
Arriviamo a casa piuttosto stravolti dal viaggio. Dopo aver rifocillato la gatta ce ne andiamo subito a dormire, ormai sono quasi le due di notte. La mattina dopo siamo ancora tutti nel sonno profondo quanto un urlo lancinante mi fa balzare sul letto col cuore in gola. Sono circa le cinque e mezza, albeggia appena. Mi precipito in sala a guardare fuori nella direzione del mare, da dove sembra provenire l’urlo. C’è una strana foschia fuori, odore di fumo. Di nuovo l’urlo straziante ma questa volta mi accorgo che è cadenzato, e che segue il ritmo di una musica di sottofondo. Proviene dal tempio del villaggio dei pescatori, stanno celebrando qualcosa con l’accompagnamento di nenie amplificate a un numero imprecisato di decibel e roghi di non si sa bene cosa. Per mia madre è un risveglio shock. Su cosa stia succedendo avrò spiegazioni più tardi da Raghu: è Pongal, il capodanno del calendario Tamil, festa per accogliere la primavera e celebrare la fine della stagione fredda; il rituale prevede di bruciare sterpi e cose vecchie per chiudere l’anno e diramare a tutto volume canti carnatici dalle cinque alle sei tutte le mattine e tutte le sere per almeno tre settimane. Bentornati in India.
Quando riprendono le lezioni alla scuola e i figli sono fuori casa, comincio a portare mia madre un po’ in giro a fare la turista. Dopo la prima, sfortunata passeggiata fuori dall’albergo, i ragazzi hanno sviluppato una certa riluttanza ad andare a guardare cosa c’è in giro. La loro vita si svolge soprattutto a scuola, dove si fermano fin dopo le quattro del pomeriggio, dove hanno gli amici e le attività che li interessano. Così siamo io e mio marito che ogni tanto partiamo in avanscoperta e ora anche la nonna fa parte del team.
Ad essere sincera, anch’io ho subìto un certo shock iniziale. La prima uscita esplorativa con mio marito risale al periodo del soggiorno in albergo. Avevamo scoperto che, subito dietro al muro di cinta del nostro quattro stelle dotato di ogni comfort, multi ristorante, piscina e sauna inclusi, c’è un quartiere povero. Non so se si può definire slum: ci sono casupole di ogni forma e dimensione addossate una all’altra, coperte di lamiera o di foglie di palma intrecciate. La gente sta fuori sulla strada, vuoi per le dimensioni ridotte dei locali, vuoi per la temperatura all’interno, che mi immagino rovente, soprattutto in quelle ricoperte di lamiere. Fuori, gli animali domestici razzolano in simbiosi con le persone, senza distinzione di ambienti dedicati a umani o animali: polli, cani, caprette, maiali. Donne sedute sui gradini con addosso i sari; bimbi seminudi che giocano tra spazzatura e rigagnoli di liquidi non meglio identificati; uomini in piedi intorno al rivenditore di chai, il tè al latte; venditrici di fiori, che intrecciano boccioli di profumatissimo gelsomino con un’abilità manuale notevole e vendono le collane di fiori che ne ricavano su banchetti fatti con due cassette vuote sovrapposte. Intorno a loro l’aria pesante profuma intensamente, ma basta spostarsi di poco per essere di nuovo afflitti dal tanfo di spazzatura e liquami. Un po’ più avanti l’immancabile tempio, intorno al quale si agitano suonatori di trombe e tamburi e altri uomini che lanciano petali e corolle di fiori in terra per un funerale. In mezzo a tutto questo brulichìo umano, vari...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Prologo
  6. Preparativi
  7. L’impatto
  8. All’ospedale
  9. La scuola Americana
  10. In giro con l’autista
  11. Nuove conoscenze
  12. Cercasi casa disperatamente
  13. Finalmente a casa
  14. La pooja
  15. Vita da expat
  16. Guardando fuori
  17. Cosa metto in pentola
  18. Ospiti indesiderati
  19. I comfort di casa
  20. Yoga e spiritualità
  21. Astrologia e affini
  22. Gite a sud
  23. A caccia di Italia
  24. Le colline del tè
  25. Cambio casa
  26. Back “home”
  27. Tre anni dopo
  28. Ringraziamenti
  29. Crediti fotografici