L'italiano regionale tra i banchi di scuola
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L'italiano regionale tra i banchi di scuola

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L'italiano regionale tra i banchi di scuola

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Studio sulle interferenze regionali e dialettali, sia nello scritto che nel parlato, all'interno della società siciliana

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788827840979

Capitolo 1
Italiano e scuola: CENNI storici

1.1. L’educazione linguistica a scuola

Occorre fare un viaggio a ritroso nel tempo, forse approdando nelle scuole filosofiche ateniesi, per scoprire i primi elementi che determinarono la nascita di un desiderio di riflessione sulle lingue e sulla loro formazione e strutturazione. Tuttavia bisogna pur riconoscere che non è la tradizione classica quella a cui ci si riferisce quando si parla di ‘educazione linguistica’. Questa espressione si è infatti concretizzata nel suo significato vero e proprio a partire dagli anni Settanta del Novecento, grazie in particolar modo al linguista italiano Tullio De Mauro. Egli ha avuto la brillante «idea di definire ed esplorare un terreno come lo sviluppo del linguaggio nella scuola»1.
Per illustrare la situazione linguistica dell’Italia, bisogna volgere lo sguardo al passato, ponendo attenzione al fatto che le popolazioni italiche, sin dalla nascita della lingua volgare, hanno cercato di esprimere concetti e stati d’animo tramite idiomi che oggi chiamiamo più semplicemente dialetti, spesso considerati come idiomi ‘inferiori’ alla lingua nazionale comunemente parlata. In realtà Tullio De Mauro difende la loro presenza nella storia della cultura nazionale, basti considerare il fatto che persino l’italiano è una lingua derivata da un tipo di dialetto: il fiorentino del Trecento, assunto come «lingua dei dotti prima, lingua nazionale poi»2.
La scuola ha da sempre rivestito un ruolo di primo piano nell’ambito dell’educazione linguistica, ma non ha avuto un passato semplice in quanto ha dovuto affrontare problemi e questioni legate al fatto di dover fornire agli allievi le nozioni di una lingua fissa, non mutevole, ma anche di una lingua in continua evoluzione.
Nei primi decenni dopo l’unità d’Italia, i maestri erano soliti adoperare in classe il dialetto o un misto di lingua dialettale e lingua letteraria: ciò accadeva, secondo Camillo Corradini, alto burocrate del ministero dell’Istruzione, a causa della «dialettofonia diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano»3.
Per quanto riguarda la dialettofonia, in diversi momenti storici a scuola si è cercato di contrastarla con ogni mezzo, inserendo programmi scolastici mirati, anche se questi non hanno avuto molto successo per via delle resistenze da parte degli insegnanti. Tali programmi, se da un lato incentivavano l’espulsione del dialetto dalla scuola, dall’altro fomentavano lo sviluppo di un tipo di italiano abbastanza artificioso, definito da molti ‘italiano scolastico’, per distinguerlo da quello comunemente parlato tutti i giorni dalla gente.
A fare le spese a causa di questa ampollosità della lingua furono senza dubbio gli studenti più poveri e con un retroterra culturale arretrato e intriso di dialetto. Gli allievi meno abbienti e meno colti, infatti, avevano difficoltà a proseguire gli studi, dal momento che registravano non poche carenze linguistiche.
La situazione non poteva continuare di questo passo. Fu così che nel 1967 un prete, don Lorenzo Milani, iniziò a battersi per assicurare una scuola uguale per tutti, come diritto di tutti. Egli aveva già allestito una scuola popolare in un villaggio isolato, quello di Barbiana, frequentata da ragazzi che vi abitavano.
Aiutato dai suoi allievi, scrisse un documento che si rivelò di grande importanza, al fine di assicurare una scuola aperta a tutti e obbligatoria per tutte le classi sociali. Si tratta di Lettera alla Professoressa, che «si presenta formalmente come una lunga lettera che un non meglio precisato ragazzo di Barbiana scrive, assieme ai suoi compagni, ad una innominata professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico»4.
In tale documento i ragazzi si pongono in un atteggiamento di opposizione nei confronti del metodo di insegnamento loro proposto, denunciandone le contraddizioni e l’arretratezza, che non permettono a tutti gli allievi degli strati sociali più svariati di apprendere le stesse cose nella stessa misura. Infatti, era più frequente che i ragazzi benestanti fossero più avvantaggiati nell’apprendimento perché provenienti da una famiglia che forniva loro retroterra culturale più raffinato e attento all’uso corretto dell’italiano di allora
A questo punto si affaccia un altro problema: cosa si intende per uso corretto di una lingua, in questo caso dell’italiano? Don Milani ha tentato di rispondere a tale quesito, affermando con certezza che «le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo»5. E ha iniziato ad elencare dei nomi di studenti che fungono da esempio, come Pierino che, figlio di un medico, viene promosso a scuola perché scrive bene, ovvero come i ricchi, con una lingua fissa; invece Gianni scrive attingendo dalla lingua di suo padre agricoltore che è assai diversa da quella imposta dai ricchi e, dunque, dalla scuola: così gli allievi più poveri diventano facilmente delle vittime di un sistema scolastico arretrato e sbagliato perché non equo, che dovrebbe correggere, anziché penalizzare e basta.
Dopo don Milani si sono susseguiti parecchi tentativi di rinnovamento dei metodi di insegnamento scolastico, a partire dal maestro Bruno Ciari che, ispiratosi al pedagogista ed educatore Célestin Freinet, si batté su alcuni punti significativi per il miglioramento dell’educazione, come ad esempio un’atmosfera di classe più rilassata e il costante dialogo tra l’allievo e l’ambiente circostante, per poter garantire a tutti gli studenti la possibilità di creare un comportamento solidale con gli altri compagni più o meno benestanti, a cominciare dal rapporto sereno con l’insegnante.
Fu così che il problema dell’educazione scolastica interessò parecchi maestri del tempo, tanto che iniziarono a prendere forma nuove idee per l’educazione linguistica. Il primo atto pubblico fu la costituzione della Società Linguistica Italiana (SLI), nata nel 1967, lo stesso anno in cui fu pubblicata Lettera a una professoressa.
Rilevante è stato anche l’intervento di Tullio De Mauro per quanto riguarda la stesura delle Dieci tesi per una educazione linguistica democratica, un documento che include in modo completo tutte le riflessioni sull’educazione scolastica nate nel decennio a lui precedente. Secondo le Dieci tesi, vi sono dei princìpi che un insegnante deve rispettare e a cui deve ispirarsi: «a) l’importanza del linguaggio verbale nella vita sociale e individuale […]; b) la molteplicità delle capacità di cui il linguaggio verbale è costituito […], conversare, interrogare e rispondere»6.

1.1.1. I programmi scolastici tra gli anni ’60 e ‘80.

Al momento dell’Unità d’Italia, l’insegnante della classe prima elementare era tenuto a insegnare dapprima le vocali, poi i dittonghi e, alla fine, le consonanti, le sillabe semplici e via via quelle più complesse.
Come si insegnava? Secondo la legge Casati-Fava del 1860, il maestro era tenuto a comportarsi nella seguente maniera: pronunciava da solo i vari suoni e poi li faceva ripetere agli alunni, per spiegar loro il suono di ogni singola sillaba e parola, la corretta accentazione e gli errori da non commettere nel parlato e nello scritto.
Per quanto riguarda la lettura, l’insegnante era tenuto a spiegare ogni vocabolo che gli studenti si ritrovavano a leggere.
Fra i diversi obiettivi dell’insegnante, vi era quello di spiegare ad ogni studente il modo in cui si tiene la penna tra le dita per scrivere le lettere dell’alfabeto, partendo da quelle più semplici e arrivando alla scrittura delle cifre numeriche, mediante esercizi su quaderni e lavagne.
Con la legge Baccelli del 1894, gli obiettivi dell’insegnante erano quelli di spiegare la grammatica italiana, a partire dalle funzioni di tutte le parti che formano il discorso, dal soggetto, al verbo agli attributi, per poi procedere con la coniugazione dei verbi, sia scritta sia orale.
Solo in seguito il maestro doveva insegnare a stendere dei piccoli racconti per iscritto, favorendo inoltre le conversazioni tra studenti e insegnante stesso, addestrandoli nel non commettere errori anche mediante esercizi di dettatura.
Il tutto si doveva svolgere non in dialetto, ma in lingua esclusivamente italiana, per raggiungere l’obiettivo principale della scuola che era l conoscenza della lingua italiana e i modi corretti per adoperarla quotidianamente.
Con la legge Lombardo-Radice del 1923, procedendo nelle classi terza, quarta e quinta il maestro doveva: insegnare a leggere speditamente e con espressione, favorendo riassunti sia scritti che orali sui racconti letti in classe; insegnare a scrivere un resoconto delle lezioni, aggiungendo esercizi di lettura del vocabolario; fornire esercizi di traduzione dal dialetto all’italiano e stimolare la stesura di un diario delle esperienze e delle letture compiute a scuola e a casa; incitare a comporre mensilmente delle osservazioni dal punto di vista di ogni studente relative alla personale esperienza scolastica; spronare gli studenti alla stesura di lettere, telegrammi, cartoline etc.; far leggere, oltre ai semplici racconti, anche interi libri scolastici e non, incoraggiando la lettura di diversi generi di libri attinti dalla biblioteca scolastica o fuori da questa.
Relativamente all’istruzione scolastica successiva alla scuola elementare, le varie leggi che si sono susseguite nel tempo affermavano che gli obiettivi dell’insegnante dovevano essere volti a far acquisire a ciascun alunno una sicura padronanza del linguaggio per esprimere sentimenti, pensieri, nel rispetto degli altri. Il docente doveva inoltre stabilire rapporti interpersonali mediante scambi di idee, educare all’espressione verbale, stimolando l’alunno a dire sempre cose nuove, permettendo così il processo di riflessione sugli argomenti da esternare, motivare alla partecipazione a discussioni di diverso carattere, educare all’ascolto, oltre che al parlare, al leggere e allo scrivere, promuovere lo studio delle origini della lingua, dal lessico latino per arrivare alla lingua contemporanea, analizzando le mutazioni che l’hanno permeata nel corso dei secoli; oltre all’evoluzione linguistica, era compito dell’insegnante inserire le sue spiegazioni in un quadro storico bene definito cronologicamente, verificando successivamente il livello raggiunto da ogni singolo alunno.

1.2 Come cambia la lingua: dal 1861 ad oggi.

Nel 1861, anno dell’unificazione dell’Italia, la maggior parte della popolazione della nostra penisola conosceva, e dunque parlava, esclusivamente il dialetto locale. E fu proprio a partire da tale periodo che iniziò il processo di diffusione della lingua italiana. In questo preciso momento storico sono emerse due questioni importanti: l’arretratezza economico-politica dell’Italia rispetto ad altri Paesi e la permanenza di profonde fratture, principalmente linguistiche, culturali e sociali, tra una regione e un’altra. Secondo alcuni studiosi, questa situazione di stallo italiano è stata conseguenza di un «ristagno plurisecolare della vita economica, sociale e intellettuale del paese oltre che della mancanza di forze centripete che potessero assolvere al ruolo esercitato, ad esempio, in Francia da Parigi»7. Questa città, infatti, grazie alla supremazia che esercitava in diversi campi, da quello economico, a quello politico, fino a quello sociale, si è ritrovata in una condizione adeguata per imporre il proprio idioma a livello nazionale.
Diversamente da Parigi, in Italia, secondo un censimento risalente all’anno dell’Unità del Paese, ben tre quarti della popolazione residente (esclusi gli italiani con meno di 5 anni) non sapeva leggere né scrivere: su una popolazione di 22 milioni di abitanti, «14 milioni erano totalmente analfabeti»8.
Fu così che diventò urgente il problema di un’unificazione linguistica e della formazione di una identità linguistica nazionale. Iniziarono ad essere proposti i primi tentativi di proporre come lingua nazionale il fiorentino dell’epoca, come ad esempio fece lo scrittore Alessandro Manzoni. Questi asseriva con convinzione che proprio nelle scuole doveva diffondersi l’uso del vocabolario, con il quale si sarebbe favorito anche il fluire della lingua. Da qui emerse pure la proposta di inviare in tutta la penisola italiana insegnanti toscani o comunque educati in Toscana. Si trattava senza ombra di dubbio pur sempre di un fiorentino vivo e parlato che ‹‹si compendiava col toscano cinquecentesco di commedie ed epistolari, o addirittura con quello trecentesco, con risultati stridenti nella produzione testuale di maestri e allievi››.
A prescindere dalla frammentarietà linguistica italiana, fondamentalmente erano due le realtà linguistiche che differivano tra di loro: una di Firenze e l’altra di Roma. Già nel corso del Cinquecento, Roma, divenuta sede del papato mezzo secolo prima, aveva assistito a una crescita demografica che vide la popolazione romana affiancata a quella fiorentina a causa di immigrati toscani. Attraverso questo significativo dato demografico, si favorì la diffusione del toscano a partire dagli strati sociali più alti, per arrivare a coinvolgere quelli medio-bassi.
È chiaro che per il momento «il toscano continuerà a essere una lingua appresa sui libri, ma assimilata e gestita con sicurezza nei più diversi livelli e generi di lingua esaminati, con progressivo e stabile avanzamento dell’italianizzazione››9.
A distanza di diversi secoli, nel 1881, in Piemonte, Liguria e Lombardia tassi di analfabeti inferiori al 50%, mentre le regioni di Calabria e Basilicata raggiungeranno questa soglia solo cinquant’anni più tardi.
Così si assistette in meno di un secolo al mutarsi continuo della realtà linguistica dell’Italia. Ad influire su ciò f...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. 1. CAPITOLO 1 - Italiano e scuola: CENNI storici
  3. 2. CAPITOLO 2 - VARIABILITÀ LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELL’ITALIANO
  4. 3. CAPITOLO 3 - ORALITÀ, SCRITTURA, LETTURA
  5. 4. CAPITOLO 4 - ITALIANO REGIONALE E INTERFERENZA: STUDIO DI UN CASO
  6. Conclusioni
  7. Riferimenti bibliografici