Capitolo 1
L’uomo come animale etico
Il solo atto che certamente
l’animale non è in grado di compiere,
è il preferire un valore a un altro.
Max Scheler
Filosofo (1874-1928)
Si racconta che nel quinto secolo a.C. all’ingresso del tempio di Delfi fosse incisa nella pietra la frase «uomo, conosci te stesso». L’iscrizione serviva a ricordare, a coloro che varcavano la soglia, la loro piccolezza rispetto alla divinità. Socrate che, come abbiamo accennato, può essere considerato il fondatore dell’etica come disciplina filosofica, adottò lo stesso motto per indicare che solo chi conosce sé stesso può prendersi cura di sé. Per questa ragione, al fine di compiere il Primo Passo nell’etica, è necessario fermarsi un momento e riflettere su chi siamo come esseri umani e perché esiste l’etica per noi, mentre non si parla di etica per i pettirossi, i lombrichi e gli struzzi.
Nel paragrafo 0.2 abbiamo accennato al fatto che la riflessione filosofica parte dall’osservazione dei fenomeni dell’esperienza. Tuttavia, la filosofia ha anche come caratteristica quella di voler distinguere tra gli aspetti accidentali e secondari di tali fenomeni e quelli essenziali, necessari, per concentrarsi su questi ultimi. Iniziamo, perciò dall’osservazione dell’uomo per individuarne le caratteristiche essenziali per l’etica.
Che l’uomo sia un essere corporeo, è immediatamente evidente. Il corpo umano è una realtà materiale, come un sasso e un cristallo. Dunque può essere visto, toccato, misurato, pesato. In quanto è materiale, è sottoposto alle leggi che regolano le cose, come la forza di gravità e la divisibilità in parti, e può essere studiato da scienze come la fisica e la chimica. A differenza del sasso e del cristallo, però, il corpo umano è una realtà materiale vivente, così come un cactus e uno scoiattolo. Per questo ha bisogno di acqua e di luce, è sensibile al caldo e al freddo, ha un dinamismo interno che ne guida la crescita, la nutrizione, il ricambio cellulare. Può dunque essere studiato dalla biologia. A differenza del cactus, e come lo scoiattolo, il corpo umano è però anche un corpo animato, nel senso che è capace di muoversi per nutrirsi e riprodursi. Come gli animali, ha degli istinti, ad esempio la fame, la sete, lo stimolo sessuale, la paura, etc. Una parte significativa della psicologia si occupa proprio di questi aspetti, ossia studia quali sono gli impulsi e i bisogni che muovono il comportamento. L’uomo, ad esempio, risponde al meccanismo stimolo-risposta quando è sottoposto ad una sollecitazione dolorosa o piacevole. Così come gli animali, può allora essere studiato da scienze come la zoologia, l’anatomia e la neurologia. (Stein 2013, pp. 40ss)
Se l’uomo fosse tutto qui, cioè solo un corpo vivente animato, potrebbe a buon diritto essere considerato semplicemente come un animale evoluto. Ora, l’uomo è un animale, ma la filosofia da sempre rivendica che egli non è semplicemente materia vivente e animata. Il geniale filosofo tedesco Max Scheler, ad esempio, nel 1913 scriveva:
L’uomo, come homo naturalis, è un animale, un breve sentiero laterale imboccato dalla vita entro la classe dei vertebrati e, poi, dei primati. Dunque, non si è affatto «evoluto» dal mondo animale, ma è stato animale, è animale e resterà sempre animale. (Scheler, 2006, p. 73)
Tuttavia, aggiunge Scheler, non è solo un animale, perché manifesta delle capacità del tutto proprie, qualitativamente superiori a quelle di cui gli animali «bruti» sono capaci. Così come possiamo affermare che un essere è vivente osservando i segni della sua attività vitale, ad esempio la crescita o il battito del cuore, analogamente possiamo affermare che l’uomo è un essere non solo corporeo, ma anche spirituale ˗ possiamo anche dire che è un essere personale ˗ osservando le operazioni che è in grado di realizzare e che non sono riducibili alle sue funzioni corporee.
Tra le cose che l’uomo sa fare e gli animali no, si può pensare in primo luogo al fatto che sa trovare il lato comico di situazioni come quella di un passante che scivola su una buccia di banana, o di una vignetta che vede su una rivista. Poi, si può pensare al fatto che ci sono uomini che creano opere d’arte, come una veduta di Venezia del Canaletto o i Notturni di Chopin, e altri, molti di più, che ne apprezzano la bellezza: quest’ultima non è semplicemente riducibile alle pennellate che compongono il quadro, o ai suoni che formano la musica, non si esaurisce nella realtà fisica. Infine, abbiamo già avuto modo di ricordare, nell’Introduzione, che ogni uomo manifesta un senso morale, ad esempio quando si commuove di fronte all’eroismo di un medico che sacrifica la propria vita per i suoi pazienti, o apprezza l’atto di perdono offerto dalla vittima di un rapimento ai suoi carcerieri.
Ora, tutte queste sono operazioni che gli animali non sanno svolgere. Le scienze del comportamento non possono perciò considerare l’uomo con gli stessi criteri con cui studiano i pinguini e le formiche, perché l’uomo è in grado di compiere delle azioni assenti nel mondo animale. Fin da Aristotele la filosofia afferma che se si dà un’operazione, ci deve essere una capacità o facoltà che la rende possibile (De anima, 415 a 14-24). Se un mammifero di sesso femminile, dopo aver partorito, produce latte, significa che è capace di allattare e quindi questa non è un’abilità tipicamente umana. Se un orso gira la pista del circo in bicicletta, ciò significa che è capace di andare in bicicletta, dunque neppure questa è una capacità specificamente umana. Se, invece, proviamo a risalire alle facoltà che rendono possibili le operazioni degli esempi fatti nel paragrafo precedente, allora, possiamo concludere che esistono alcune capacità fondamentali che solo l’uomo manifesta.
In primo luogo, vediamo che l’uomo è intelligente, cioè è capace di atti intellettuali. La maggior parte degli animali ha delle capacità conoscitive, perché percepisce attraverso i sensi, e molti animali hanno anche una certa capacità di conservare i ricordi e di combinare le percezioni sensoriali. L’essere umano, però, ha una forma di conoscenza che trascende la semplice percezione ed elaborazione meccanica dei dati dei sensi, perché può conoscere realtà immateriali, come la verità di un’informazione, il valore poetico di una canzone o la cattiveria di una calunnia. Inoltre, mentre sperimenta il mondo, l’uomo percepisce anche sé stesso come essere cosciente. Non è solo consapevole di altre cose, ma anche coglie sé stesso come soggetto unico, semplice, che permane nel flusso delle proprie esperienze: egli infatti ha coscienza di sé, può dire «io».
In secondo luogo, l’uomo è capace di intraprendere azioni volontarie. La volontà può essere definita come la capacità di iniziare una nuova catena causale, senza essere determinati da cause esterne. Tutti gli esseri viventi manifestano qualche forma più o meno elementare di auto-determinazione, come il rivolgersi alla fonte di luce del girasole e la migrazione verso nuovi pascoli del bufalo. Ma nell’uomo solamente possiamo parlare di libertà in senso stretto, una capacità che presuppone una conoscenza intellettuale, ed è una proprietà totalmente nuova, perché può svincolarsi o addirittura opporsi ai dinamismi puramente istintivi. La creatività artistica e le azioni eroiche sono esempi grandiosi di questa facoltà. Ma ogni volta che rinuncio a bere alcolici prima di guidare o condivido l’ultima fetta di torta rimasta con un familiare, dimostro di essere libero di contrastare ciò che mi detta l’istinto.
In terzo luogo, l’uomo possiede una dimensione affettiva che non scaturisce dagli istinti, bensì è una risposta intenzionale, piena di significato, del suo cuore, a ciò che di importante gli accade. Pensiamo allo sdegno che l’ingiustizia subìta da una persona inerme suscita in noi, o alla gioia motivata dal rivedere una persona amata, o all’entusiasmo nel tornare in un luogo della nostra infanzia. Se è vero che l’affettività implica una stretta connessione con il corpo, perché viene sentita a livello psico-fisico, le esperienze alle quali ci riferiamo implicano un «andare al di là» della dimensione meramente animale: rivelano una coscienza del valore delle cose, che commuove il nostro cuore, generando risposte come la gioia, la stima e l’amore o, di fronte alle esperienze dotate di valore negativo, la tristezza, il disprezzo e l’odio.
Abbiamo deciso di intitolare questo capitolo all’uomo «come animale etico» per indicare che la capacità di compiere atti etici distingue l’uomo da tutti gli altri animali, pur senza eliminare le caratteristiche che egli condivide con gli altri esseri viventi. Per comprendere meglio che cosa rende gli esseri umani «etici» è opportuno riflettere più nel dettaglio sulle tre facoltà ˗ intelligenza, volontà e affettività ˗ che abbiamo appena elencato.
1.1 L’intelligenza come capacità di conoscere
L’intelligenza è la capacità umana di conoscere. Raggruppiamo quindi sotto questa facoltà tutte le attività che implicano il «prendere coscienza di» qualcosa, dal capire una ricetta di cucina o le spiegazioni per costruire un modellino di aereo, fino alla conoscenza teorica che è propria delle scienze e a quella pratica che è condizione per agire, per entrare in relazione con gli altri e per fare la cosa giusta in ambito etico.
È di uso comune parlare di «luce» o «lume» della ragione. Questa espressione indica molto bene il ruolo dell’intelligenza nella vita umana. Essa è come la luce che permette di entrare in una stanza e vedere i diversi oggetti, ma anche di stare nella stanza e di agire. L’intelligenza è presupposta in ciascun atto tipicamente personale, perché è la facoltà che apre l’uomo al mondo. Ecco perché solo chi è capace di intendere, è anche capace di volere. Senza intelligenza non si può agire da uomini. Questo non significa che l’uomo senza intelligenza non sia un uomo. L’uomo incapace di intendere è un uomo, ma non può agire come uomo.
Tra il 1917 e il 1924 dall’Europa centrale si diffuse in tutto il mondo l’epidemia di un virus sconosciuto, che provocava nelle persone colpite l’encefalite letargica. I pazienti, di cui molti bambini, quando sopravvissero, spesso restavano in uno stato catatonico: sembravano addormentati, rispondevano ad alcuni stimoli, come afferrare una palla quando veniva lanciata nella loro direzione, ma per il resto sembravano del tutto incoscienti. Nel 1969 il neurologo Oliver Sacks provò a somministrare a un gruppo di questi pazienti ricoverati in un ospedale del Bronx un nuovo farmaco che era stato appena scoperto e veniva utilizzato per curare il morbo di Parkinson. I pazienti si risvegliarono, anche se l’effetto non fu definitivo. L’aspetto che ci interessa della vicenda è che non appena tornarono in sé, iniziarono a chiedere di uscire dall’ospedale per decidere della propria vita e dovettero scontrarsi con l’ospedale, che li aveva ricoverati senza prevedere una dimissione. Questa storia ha dato origine a un film, Risvegli (USA, 1990, di P. Marshall con R. De Niro e R. Williams) e l’episodio è rappresentato da una discussione nella quale De Niro, che impersona il primo paziente ad essersi «svegliato», discute per far valere i suoi diritti. Nel momento in cui instaurarono nuovamente una relazione conoscitiva con ciò che li circondava, dunque, questi pazienti diventarono anche capaci di volere e iniziarono ad agire in modo autonomo. Proprio questo legame tra la capacità di «intendere» (pensare) e la capacità di volere, rende così importante la dimensione cognitiva per l’etica, tanto che la presa di coscienza del problema etico è il Primo Passo del nostro cammino, che sarà seguito dalla conoscenza dei criteri per valutare (Secondo Passo) e del metodo per decidere in modo razionale (Terzo Passo).
1.1.1. La differenza tra pensiero intuitivo e pensiero razionale
A questo punto dobbiamo introdurre una distinzione molto importante all’interno delle nostre attività mentali, che ci aiuterà a comprendere diversi dinamismi essenziali nei nostri comportamenti etici. Invitiamo perciò il lettore a prestarvi attenzione.
Gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky negli anni Settanta del secolo scorso hanno inaugurato una linea di ricerca che ha condotto a dimostrare che i processi mentali attraverso i quali pensiamo appartengono a due sistemi differenti, che possiamo chiamare del pensiero intuitivo e del pensiero razionale. La filosofia ha sempre preso in considerazione il secondo sistema più del primo: pensare è stato identificato con quell’attività consapevole, lenta e metodica con la quale organizziamo le nostre idee nelle loro connessioni logiche e passiamo così da delle premesse a delle conclusioni. Il merito di Kahneman e Tversky è stato quello di mettere in luce che una parte considerevole della nostra vita psichica non è guidata da questo pensiero razionale e deliberato, bensì dipende da dei procedimenti intuitivi, spontanei e veloci, non sottoposti alla nostra volontà, ma efficaci nel permetterci di giungere rapidamente a delle conclusioni. Il sistema intuitivo è generalmente preciso, perché si raffina con l’esperienza, tuttavia può anche indurci in errore, in quanto tende a prendere delle scorciatoie che facilitano il suo compito, ma a volte ci possono deviare dalla realtà. Ad esempio, tende a considerare solo i dati che ha a portata di mano e a trascurare il fatto che possono mancare delle informazioni rilevanti, oppure si lascia influenzare, nei suoi giudizi, dalla reazione emotiva immediata che le situazioni provocano in noi.
Anche nella valutazione delle situazioni eticamente rilevanti possono entrare in gioco entrambi i sistemi, il pensiero intuitivo e quello razionale. Spesso ci basiamo sull’intuito per prendere le decisioni, anche quelle che hanno un impatto etico. Un ruolo insostituibile del pensiero intuitivo per l’etica riguarda la percezione della rilevanza morale delle situazioni. L’esperienza etica, potremmo dire, inizia sempre col pensiero intuitivo, tanto che, osservano Bazerman e Tenbrunsel, se utilizzassimo esclusivamente il pensiero razionale, le nostre decisioni sarebbero ridotte ad un calcolo tra costi e benefici (2011, cap. 2). D’altra parte, il pensiero intuitivo può essere deviato da dei pregiudizi cognitivi, perciò il compito del pensiero razionale è quello di verificare le sue conclusioni e, se necessario, rettificarle. Per prendere decisioni eticamente corrette, insomma, i due sistemi devono interagire. Avremo modo di vedere, nei prossimi capitoli, che la formazione etica si deve rivolgere sia ad allenare il pensiero intuitivo a rimanere aderente ai dati oggettivi, senza farsi deviare dalle tendenze istintive e dai pregiudizi (capitolo 4), sia a educare il pensiero razionale a prendere decisioni sempre più attente e ponderate (capitolo 9).
1.1.2 Il problema dell’errore nella conoscenza
Una questione spinosissima per chiunque di occupi di conoscenza, in qualsiasi campo dello scibile umano, e l’etica non fa eccezione, è quella dell’errore. L’esperienza ci mostra, infatti, che l’uomo è capace di conoscere, la sua conoscenza è limitata, non assoluta, eppure generalmente affidabile; tuttavia, ci mostra anche che a volte le nostre capacità conoscitive fanno cilecca e sbagliano. Tradizionalmente sono due le cause alle quali sono attribuiti i nostri errori cognitivi.
La prima è l’ignoranza: se non abbiamo tutte le informazioni necessarie per trarre una conclusione, facilmente la nostra conclusione sarà inesatta. Questo vale anche per l’etica: per prendere una decisione corretta riguardo a un caso etico, è necessario avere tutte le informazioni rilevanti per il caso, e tenerne conto. Come avremo modo di vedere, in ambito etico l’ignoranza può essere involontaria, incolpevole, quando non era assolutamente possibile ottenere quelle informazioni, oppure essere colpevole, quando riguarda informazioni che erano accessibili o ciò che per la nostra posizione professionale saremmo tenuti a sapere. Ad esempio, il medico non è scusato dal fatto di ignorare il contenuto del suo codice deontologico o gli effetti collaterali dei farmaci che prescrive. In entrambi i casi, comunque, l’ignoranza è una «non conoscenza», quindi il solo modo per evitarla è cercare di informarsi nel modo più accurato possibile prima di trarre delle conclusioni o di decidere che cosa fare.
La seconda causa che tradizionalmente spiega gli errori conoscitivi è il prevalere, sulle nostre capacità razionali, della nostra sfera emotiva e degli istinti. Già Platone, nel Fedro, rappresentò l’anima umana come un carro alato, guidato da un auriga e trainato da due cavalli. L’auriga raffigura la razionalità, che per muoversi ha bisogno dei cavalli, ma questi sono difficili da controllare, perché rappresentano uno le passioni corporee, l’altro quelle più elevate. L’auriga ha perciò il compito di domare e dirigere i cavalli. Con quest’immagin...