IV
IL LABIRINTO DI INTERNET
Il campo nel quale il rapporto tra velocità e lentezza sembra trovare il suo punto di maggior conflitto è quello delle nuove tecnologie e, in particolare, di internet. Un campo dove lo scompaginamento del modo di pensare e di vivere il tempo e lo spazio si attua in modo radicale. Di fronte alla velocità e alla potenza di tecnologie che ci danno il senso dell’ubiquità (possiamo stare, virtualmente, in diverse parti del mondo nello stesso momento) e sconvolgono la scansione del nostro ritmo di vita, il pensiero lento sembrerebbe, a prima vista, pressoché disarmato. Potrebbe, infatti, opporre allo strapotere elettronico solo capacità di analisi, sintesi e immaginazione legate ad un ritmo biologico, quello dell’uomo, che ha bisogno di condizioni favorevoli e di lungo tempo per affrontare problemi, argomentare concetti, creare parole e suoni, costruire immagini. Una battaglia perduta in partenza, se di battaglia si trattasse.
In soccorso del pensiero lento viene la sua natura di «costruzione antisismica»1, il suo non sentirsi in competizione con il mondo e, quindi, neanche con la scienza e con la tecnica. Così come gli è d’aiuto il comprendere le ragioni della velocità, sapendone discernere l’oggettiva necessità (…accelerare quando occorre...) e la valenza trasgressiva da quanto di deformante viene invece iniettato in essa dalle esigenze della competizione forsennata e del connesso consumismo. Il pensiero lento, pur accompagnandosi sempre alla sua costitutiva inquietudine2, è perciò in grado di andare incontro senza tremare all’immane potenza dell’elettronica, tanto fuori che dentro la scuola. Affronta senza batter ciglio il turbinio informatico. All’interno del quale si muove a piè fermo, diremmo con un ossimoro. Poi, siccome è un pensiero fondamentalmente non competitivo (nel senso che non contiene il demone dell’affermazione del proprio dominio) e siccome mira alla cooperazione, cerca un punto di incontro.
È ormai constatazione diffusa che l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie mediatiche vada instaurando nuove modalità nelle relazioni interpersonali e producendo modificazioni nel modo di pensare, di agire, di vivere di strati sempre più larghi della popolazione mondiale. E vada creando, anche, problemi nuovi di dipendenza e di rapporti con il reale. Una tale incalzante novità ha, ovviamente, generato effetti nella educazione e nella formazione delle nuove generazioni ed ha investito, di conseguenza, anche la vita scolastica.
Si pone, perciò, il tema del rapporto tra i nuovi ambiti relazionali, in particolare internet, e la scuola. Un tema che può esser affrontato su diversi versanti: l’azione della scuola per prevenire le patologie e formare alla sicurezza nella navigazione in rete, l’utilizzo delle tecnologie informatiche nell’insegnamento-apprendimento, la riflessione sui nuovi alfabeti in rapporto all’azione educativa (alla formazione della persona capace di stare al mondo con il proprio sé), il contributo della scuola alla formazione di una coscienza civica, e in generale alla vita democratica, all’altezza dei tempi.
Prevenzione e sicurezza
La velocità con la quale l’elettronica, soprattutto nei suoi più recenti sviluppi, va permeando ambiti sempre più estesi della vita sociale ed individuale, ha generato un comprensibile smarrimento fra le generazioni che sono cresciute prima di questa esplosione tecnologica. E lo smarrimento, si sa, porta spesso con sé ansie e timori, più o meno giustificati. Ma il fatto di nascere e di crescere nel mentre il digitale si afferma non rende immuni da rischi, anche seri, le nuove generazioni che, per quanto possa sembrare strano, hanno anch’esse i loro problemi nel relazionarsi con i mezzi digitali.
Tali problemi danno a volte luogo a vere e proprie patologie, legate soprattutto all’uso di internet. Patologie che, è bene precisare, non mietono vittime solo tra i giovani. Anche gli adulti si lasciano spesso sedurre dal fascino di navigazioni che, in certi casi, non riescono più a controllare, fino a sprofondare nella dipendenza (specialmente riguardo al gioco e alla pornografia). Ma quel che più preoccupa gli educatori è il progressivo estendersi dei tentacoli della rete sui bambini.
Perciò, man mano che l’età dei frequentatori abituali di internet si abbassa e che la navigazione in rete soppianta aree tradizionalmente appannaggio delle relazioni umane, si intensificano ricerche e pubblicazioni che mettono in guardia dalle patologie connesse all’uso eccessivo di tale mezzo. È un terreno sul quale il discorso educativo si inoltra con qualche riluttanza, per diverse ragioni. La prima viene dal necessario atteggiamento critico verso la diffusa “cultura terapeutica” cui abbiamo già accennato, indotta da interessi economici e politici di vario genere, che trasforma i problemi in malattie3. La seconda è che il concetto di “patologia” si modifica nei luoghi e nei tempi: stati fisici e comportamenti personali una volta considerati malattie oggi vengono ritenuti “normali” e viceversa. La terza, più sostanziale, è che l’educazione, per sua natura, non attiene alle patologie: ci si imbatte, deve considerarle, ma non muove dall’ambito delle patologie, bensì da un ottimismo di fondo: in ognuno di noi c’è una ricchezza che deve essere portata alla luce4.
Le precisazioni sin qui esposte concorrono ad evitare di associare tout-court internet alla sfera della patologia, secondo una tendenza diffusa soprattutto tra chi la5 teme perché non ne ha conoscenza. In realtà l’uso di internet può definirsi patologico solo se ricorrono certe condizioni6. Accade anche che su internet trovino sfogo (e qualche volta alimento) patologie o disagi che hanno origine in altri campi dell’ esperienza di vita. Così come accade che vengano sbrigativamente etichettati come patologie legate all’uso di internet fenomeni che invece sono legati alle difficoltà che ogni crescita comporta.
Tutto ciò non autorizza, ovviamente, la scuola a chiamarsi fuori dall’interrogarsi sul suo ruolo nella prevenzione delle dipendenze. Cosa può dunque fare la scuola in tale ambito? In primo luogo quello che dovrebbe fare anche se internet non esistesse: contribuire alla creazione di un contesto educativo sano, con un’azione che coinvolga anche le famiglie e settori della società.
Secondo: non vivere internet come un’entità che disturbi questo compito, ma considerarla come uno degli aspetti del mondo nel quale i ragazzi si formano, come uno strumento che non produce patologie in sé, ma che presenta rischi ed offre possibilità (non dimenticando, però, che il mezzo ha una sua forza intrinseca che modifica il modo di essere e di ragionare dell’uomo)7.
Un terzo campo riguarda l’avere una cura particolare nel cogliere i sintomi di possibili tratti patologici, facendo molta attenzione a non prendere fischi per fiaschi cadendo nelle trappole della cultura terapeutica. Per esempio, evitando di attribuire senza indugio il rendimento scolastico basso allo “stordimento” derivante dalla frequenza eccessiva di internet. Stordimento che darebbe luogo ad una “svogliatezza” che sa di malaticcio e che rappresenta un alibi per gli insegnanti più superficiali, che – ricordando a se stessi di non essere dei medici – si sentono sollevati dall’impegno supplementare che lo “svogliato” richiede. Si abdica, così, ad un compito che l’insegnante deve e può affrontare, ove rifletta sul fatto che suo compito non è propinare cure mediche ma che la dimensione della scuola è il curare nel senso latino, il prendersi cura, non l’intervenire sulla malattia. E, prendendosi cura, si può arrivare a scorgere le ragioni per le quali certi ragazzi a scuola sembrano così abulici e distanti da quanto si va facendo. Ragioni che possono essere collegate all’uso di internet, ma che possono anche avere tutt’altra origine.
Infine, la scuola dovrebbe ragionare chiedendosi se la prevenzione debba esplicarsi anche in interventi specifici sull’uso di internet. Vale a dire che non deve abbandonarsi alla petulante euforia prodotta dalla «spensierata inventiva dei tecnici e degli ingegneri»8, portati a ritenere che, per sentirsi all’altezza dei tempi, basti introdurre le nuove tecnologie nelle scuole, senza interrogarsi su quel che ne consegue per adulti e ragazzi.
Nativi, immigrati e sans-papiers
Prioritario ad ogni discorso sull’utilizzo delle nuove tecnologie nell’attività didattica è il superamento della frattura comunicativa che si riscontra fra le generazioni di docenti e studenti. Un numero non esiguo di insegnanti tende ad assumere un angolo visuale dal quale internet sembra un corpo estraneo che interviene inopinatamente a minacciare il normale decorso della civiltà umana. Se ne enfatizza, così, anche la potenza negativa, finendo con il sottovalutare una banalissima considerazione: che internet non piomba in un mondo “disarmato”, vuoto e piatto, abitato da personalità asettiche che aspettano solo di essere rimorchiate da qualcuno o da qualcosa. L’infanzia, l’adolescenza e la pubertà, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia, il declino, preesistono ad internet e sono parte di uno smisurato giacimento culturale che l’umanità porta con sé. È in rapporto a questo giacimento epocale di cui ogni uomo porta traccia che va visto il fenomeno. Si tende spesso a subirlo, invece, come una divinità che ineluttabilmente detterà all’uomo il suo modo di essere, di stare al mondo, di organizzare la vista sulla realtà. O, anche, come una minaccia che viene a distruggere quanto l’uomo ha faticosamente accumulato di buono nel corso dei secoli.
C’è, dunque, una storia della civiltà che è in grado di incontrare le nuove tecnologie, e le nuove forme di relazione umana, senza naufragare nel panico di una presunta minaccia distruttiva9. Nel corso di questa storia molte invenzioni ne hanno soppiantato altre, rivoluzionando il modo di vivere degli uomini, modificando la prospettiva dalla quale guardare il mondo ed abitarlo. Poi l’invenzione ha fatto il suo tempo e l’uomo è rimasto (mentre l’invenzione è caduta in disuso). Questa ovvia considerazione non deve, però, tranquillizzarci eccessivamente: la novità di oggi potrebbe consistere nel fatto che l’uomo si modifichi al punto da diventare subalterno al mezzo, da acquisire le caratteristiche, le logiche e le modalità comunicative del mezzo stesso, per cui in futuro potrebbe essere il mezzo a decidere come e quanto modificarsi, trascinandosi dietro un uomo psicologicamente e culturalmente asservito. Su questa ipotesi, che una volta era fantascienza, oggi si interrogano scienziati, antropologi, filosofi, economisti, psicologi10.
Certo, un tempo le cose stavano, almeno in apparenza, in modo più semplice: la scuola era un luogo di trasmissione di saperi tra generazioni. Trasmissione non meccanica, che lasciava campo alla rielaborazione personale, alla sistemazione del sapere nell’ambito della prospettiva di vita dei singoli individui. Ma il flusso della conoscenza era orientato in quel modo. Soprattutto: c’era un linguaggio comune tra i protagonisti del processo educativo. La complicazione dell’oggi risiede nella necessità di far vivere nella modernità un sapere sviluppatosi per millenni, in un processo formativo che si svolge nell’incontro, che a volte diventa scontro, fra mondi nati da esperienze e percorsi di vita diversi. L’alunno giunge a scuola già con l’esperienza di pratiche di vita che hanno fatto di lui una persona diversa dall’alunno “tradizionale”, che usa codici e logiche formatisi nell’interattività e/o nella passività online. L’insegnante si è invece formato nella cultura caratterizzata dal linguaggio della parola scritta, della linearità alfabetica, della logica consequenziale. Con tale linguaggio i giovani sono costretti, dal modo di essere delle istituzioni, ad interagire. E spesso, sentendolo in qualche modo estraneo, mal lo sopportano. È il disagio dei cosiddetti “nativi digitali” in un sistema di relazioni, istituzionali ed umane, nel quale devono vedersela con gli “immigrati digitali"11 e con quelli che potremmo definire i sans-papiers dell’informatica, le persone, cioè, che nulla sanno delle nuove tecnologie e sono, perciò, senza carta di soggiorno e senza diritti in questo campo. Se forte è il disagio dei giovani a formarsi nell’ambito di linguaggi che sentono, almeno in parte, come diversi dalle proprie esperienze di vita, non minore è la difficoltà degli insegnanti immigrati digitali – per non parlare dei sans-papiers – alle prese con il linguaggio dei mezzi elettronici, che non è lineare (con l’occhio che scorre da sinistra a destra, o da destra a sinistra, in scritture diverse da quella occidentale), ma procede per salti e angolazioni diverse; che non è consequenziale (secondo una logica di causa-effetto), ma ricostruisce il significato nella discontinuità delle immagini; che non classifica concetti ma fotografa immagini; che spinge a reagire, più che a riflettere. Al che si aggiunge un web che tende a riprodurre tutto quel che vi approda in maniera immediata ed irriflessa, senza esercitare la facoltà di scegliere, che richiederebbe tempi non compatibili con la velocità delle comunicazioni in rete così come oggi sono configurate.
A scuola si ha, dunque, l’incontro di generazioni caratterizzate da percorsi formativi differenti, che hanno dato luogo a modalità comunicative diverse. Il che richiama il concetto, già accennato, secondo il quale prioritario ad ogni utilizzo delle tecnologie informatiche a scuola è la saldatura della frattura comunicativa fra le generazioni. Una frattura, giova ricordarlo, che in qualche modo è sempre esistita ed è stata per lo più accompagnata dalla paura del nuovo e dello sconosciuto12. Ma che oggi assume peculiarità nuove, che ne rendono difficile l’interpretazione e la gestione. Una di esse va individuata in una velocità dei cambiamenti talmente accresciuta da essere disorientante. L’umanità, come è noto, ha già conosciuto mutamenti culturali radicali, a cominciare da quello relativo alla rivoluzione alfabetica e all’avvento della scrittura, con il transito dalla cultura orale a quella scritta. Con conseguenze profonde nel pensare e nell’agire umano: «per gli uomini dell’oralità il testo non esiste e l’unico modo per esercitare la memoria è quello di ripetere creativamente ciò che hanno ascoltato. L’immedesimazione passionale è così l...