Un altro mondo è già passato
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Informazioni sul libro

"Un altro mondo è già passato" è il racconto del declino e dell'eterno riapparire della coscienza.
In una Napoli futuristica, irriconoscibile per le atmosfere descritte e gli episodi che si avvicendano, Julius, visionario astrofisico, svela l'inganno del tempo e della materia. Percepisce prossimo il crepuscolo della coscienza, mentre assiste progressivamente al crollo della civiltà e all'insediamento di un'intelligenza artificiale capace di trascendere il bene e il male, fino al sorprendente e suggestivo atto finale.
"La ragione non aveva trovato tutte le risposte. Neanche aveva capito come mai per un uomo vivere non è soltanto essere nutrito o possedere l'elisir di lunga vita, ma è qualcosa di tremendamente più complicato. "Qual è la causa del turbamento?" si chiedeva spesso Petra, non ancora pronta a comprendere la risposta di Julius: "La falsa identità" le diceva ed aggiungeva: "Pensi di essere quello che non sei: questo il motivo d'ogni confusione ed ogni pena"".
Il racconto è stato segnalato dalla giuria del Premio Nabokov 2017 per l'elevata qualità letteraria e per il forte impatto emotivo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788827820858

Parte Seconda.

Collasso

Capitolo II.

Molti anni prima.
Erano le festività di Natale di un altro mondo. Tra i selciati dei vicoli, nel centro storico, il pescivendolo imboniva la gente, decantando a voce alta le qualità del pescato nel Mar di Galilea.
Vestiva una bianca tunica di lana grezza, stretta in vita da una scura cintura di juta. Il copricapo di lino bene s’accostava al colore della barba corvina ed a quello del volto annerito dal sole. Se non fosse stato per la grossa carpa in polietilene, dalle sgargianti tinte acriliche, che teneva in spalla con baldanza, sarebbe sembrato un vero personaggio biblico.
Ma il piccolo Julius di otto anni, che, affabulato dalla sacra rappresentazione, giulivo tra la folla si teneva per mano ai genitori, da ben altri personaggi era affascinato.
Il sacerdote indossava un abito particolare, mentre svolgeva il sacrificio rituale, e il Gran Sacerdote portava una mitra, un pettorale ed un grembiule.
Il pettorale aveva dodici pietre, sulle quali erano incisi i nomi di Dio e delle dodici tribù. La veste sacerdotale, l’efod ebraico, mostrava, sopra la tunica, un corto panno di lino, composto da due lembi squadrati, tenuti insieme da spalline impreziosite da ricami dorati.
La tunica era azzurra, l’efod, riccamente ornato, comprendeva una borsa tempestata di gioielli. Racchiudeva due dadi: l’Urim e il Tummim, che il religioso, con un’espressione solenne, fin troppo austera, tirava a sorte per conoscere la volontà di Dio. Il mantello era bianco e sul capo indossava uno speciale turbante.
Le fiaccole, che rischiaravano le viuzze e gli spazi aperti, bruciavano cordelle intrise di pece e resina. Riempivano l’aria d’un piacevole odore aromatico. Mentre la tremula luce, rifrangendosi nelle gemme, che ornavano l’efod del Gran Sacerdote, e riflettendosi in mille balenii sui ricami dorati del vestiario sacro, nutriva di magia l’immaginazione del piccolo Julius. Era estasiato e avvertiva una sensazione di mistero, prematura alla sua età. Un’autentica predestinazione. Al piacere dei sensi per l’olezzo silvestre della resina arsa e per i meravigliosi scintillii, s’era mischiata una sorta di curiosità penosa a conoscere il volto di quel dio. Che ragioni aveva a non palesarsi? E cosa, poi, pretendeva dagli uomini? E perché mai?
Fu in quella magica serata di un dicembre remoto, ormai d’un altro mondo, che a sua insaputa, entrò in diretta comunicazione col soprannaturale. Ignaro che, per indecifrabile cabala, sarebbe capitato a lui svelarlo. E smascherarlo.
Julius strattonò il padre, che distolto dallo squillo dello smartphone, non si curava di rispondergli.
Papà, qual è la volontà di Dio?” – insisteva a domandargli, suggestionato dalla liturgia del Gran Sacerdote. Ma le parole si confondevano tra il vociare della moltitudine e la discorde polifonia di voci, di zampogne lamentose, del crepitare della legna nei fuochi che arroventavano i paioli, dello smartellare sull’incudine di un maniscalco e della melodia agreste di zufoli, che scatenava la danza delle emule di Salomè alla corte di Erode.
Alla fine giunsero al cospetto del dio, appena fattosi carne. Non faceva freddo, nonostante l’inoltrato dicembre. Erano anni che la neve non imbiancava la sacra rappresentazione del presepio vivente. E il considerarlo ormai non rientrava neppure nelle frasi di circostanza. Ma quella notte sapeva troppo di primavera.
Per contemplare la natività Julius andò in collo al padre.
La possanza del bue maremmano, razza derivata dall’Uro dalle grandi corna, lo spaventava. Volle trovare protezione nelle braccia della madre. Era stanco. E fu contagiato dal dolce dormire di Gesù bambino, che placido sognava sul grembo di una giovane Maria.
Julius s’addormentò in seno alla mamma, sicuro, per ingenuità di bambino a cui ancora sfugge la caducità delle cose, che la magia di quel mondo mai sarebbe svanita; mentre una bimba ispanica reclamava la prima fila per omaggiare il bambinello. Ed esclamava compiaciuta: “El Niño! El Niño!” – additando il Salvatore disceso dalle stelle.
°°°°
Sarà il Niño più caldo di sempre!
In quello stesso istante, a migliaia di chilometri dalla sacra rappresentazione, così sentenziò il climatologo, dopo aver rilevato, al largo delle coste del Perù, un eccesso termico di quattro gradi. Un anomalo surriscaldamento delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico equatoriale, come mai era stato misurato in precedenza.
Furono i pescatori peruviani a chiamarlo El Niño, come Gesù bambino, perché il fenomeno raggiungeva l’apice con l’approssimarsi del Natale.
La debolezza degli Alisei ne era presagio” – gli ribatté il collega, intento a consultare le carte del tempo, a bordo della nave oceanografica.
L’indebolimento dei venti Alisei, che soffiavano costantemente verso l’equatore da entrambi gli emisferi, stava causando il riflusso di acqua molto calda, proveniente dalla Polinesia e dal Sud-Est asiatico, concentrandola in modo insolito di fronte al Sud America.
L’anno che verrà sarà infuocato!” – pronosticò remissivo il climatologo.
°°°°
Intanto, per i vicoli del borgo antico, al chiarore delle torce, al crepitare dei ceppi, tra il diffuso vocìo della folla, sottofondo sonoro da cui emergevano i belati degli agnelli, le stentoree voci degli imbonitori e le bucoliche melodie degli zufoli, gli uomini e le donne mai avrebbero immaginato che la generazione dei loro figli sarebbe stata l’ultima.
Sereni, posizionavano amorevolmente le proprie creature a cavalcioni d’un asinello, intento a brucare fieno, o sopra una mansueta pecorella, che rispondeva ai richiami d’un agnellino, e sorridenti filmavano, con i telefonini e i tablet, la gioia e la spaurita ritrosia dei bambini.
Tutto sembrava replicarsi come dalla notte dei tempi. Il sole invitto sarebbe riemerso dalle tenebre ad ogni solstizio d’inverno. Anzi, nonostante gli squilibri geopolitici del momento, cieca era la fiducia nella scienza e nel progresso. A tutti, però, sfuggiva che ormai si era prossimi alla fine. E nessuno immaginava che l’accelerazione della naturale decadenza del creato, così come percepito dalla coscienza degli uomini, fosse direttamente proporzionale all’aumento del progresso e della modernità.
La sera della Sacra Natività il cielo era nitido. Non una nuvola oscurava la bellezza del firmamento. Il plenilunio spandeva un’argentea luce sui selciati delle strade, sulle pareti in pietra viva delle case e sui bruni coppi dei tetti spioventi.
In quella serena quiete impossibile prevedere che una folgore avesse potuto squarciare improvvisamente la volta celeste. Ma, di colpo, una violenta scarica elettrica produsse nell'atmosfera un’enorme fenditura incandescente e ramificata, che si propagò dall’alto del cielo fino a disperdersi in terra. Al lampo seguì, dopo pochi secondi, un boato potente, che inquietò la gente e, nel sonno, fece trasalire il piccolo Julius.
“E’ caduto sul monte! Il fulmine ha colpito la vecchia quercia!”
Un figurante, un gagliardo centurione romano, s’era cavato l’elmo per meglio vedere e, meravigliato, gridava per richiamare l’attenzione della gente, mentre con la lancia indicava un vicino punto sulla montagna, che dominava l’antico paese.
Una lingua di fuoco, sottile e tremula, si levava dal tronco di una maestosa roverella. Dopo aver balenato, rischiarando gli spogli rami, si attenuò, vacillò e, infine, si spense.
Passato lo spavento riprese la rappresentazione. Lo speziale ricominciò a pestare nel mortaio. Lo scriba riprincipiò la trascrizione, mentre il dottore della legge giudaica riattaccò con la spiegazione dei libri sacri. Il fabbro rianimò la fucina; lo scalpellino riprodusse il sonoro tintinnio, rintoccando, con colpi distinti e ripetuti di punteruolo, il bianco blocco di pietra dura. E dai paioli le anziane donne iniziarono di nuovo a levare fumanti frittelle. Si ricreò l’andirivieni della gente, affabulata dal fiabesco scenario.
Soltanto i Re Magi non erano rientrati nella parte. Erano tre anziani professori, che si attardavano a confabulare sull’anormale fenomeno, attorniati da un crocchio di persone curiose, riunitesi in cerchio.
“Non basta l’evidenza dei numeri al ravvedimento dei negazionisti. Di fronte a statistiche incontestabili, ancora non ammettono vero il riscaldamento globale”.
Diceva il più vecchio, scuotendo la testa per sconsolata disapprovazione.
Poi ognuno aggiunse qualcosa. E la discussione s’appassionò.
Uno studente di liceo informò che sofisticate tecniche di monitoraggio avevano evidenziato altre anomalie climatiche.
Con giovanile foga spiegò che i satelliti avevano misurato un’irregolare proliferazione di fulmini. Si scaricavano tra due nubi temporalesche o tra una nube e la terra. Dalle solite cento scariche elettriche al secondo, quell’anno se ne contarono oltre duecento. Al di là del numero raddoppiato, se n’era accresciuta la violenza.
Un altro constatò che l’aumento dell’umidità nell’aria era conseguenza dell’innalzamento delle temperature. Il riscaldamento degli oceani significava maggiore evaporazione. Più acqua nell’atmosfera provocava frequenti nubifragi distruttivi. E se il sole, complice la materia particolata dispersa nell’aria, cuoceva i suoli, il vento li erodeva e disperdeva polveri e sabbia, sterilizzando i terreni.
Un paffuto e amabile anziano, appena inghiottito l’ultimo boccone di frittella intinta di miele, disperandosi, si dichiarò pessimista sull’intelligenza degli uomini e negò che si potesse evitare la catastrofe.
Con tono suggestivo, quasi provasse piacere nell’iperbole, raccontò di folgori assassine; inondazioni monsoniche di biblica calamità; formidabili tempeste di sabbia e violentissimi uragani, che avevano portato l’apocalisse e la morte a migliaia di sventurati.
“ Ma questo, dopotutto, non è il peggio!”
Sentenziò con risolutezza il più vecchio dei magi, che fino ad allora era rimasto silenzioso. Gli astanti si zittirono sorpresi; incuriositi di sapere cosa fosse il peggio, superiore a tutte quelle inenarrabili catastrofi.
Il professore sembrò tergiversare. Socchiuse gli occhi, come cercasse le parole. Si passò una mano tra la chioma canuta e spiegò che lo scioglimento dei ghiacci polari e ogni altra conseguenza degli squilibri termodinamici planetari non minacciavano soltanto di sommergere litorali e sperdute isolette, ma anche d’inabissare il più vitale dei luoghi immaginari: l’Isola di Utopia.
Il pessimo, senza dubbio, era questo. La più grave delle sciagure non stava consumandosi per mari, nell’aria, tra millenarie foreste, in candide lande ghiacciate, ma silenziosa e mortificante s’accaniva dentro i cuori e la testa della gente.
Più destabilizzante del clima impazzito era il sentimento latente di sentirsi nelle vicinanze d’un limite definitivo. Un fine corsa esistenziale. Era come se l’inconscio collettivo avvertisse che la molla a spirale d’un interiore orologio fosse prossima a svolgersi del tutto. Arrestarsi senza più fornire non solo la carica vitale alle illusioni degli uomini, ma azzerare ogni significato, ogni fede, ogni speranza e, forse, stravolgere la stessa esistenza del creato, così come per millenni uomini comuni, artisti, poeti, filosofi, teologi e sapienti l’avevano raffigurato. Non si trattava, come in passato, di temere di...

Indice dei contenuti

  1. Prologo.
  2. Parte Prima. L’ultimo presente
  3. Parte Seconda. Collasso
  4. Parte Terza. La deriva dell’ordine nuovo
  5. Parte Quarta. Ritorno all’ultimo presente
  6. Epilogo.