CAPITOLO II
I MIEI OCCHI SU ISRAELE
Neanche due anni fa compio un nuovo viaggio in Israele con l’Associazione Amici d’Israele. È un viaggio particolare perché si delinea come viaggio di solidarietà al popolo ebraico e a tutta Israele all’indomani del conflitto dell’estate 2014, conflitto che ha provato tutto il popolo e ha segnato la quotidianità di tutti i bambini con il suono incessante delle sirene che annunciavano l’arrivo dei missili sulle aree abitate.
12-19 Elul 5774 (2014, dal settimo al quattordicesimo giorno di settembre)
1. Israele comincia a Tel Aviv, precisamente al Ben Gurion
Ricordo la prima volta che mi ci sono trovata, era pieno di bandiere, la luce dell’alba rendeva la terra rosa, l’aria ancora fresca profumava di mare. Mi sono sentita immediatamente a casa. Ed è così ogni volta. Percorro l’aeroporto e sono a casa, immediatamente sento crescere dentro di me un’energia morbida e accogliente, non ho bisogno di essere diversa da chi sono, posso finalmente lasciarmi essere. Mi ritrovo a sorridere e riconosco nella traccia che i miei muscoli descrivono esattamente la gioia dell’infanzia, quella che non hai bisogno di dire perché c’è e nessuno te la può portare via, arriva così per un motivo che non conosci, ti allarga gli occhi e alza gli angoli della bocca.
Eccola qui: cielo azzurro, palazzi bianchi, alte torri e case basse a tratti un po’ incasinate, la spiaggia morbida e larga.
A Tel Aviv sembra che tutti pratichino sport, chiunque corre, per lo più con il telefono agganciato al braccio per verificare l’allenamento, non ci sono limiti di età o di dimensione, si corre in scioltezza.
Incontro anche coppie di religiosi, giovanissimi passeggiano mantenendo una prudente distanza, hanno visi così fiduciosi e aperti, mi viene da credere che il loro non possa che essere un incontro perfetto, preludio di un matrimonio riuscito.
I parchi verdi, i locali, le gallerie d’arte, i negozi, i palazzi di metallo accanto a edifici piccoli che raccontano come questa città sia nata all’inizio del secolo scorso dalle dune di sabbia del deserto che incontravano il mare. Giovane e vitale, riesce a raccontare l’ostinazione israeliana forse meglio di Gerusalemme. Tel Aviv descrive esattamente cosa succede quando l’identità ebraica della diaspora si incontra con la possibilità di divenire una città. Raccoglie tutti i pregi e tutti i difetti di tutto il mondo, ma ciò che davvero fa la differenza sono le persone che la abitano. Non so se sia perché tutte le ragazze fanno il servizio militare o se sia perché sono abituate a minacce ben più grandi, ma ciò che trovo bello è la scioltezza e la tranquillità con cui una ragazza minuta e molto più giovane di me affronta la presenza molesta di un uomo un po’ fuori di testa che poco prima mi si è avvicinato mandandomi a fan’culo in inglese per essere certo di essere compreso, spaventandomi nonostante non fossi sola. Parlando con alcune donne israeliane mi rendo conto che non hanno paura o, meglio, hanno paura di cose delle quali non si può non avere paura, come una pioggia di razzi sulla testa, il fatto che i loro figli siano al fronte, che i bambini possano non essere al sicuro all’asilo. Ma non hanno paura degli altri. Non hanno paura dell’altro in qualunque modo si mostri loro. Questo rende estremamente sicura Israele. Sembra un paradosso, eppure girare di notte nelle città israeliane è molto più sicuro che girare di notte in qualsiasi città piccola, media o grande italiana.
Nel corso di questo viaggio, per la prima volta, sono andata al museo costruito in memoria di Rabin, ho trovato molto interessante la possibilità che questo luogo offre di ripercorrere in maniera sinottica la storia mondiale, quella di Israele e quella di Rabin. La dolorosissima vicenda dell’uccisione di quest’uomo così importante per Israele ha aperto una spaccatura, ha segnato profondamente la coscienza, la vita, la dimensione di questo Paese. Fino a quel momento, in Israele, nessun uomo politico aveva mai avuto alcun tipo di protezione, per chiunque era sempre stato possibile incrociare i Capi di Stato e i membri del Governo per strada, parlare con loro come si fa con chiunque altro. In Israele si era convinti che mai un ebreo avrebbe ucciso un altro ebreo e questo offriva alla società una dimensione di condivisione e di cooperazione assoluta. Rabin ha fatto qualcosa di sicuramente grandioso, ma per farlo ha dovuto affrontare qualcosa di altrettanto incomprensibile per molti: ha trattato con Yasser Arafat, con un terrorista, con il mandante e l’esecutore di moltissime stragi che avevano colpito ebrei fuori e dentro Israele. Rabin, come accade ai veri grandi leader, ha fatto qualcosa di storico in anticipo sui tempi, talmente in anticipo che il processo da lui avviato non si è ancora concluso. Attraversando le sale del museo ho raccolto la possibilità di guardare all’uccisione di Rabin da più punti di vista e il dolore per la perdita della sua vita, per l’assurdità del gesto compiuto, si è raccolto attorno al dolore ancora più grande per il cambiamento che questo ha prodotto nella società israeliana.
Nel pensare a se stessa Israele si confronta con questo episodio, così come si confronta con ogni singola azione compiuta, spesso anche con azioni che non ha compiuto cui però le viene chiesto di rispondere.
Israele è una nazione giovane e antichissima, questo la rende vigorosa e saggia ma anche fragile e pesante. Ciò che la rende viva ed energica è la capacità di essere tutte queste cose e molte altre senza paura, la profondità della radice e la volontà di andare avanti, non lasciarsi fermare dal dolore e dalla fatica, farne tesoro, farne la propria forza senza rinunciare mai alla gioia, ai colori, alle contraddizioni, alle differenze.
Non credo si tratti di una nazione perfetta, non credo che il popolo israeliano sia un popolo di santi o di super-uomini e superdonne. Siamo una nazione, forse questo davvero ci rende differenti. La nazione più antica del mondo.
2. L’anno prossimo a Gerusalemme. No: ora!
Gerusalemme è bianca e azzurra, gialla e rosa all’alba, arancio e blu al tramonto. Gerusalemme è la frutta polposa e grande, il pesce iridescente, i sacchi enormi di spezie e semi, il profumo di pane accatastato in montagne generose e calde, i dolci lucidi di miele, gli uomini che fanno la spesa al mattino, il venerdì con tutti i figli al seguito perché le donne sono a casa a preparare lo Shabbat. Gerusalemme è levigata e solida, le strade scivolano sotto i piedi e si arrotondano tra saliscendi continui. Gerusalemme è l’ostinazione dei parchi cittadini, dove puoi sederti e guardarla dentro e nello stesso tempo fuori. Gerusalemme è la confusione un po’ decadente di alcuni quartieri che ancora sembrano dediti al rappezzo. Gerusalemme è la tensione della contesa che si esprime e si declina nel differente modo di abitarla.
L’arroganza della Spianata delle Moschee (Monte del Tempio), inaccessibile e urlante della preghiera dei muezin.
L’asciutta possibilità del Kotel (conosciuto come Muro Occidentale o, più impropriamente, come Muro del Pianto) che resta a mostrare la magnificenza dell’antico Tempio, contatto vivo con il trascendente, esperienza religiosa anche per chi crede di non essere religioso. Appoggio le mani e la fronte sulla sua pietra e mi abbandono al silenzio della preghiera, intorno a me le donne sono raccolte dentro i piccoli libri di preghiera, il sole è rovente, scioglie, non sento caldo, soltanto la densità piena dello Shalom.
L’anno sta per finire, manca poco a rosh haShana, ovunque montagne di rimonim (“melograni”), spremute per dare sollievo a chi si trova per le vie. Il succo di questi frutti, che per la tradizione contengono seicentotredici semi come il numero delle mitzvot (“precetti”), ne ha in un certo senso il sapore: rinfresca, rigenera ma è anche sottilmente aspro e annoda leggermente la bocca, quando l’hai provato non riesci più a farne a meno, ne impari la presenza in te.
La sera dopo cena usciamo per una passeggiata, veniamo catturati da un canto festoso, una kuppà (il baldacchino sotto cui gli sposi si scambiano le promesse matrimoniali) in un prato accanto a una sinagoga, gli uomini accompagnano lo sposo danzando, poco dopo vediamo comparire la sposa: regale, velata, lucente e luminosa incede verso di lui. Il pomeriggio del giorno successivo incontriamo un’altra sposa.
A Gerusalemme, in Israele, i giovani si sposano, hanno figli che imparano presto l’impegno e la gioia di essere lì. Mentre l’Europa è stanca e cinica e i giovani europei invecchiano prima di diventare grandi, in Israele si vive e si dà la vita, con consapevole gioia di esistere.
Troviamo la città vecchia, soprattutto la parte araba con i suoi budelli di suk, vuota di turisti. Il recente conflitto, la tensione che ancora abita la parte est ne ha bloccato il flusso, anche quello religioso. Per me è piuttosto rilassante questa assenza, anche se descrive con precisione la natura avida di chi innesca il conflitto danneggiando quello che dovrebbe considerare il proprio popolo.
Di nuovo vengo accolta nel ventre di Gerusalemme, scendo e attraverso il percorso dell’acqua incanalata alle abitazioni attraverso un antichissimo percorso, il tunnel di Ezechia. La sorgente di Ghihion si trova sul pendio ovest della valle di Chidron, presso la Città di Davide, gli scavi raccontano e incontrano gli episodi del Tanak (la Bibbia) confermando l’esistenza della nostra storia dentro di lei. Mi piacciono il fresco umido, la discesa repentina, il buio assoluto dell’acqua fredda. Mi è capitato di andare dentro la terra di altre città nel mondo avvertendone la natura mutevole e magmatica: Gerusalemme è una roccia, è forte e potente, assoluta, non scivola, non si nasconde, si manifesta. Credo sia questa sua identità epifanica a renderla contesa. Credo, altresì, sia la capacità ebraica di dire la presenza di D-o nella totale assenza di immagini a definire Gerusalemme capitale d’Israele, Israele stessa.
La luce a Gerusalemme è unica e non si nasconde mai neppure la notte. Accartocciate le parole grumose e gutturali dell’ebraico, sono l’unico suono possibile dentro il vento che si leva rinfrescante come una carezza materna sul far della sera.
Non posso dire Gerusalemme, le parole che conosco sono inadatte, posso soltanto continuare a ricordarla dopo averla a lungo cercata.
Se dovessi dimenticarti, gerusalemme, possa la mia mano destra dimenticare [come muoversi], possa la mia lingua rimanere attaccata al mio palato se non conserverò il tuo ricordo, se non dovessi elevare gerusa lemme al di sopra della mia [più grande] gioia (Salmo CXXXVII, 5-6).
3. Yam haMelah, il Mare di Sale
Esco da Gerusalemme per andare verso Yam haMelah, il Mare di Sale (ovvero il Mar Morto), rapidamente mi circonda il deserto, pochi chilometri per scivolare nella depressione.
La strada pare tagliare la terra, a tratti ai lati se ne vede la stratificazione, la densità. Boschi di palme da dattero, verdi e rigogliose, circondate dal deserto.
La mente non è in grado di tradurre ciò che il corpo impara immediatamente: sono sotto il mare e vedo il mare sotto di me. I colori si trasformano, il blu del cielo è caldo, ha una consistenza più morbida. Il silenzio è liquido, oleoso. La roccia e la polvere del deserto possono essere rosa, sabbia, acqua marina, fiore che si trasforma in pietra trasparente.
Mosè salì dalle pianure di Moàv fin sul monte Nevò, sulla sommità della vetta, di fronte a gerico. E l’Eterno gli mostrò tutto il paese.
Mi trovo dentro la terra che Mosè abbracciò con lo sguardo, la Terra alla quale condusse il popolo che attraversò il Giordano di fronte a Gerico. Nel percorrere quei luoghi posso soltanto ascoltare il silenzio, immaginare ciò che avvenne. Le parashot che chiudono il ciclo annuale di letture della Torà mi riportano le parole di Mosè, sento tutta la tenerezza e la forza, l’ostinazione e la dolcezza della profonda relazione che, attraverso lui, conduce Israele a se stessa, completamente.
Mi immergo nelle acque del Mare di Sale e mi abbandono, sono sdraiata dentro l’utero della terra. Questo luogo raccoglie in sé un’intensità potente, simile a quella di generare che è in ogni donna. Israele nasce alla vita dopo una lunga gestazione (quaranta anni le sue quaranta settimane), Mosè è madre e padre del nostro popolo. Ciò che mi commuove profondamente è la capacità di Mosè, come quella delle madri, di dare i propri figli al mondo, privarsi del legame viscerale e da quel momento dare a loro, a noi, la possibilità di esistere, decidere, essere.
Uscire dalla schiavitù è difficile, è un cammino che siamo chiamati a ripercorrere, riscegliere e conoscere continuamente nella nostra vita. La Torà ci dona lo strumento ma ci racconta anche i...