Storia della morte voluta
La morte è davanti a me oggi,
come la guarigione di un malato,
come la brama di un uomo di
vedere di nuovo la sua casa,
dopo molti anni di prigionia.
‘Uomo che discute di suicidio con
la propria anima’ Egitto, 2100 a. C. circa.
Il suicidio ha una storia lunga almeno quanto quella dell’essere umano. Si può supporre non temendo smentita che esso nasca con la coscienza. Appena l’essere umano diventa consapevole di sé, appena si rende conto di essere vivo e di essere destinato a morire, comincia a domandarsi se valga la pena esistere, continuare a vivere. Talvolta decidendo per il no, per vari e spesso solidi motivi.
Nel corso della Storia l’approccio al suicidio è mutato più volte, ed è stato visto e trattato in modi diversi. L’idea che ne avevano i greci e i romani era diversa da quella dei cristiani, così come diversa fu l’idea che ne ebbero umanisti e illuministi. Fino ad arrivare a noi, che stentiamo ad aggiornare le nostre idee sul suicidio e ad adattarle al mondo in cui viviamo.
Nei primi periodi della Storia, l’autodistruzione era vista come una prova di coraggio, la morte era preferita al disonore, e il concetto di autoimmolazione era parte delle religioni - e in alcuni casi lo è ancora oggi. Eppure, fin dall’antichità, la pratica di porre fine anzitempo alla propria vita viene punita, e il suicida è visto come un’anima dannata in grado di mettere a rischio la comunità.
Per quanto riguarda l’antico Egitto si hanno poche testimonianze, perlopiù scritte, come quella che apre questo capitolo, e quasi tutte riguardano persone che si sono tolte la vita per sfuggire alla punizione o per proteggere il proprio onore e la propria dignità. Il più noto dei suicidi d’Egitto è quello della regina Cleopatra, che per non subire il disonorevole trionfo in Roma, che Ottaviano aveva in serbo per lei, si diede la morte facendosi mordere da un aspide, serpente selezionato dalla regina perché in varie prove effettuate sui prigionieri aveva dimostrato di avere il veleno meno doloroso, dando una morte lenta e all’apparenza serena.
Abbiamo invece molte testimonianze sul suicidio, e su come era considerato, per quanto riguarda gli antichi greci.
Pitagora, per esempio, disdegnava qualsiasi forma di morte volontaria, perché considerava la vita sacra. Pitagora misurava tutto con i numeri, anche la morte, e per lui i suicidi creavano uno sbilanciamento, al contrario delle altre morti che erano in armonia con il tutto. Nella sua visione, ognuno di noi è messo a un posto di guardia, dove è responsabile fino a quando non viene dimesso.
Per Socrate, che per certi versi può essere considerato un suicida, l’essere umano pur volendo morire non può far violenza su se stesso; sia perché la terra è per noi come una prigione dalla quale non possiamo scappare, sia perché dobbiamo affidarci agli dèi, sia perché siamo loro proprietà e non possiamo autodeterminarci. Inoltre, lo dobbiamo al mondo e alla nostra comunità.
Platone riprese la metafora di Pitagora del posto di guardia, per lui abbiamo tutti bisogno uno dell’altro e abbiamo il dovere di restare in vita. Già nelle ‘Leggi’, Platone raccomandò di dare sepoltura ignominiosa a chi si fosse tolto la vita per debolezza d’animo, per ignavia, per incapacità di vivere. In quei tempi i suicidi per depressione non erano di certo ben visti. In questi casi per lui il suicidio era condannabile, e consigliava che la tomba fosse isolata, che il suicida fosse sepolto senza gli onori e all’estremità del paese, in luoghi incolti e senza nome, e senza iscrizioni a indicarne la tomba. La vita è difficile, per alcuni è un tormento, ma secondo Platone qualcosa ci spinge comunque ad andare avanti, e quando la sofferenza è troppo forte la cosa giusta da fare è avere pazienza e aspettare, perché non possiamo sapere se quello che stiamo vivendo sia davvero un male oppure un bene.
Nel ‘Fedone’, però, Platone guardò al suicida come a una persona libera, in grado di scegliere la morte dopo aver valutato pro e contro. A patto però che il motivo fosse valido, quando fosse costretto all’atto da una terribile sciagura capitatagli, perché investito da infamante ignominia tale da rendere impossibile proseguire a vivere, o perché lo Stato lo avesse condannato a morte.
Nell’antichità i suicidi tollerati, e riportati anche nella mitologia, erano quelli che avvenivano: a causa di una grave perdita; per motivi altruistici; per difendere l’onore; per amore; per gravi sofferenze. Tanti personaggi della Storia antica sono ricorsi al suicidio per i motivi appena descritti, per esempio, Catone, Caronda, Codro, Temistocle, Bruto, Cassio, Petronio, Marco Antonio e la già citata Cleopatra.
Nonostante ciò, i suicidi erano classificati tra i traditori, i cospiratori, i nemici pubblici, i tiranni. Perlopiù il suicidio era considerato illegale se commesso senza l’autorizzazione dello Stato.
Ad Atene e in altre parti della Grecia i giudici decidevano se la persona avesse motivi validi per porre fine alla propria vita. Se il responso era positivo, veniva utilizzato un veleno. Qualcosa di simile facevano gli antichi abitanti di Marsiglia, un preparato a base di cicuta era pronto per essere usato quando il senato decideva che l’applicante avesse buoni motivi per morire. Chi decideva teneva anche in conto se quella morte potesse o meno danneggiare lo Stato.
Nell’isola di Ceo gli uomini anziani si riunivano per darsi la morte con la cicuta; anche per i guerrieri danesi morire di malattia o di vecchiaia era un’onta, preferivano perciò togliersi la vita. Lo stesso pensavano i Goti, e quando i vecchi erano stanchi di vivere si lanciavano dalla ‘Rupe degli avi.’ Atteggiamenti simili avevano gli Eruli, i Traci, i Celti, e un’usanza del genere c’è stata a lungo anche in India, come alle Figi, nelle Nuove Ebridi e in altri luoghi ancora.
Ad Atene si seppelliva la mano assassina lontano dal cadavere del suicida, come se avesse tradito il corpo cui apparteneva, o forse per impedire che uccidesse ancora. La corda che aveva ucciso l’impiccato aveva, secondo i maghi, un terribile potere, lo stesso valeva per tutte le parti del corpo del suicida. Secondo una credenza greca e romana, i suicidi non erano accettati tra gli inferi ed erano condannati a errare sulla terra. Ancora oggi molti di quelli che credono ai fantasmi pensano si tratti di suicidi.
Il suicidio era comunque diffuso, come testimonia la frequenza dei suicidi nei miti greci - Antigone, Aiace, Fedra, Eracle, Giocasta, Deianira, Piramo e Tisbe - e tra i filosofi - Seneca, Socrate, Diogene, Democrito, Zenone, Cleante, Lucrezio, Empedocle.
In Grecia, come a Roma, pare che i suicidi siano aumentati nelle loro fasi finali, della disgregazione sociale, lo stesso avvenne nell’Impero ottomano e in Francia alla vigilia della Rivoluzione, fermo restando che prove certe non ne esistono, perché in quelle epoche non c’erano dati attendibili sulla diffusione del suicidio. Durante le rivoluzioni e le guerre, invece, i suicidi sembrano diminuire, ma è anche vero che in questi casi è difficile fare censimenti credibili e le morti volontarie possono passare inosservate. Tra l’altro, in guerra è facile mascherare il proprio istinto suicida, approfittando degli scontri, e persino far passare un atto suicida come un gesto eroico.
A questo proposito, è curioso notare che mentre il suicidio ci appare assurdo, ci sembra invece normale che qualcuno sia disposto ad andare a morire in guerra.
Le visioni filosofiche sulla liceità del suicidio erano però molto diversificate. Aristotele lo condannava in toto come atto vile e contrario alle regole della vita, e come crimine nel confronti della polis, della comunità; accettava però il sacrificio per il bene del Paese.
Anche Ippocrate - il medico più famoso, quello del giuramento che raccomanda di non fare del male, era contro, e si rifiutava di aiutare gli aspiranti suicidi. Era però favorevole all’eutanasia passiva, e raccomandava agli altri medici di non fare quello che oggi chiameremmo accanimento terapeutico.
Secondo il diritto pontificale, a Roma i suicidi erano privati degli ultimi onori. In epoca imperiale, chi si era ucciso con consapevolezza non meritava di essere ricordato col lutto.
Solo nel III secolo a. C., con gli stoici - Zenone, Cleante, Crisippo -, che si distinguevano per saggezza, cul...