Ricordo di un tempo che è stato
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Ricordo di un tempo che è stato

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Ricordo di un tempo che è stato

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L'autore, in questa sua opera, tende a descrivere, con cognizione di causa, virgole temporali di un tempo che è stato, individuando, molto paradossalmente, nella arretratezza e nel sottosviluppo sociale un' oscurantismo di un passato nel quale le disuguaglianze sociali trapelano la tetra immagine di un popolo abituato a vivere nell'ignoranza, nel malessere, nella chiusura mentale, nell'indigenza e nella penuria.
Man mano che si sfogliano le pagine di questo diario libro si ammonisce, nel profondo dell'anima, un intrinseco piacere di una lettura onesta, autentica oltre che istruttiva al tempo stesso.
Ecco allora che, a differenza di quanto viene riesumato dai libri di storia, in questo diario libro vengono citate esigue notizie, quasi incidentalmente, nei resoconti di persone del passato, di viaggiatori, di eruditi che in chiave storiografica stimolano la curiosità del lettore moderno.
In questa opera si riscoprono le vestigia e ogni singola anticaglia di un paesaggio segnato da una frequentazione umana intensa e duratura che mostra momenti di crisi acuta per i meno abbienti e di grande sviluppo per i nobili del periodo.
Un libro bello e complesso, dunque, che, pur partendo da uno scenario descritto talvolta in forma apocalittica, conserva sempre una vena di speranza per il presente, per il futuro.
Grazie alle intuizioni maturate a lungo, da parte del Gualtieri, il lettore troverà, in questo diario libro, l'innesto sacro tra il passato e il presente, per tracciare un cammino futuro che valorizzi bene ogni frammento: come per i mosaici belli, sia per la preziosità delle singole tessere che per la pianezza dell'insieme.
Così è la cultura: preziosa nel suo piccolo, vasta nei suoi infiniti orizzonti.
Buona lettura e buona riflessione, in un impegno condiviso perché la nostra bella terra si trasformi sempre più in giardino, amato e sposato.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788892673274
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Di quegli anni felici, ricordo tutto: la povertà dignitosa, il calore dei rapporti umani, in quella civiltà esclusivamente agricola, il valore dell’olio d'oliva, come capitale e merce di scambio;
il valore dell’ulivo in sé, come pianta simbolica e suggestiva. Ricordo la fatica, il sacrificio, nel raccogliere le olive che man mano cadevano, a partire dall’autunno. Occorreva restar chinati dall’alba al tramonto per riempire un “tomolo”, la misura locale che non so più a cosa corrisponda. Da lontano, spesso, mi soffermavo a guardare paesaggi caratteristici ed inusuali, rilievi di modesta altezza e a morfologia arrotondata: cento colline, ognuna di colore diverso, costituite, per lo più, da fasci di catene parallele con direzione e lunghezza variabile e discontinua.
In realtà, le colline non erano altro che le tante schiene piegate, accovacciate su se stesse, delle donne raccoglitrici d’olive: sembravano piccole collinette attaccate nel terreno. Ricordo che nelle giornate belle, serene, dove il sole si mostrava in tutta la sua fierezza, illuminando e scaldando ogni centimetro quadrato del suolo e del corpo umano, era consuetudine effettuare l’abbacchiatura, ossia una tecnica rudimentale che consisteva nel battere con una lunga pertica i rami dell’albero di olivo, cercando di buttare a terra più olive possibili. I terreni venivano ricoperti da migliaia di olive e foglie sparsi ovunque, Le stradine, i viali, si perdevano sotto uno omogeneo prato verde argento, verde olivo, non si sapeva dove mettere i piedi. Il verde era il colore dominante in terra, mentre in cielo faceva da cornice. Tutto era verde, anche l’aria che si respirava sapeva di verde campagna. La natura era non solo intorno a noi, ma soprattutto dentro di noi;
avvertivamo il momento dominato dalle leggi eterne della natura, la potenza generatrice, la pace solenne di un momento magico. Ricordo che la tecnica dell’ abbacchiatura era molto apprezzata per due motivi fondamentali:
a) il primo era basato prettamente su un parametro economico: una maggiore raccolta a discapito di un minor impiego di manodopera, significava guadagno netto e sicuro per l’imprenditore, per le aziende, per poche famiglie fortunate;
b) il secondo parametro, invece, riguardava l’aspetto qualitativo del prodotto finito, cioè l’olio. Era ormai noto che, l’olivo raccolto direttamente dall’albero, non rimanendo a lungo contatto con il terreno, non era suscettibile ad alcun arricchimento di acidità; questo voleva significare una produzione di olio extravergine dal gusto raffinato, un fruttato leggero dalle ottime qualità organolettiche: un prodotto DOC che si presentava, naturalmente, accattivante agli occhi della potenziale clientela. Ricordo che le chiome degli alberi erano vittime dei colpi di pertica che l’operaio impartiva con molta forza, dieci, cento, mille frustate per vincere uno scontro che si mostrava duro e faticoso. Sembrava di essere, in codeste giornate, in una competizione olimpionica, dove ogni atleta cercava di trionfare sul rivale, attraverso un gioco complesso che si celebrava in onore del prodotto divino "l'olio”. Il silenzio era padrone, mentre il sudore segnava la fatica quasi eroica degli uomini gladiatori, dove al posto delle spade vi erano le pertiche, dove al posto del sangue vi era l’olivo.
Mi sembrava di vivere nel passato, la generosa semplicità di un lavoro umile e prezioso come l’oro, legato a giorni, a momenti lontani, ma che per fortuna non aveva perso la freschezza originaria di un tempo bello che è stato. L'atto del ricordarsi l'affetto sacro di persone del passato attraverso il lavoro, richiama alla memoria il piacere, il sapore del tempo che passa inesorabile sopra ogni cosa, luce, buio, spazio, vita, ma che per fortuna sopravvive attraverso il ricordo, la reminiscenza. Non ci si annoiava mai, le giornate lavorative, arricchite da un continuo avvicendarsi di eventi sempre nuovi, sempre tanti, scorrevano in modo omogeneo, fluido, traboccanti di magia. Durante la raccolta dell’ olive, ricordo che le giornate lavorative, erano condizionate da alcuni avvenimenti, o fenomeni, caratterizzati rispettivamente da un alternarsi continuo tra momenti di quiescenza, che si vivevano soprattutto all’inizio della giornata lavorativa e momenti di aspirazione, di espansione, di esplosione dell’animo. Il momento di quiescenza era caratterizzato dalle chiacchiere infinite delle donne operaie, le quali dovevano sapere tutto di tutti e di tutto. Momento di curiosità, in cui gli argomenti erano tanti, mirati tutti alla ricerca di un indizio, segno, prova a ragione che si adducesse a sostegno di una tesi: il pettegolezzo, basato sull’ apprendimento dei fatti altrui del mondo conosciuto. Il secondo avvenimento, invece, riguardava la vena
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artistica che era insita nell’ animo della donna lavoratrice, il canto, eseguito spesso con l’intento di :
a)eludere la realtà dal “contesto lavoro”;
b)eludere la fatica attraverso un complesso raffinato e spontaneo di un’ esibizione canora, libera ed improvvisata. Ricordo che i loro canti erano delle vere esibizioni teatrali, cantate in una lingua a me sconosciuta, capaci di emettere tuttavia con voce modulata, una successione armonica di suoni.
Uno stile nuovo, unico, un’ espressione del canto, composta musicalmente da più voci, senza accompagnamento musicale, il tutto abbellito da quella sola testimonianza di una vocalizzazione sobriamente “ornata” dall’ arte del bel canto.
L'originaria varietà ritmica disegnava una melodia, che serviva da base, per una costruzione contrappuntista che veniva generalmente eseguita in valori lunghi: una tecnica di composizione di grande varietà, dal ritmo delicato, originario, che non poteva trovare una precisa fissazione grafica e/o geografica. Ogni singola “esibizione” racchiudeva una tecnica belcantistica con il fine ultimo di condizionare il gusto verista e sensibile della giornata di lavoro, che era lunga e faticosa. Spesso capitava, però, che tra una chiacchiera ed una esibizione del bel canto, oltre lo svolgimento lavorativo quotidiano che si dipanava in aperta campagna e durante il periodo autunnale, ci si imbatteva in perturbazioni improvvise ed inattese. I silenzi attoniti, ricordo, che, invadevano l’intero paesaggio, si udivano solo i fischi acuti del vento, lo scroscio delle chiome degli alberi che si scontravano come se volessero farsi la guerra; il respiro angosciato e freddo di tutti noi che avvertivamo il cambiamento improvviso da canto a rumore: era arrivato l’ inverno, un fulmine a ciel sereno. Il cielo spariva sotto un ammasso di vapori densi, dal colore cupo e triste, sospesi nell'aria ad alta quota;
i "venti erano maligni", violenti, soffiavano, urlavano come dieci, cento, mille trombe; un’ orchestra impacciata, stonata, scoordinata: “ mille note fredde proiettate sulla fronde intrecciata degli alberi”. Vedevo i rami degli alberi di olivo, grandi e piccoli, oscillare prima a destra poi a sinistra, ma per fortuna, non si rompevano mai. Ogni mattino, del dì lavorativo, ricordo che, istintivamente, ancor prima di scendere dal letto speravo di non sentire, di non udire
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il soffio lamentoso, cupo, del vento. A malincuore, però, ricordo, come per dispetto, che la mattina il vento soffiava ancora più forte, come se cercasse di arrecarmi offesa. Simili a delle corde di chitarra, pizzicate trasversalmente negli stretti vicoli della cittadina ancora addormentata, il vento mattutino, ad ogni suo soffio, eseguiva delle intonazioni tagliate, fastidiose poco armoniche: un soffio scomposto, prolungato, provocato da madre natura per creare spavento. Con molta mestizia, ricordo, lo spostamento rapido ed intenso del vento, il vento secco, freddo e impetuoso, il vento di tramontana, che spirava da settentrione, provocando depressioni cicloniche e abbassamenti di temperatura, che tutti noi, nonostante i vestiti, avvertivamo, come tanti pugnali, sulla pelle e nelle ossa. Ma, ad alimentare quel freddo estremo, che rompeva le ossa, congelava l’anima, era il fenomeno quasi enigmatico della nebbia: dieci, cento, mille, diecimila goccioline infinitamente piccole che scendendo verso il suolo, con una lentezza tale da rimanere praticamente sospese nell’aria, davano vita ad un fenomeno opprimente che riusciva a creare sensazioni di impotenza, di disorientamento totale. I rumori giungevano attutiti o deformati; gli esseri viventi, gli oggetti, tutto ciò che veniva ingoiato da quella nuvola silenziosa, sdraiata per terra, diventavano sagome informi, irriconoscibili che emergevano improvvisamente dal nulla; un attimo di disattenzione provocava l’immediata perdita dell’orientamento, per cui una via familiare si trasformava in un ambiente estraneo: perfino la luce di un faro assumeva caratteristiche irreali, ingannatrici. Tuttavia, il freddo estremo, il fenomeno enigmatico della nebbia venivano soggiogati da un altro evento fenomenico di madre natura: il temporale improvviso. Al di là del fuoco, ricordo, che tutto si confondeva in una tenebra nera. Vicino all’orizzonte lampeggiavano rapidi bagliori;
tra i rami degli uliveti si diffondeva inizialmente un suono, come un debole gemito, un sospiro. A tutti noi, lavoratori e non, parea di sentir sulle gote un soffio vago che ci faceva rabbrividire, come se aleggiasse sopra le nostre teste lo spirito della notte. Una pausa, seguita da un lampo vivissimo illuminava come in pieno giorno, tanto da distinguere il minimo filo d’erba. Nell’aria, intanto, passava un minaccioso rimbombo di tuono che si andava a spegnere lontano in un brontolio cupo. Un soffio di vento metteva nel fogliame un brivido freddo, sollevando intorno al fuoco le ceneri, leggere come fiocchi di neve. Un secondo lampo illuminava la foresta, seguita questa volta senza intervallo da uno scoppio di tuono che parea schiantarsi tra le vette degli alberi sopra le nostre teste. Qualche gocciolina schiaffeggiava le foglie; il vento furioso passava sugli alberi con un coro di mille ruggiti. Si incalzavano i lampi abbaglianti seguiti dallo scroscio assordante del tuono.
La pioggia veniva giù a torrenti, a falde oblique, talora orizzontali, mentre tutti noi, agghiacciati, fradici d’acqua, spauriti, inciampando nelle radici affioranti, intricandoci nelle pendule liane, con qualche capitombolo e conseguenti ammaccature, cercavamo un riparo da quella improvvisa e violenta perturbazione, ricca di lampi, tuoni e scrosci inattesi. Tuttavia, l’immagine letteraria del paesaggio, non era solo legata allo scenario straordinario della raccolta delle olive, ma trovava riscontro anche in tanti aspetti naturalistici molto particolari: “come, per esempio, i versanti dei monti limitrofi, ricoperti da boschi di lecci, aceri, faggi, arricchiti dalla diversità, molto varia, di piante, dovuta e caratterizzata da microambienti molto diversi in funzione della diversa esposizione dei luoghi”. Una riserva naturale che offriva un insieme di sentieri, percorsi che consentivano l’ingresso nell’ ambiente tranquillo ed ospitale della piccola montagna, legata alla morfologia carsica, con la presenza di grotte, insenature, ripidi pendii, sparsi d’ovunque. Ricordo il gorgoglio d’acqua dei torrenti occasionali frutto delle piogge invernali, che si facevano strada lungo i sentieri aperti dai cervi, dai cinghiali, dalle volpi, nella vegetazione, per poi sfociare sulle sponde di un piccolo lago dorato. L’intero bosco profumava di fiori, e gli uccelli cinguettavano allegramente. Tuttavia, però, il bosco, con il suo faggeto, il suo querceto, le sue infinite piante erbacee ed arboree, per quanto bello poteva essere, ai miei occhi si mostrava come il giorno e la notte, un unico ambiente dalle doppie facce: a) una faccia chiara come la luce del giorno, dove tutto appariva per quello che realmente era, dalle piante, ai fiori, dalle insenature, ai panorami idilliaci, che cumulati in un unico quadro, davano vita a quello aspetto divino dell’entroterra boschivo; b) l’altra faccia, meno chiara, lugubre come la notte, mostrava un luogo ingannevole, quasi irreale dove i sensi si acuivano al massimo per trovare un indizio, un segnale banale capace di omettere quel silenzio attonito che tutto catturava, che tutto imbrigliava. Ricordo che ogni mia singola esplorazione di un luogo sconosciuto, inesplorato, del piccolo bosco, alla ricerca di nuove avventure, come indagatore provetto, maturava la particolarità di un avvenimento insolito man mano che m’inoltravo nel cuore della selva: il suono calmo, freddo, silenzioso, diventando sempre più cupo, più fosco, più tacito, senza pietà, si insinuava sotto pelle, sotto forma di adrenalina fredda e pungente. L’anomalo effetto acustico, espandendosi nel bosco, si imponeva, con autorità, sul vocalizzo magico del canto degli uccelli, sullo stormire frusciante di una fronda mossa dal vento; un silenzio, dunque, che ammutoliva la voce vitale del bosco azzittendo il canto magico, prodigioso della natura. Ricordo, durante il tragitto magico di quelle esplorazioni prive di meta, oltre che di un logico itinerario di ventura, una solitudine tremenda dominare il luogo, lo spazio, il momento. Come un appunto scritto nella memoria, ricordo che per non smarrire la strada e smarrirmi, in quella solitudine estrema, mi soffermavo, per pochi istanti, a scrutare con attenzione quasi angosciosa tutto quello che mi circondava: dagli alberi agli arbusti, dai fiori ai piccoli fili d’erba, dai funghi ai boccioli, fino alle criniere sterminate delle corolle, per poi perdermi nella grazia divina dell’oro del sole. Con questo semplice stratagemma riuscivo ad illuminare il mio animo avvertendo una sensazione di pace, dove la stessa aria che mi circondava diventava straordinariamente calma, quieta, limpida. Tuttavia, l’arguto stratagemma che mi permetteva di rinvigorire lo spirito di robusta energia, si mostrava, in men che non si dica, un astuzia insufficiente per ingannar...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Presentazione libro: Relazione;
  5. Lettera: Tempo Malinconico;
  6. Proemio: Il Tempo;
  7. Prefazione: La Favola dell’Olio & del Pane Nero;
  8. Introduzione: Primo Capitolo;
  9. Capitolo Primo: Ricordo di un Tempo che è Stato;
  10. Poesia: Un attimo di sole;
  11. Simbolo di Pace: Narrazione Biblica, Introduzione Capitolo secondo & terzo;
  12. Capitolo Secondo: La Favola Dell’Olio;
  13. Capitolo Terzo: La Magia del Pane Nero;
  14. Poesia: Vieto Signore;
  15. Poesia: Terra che ho sempre Amato;
  16. Biografia