Quattro Passi nell'etica del lavoro e delle organizzazioni
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"Quattro passi nell'etica" intende proporre un metodo per imparare che cos'è l'etica della professione, ma anche per applicarla nella propria attività lavorativa, così da poter fare la differenza.
Il titolo fa riferimento alle quattro tappe fondamentali di questo metodo, che hanno lo scopo di allenare a 1) prendere coscienza dei problemi etici, senza confonderli con i problemi di altra natura; 2) individuare quali standard etici devono essere seguiti; 3) valutare che cosa è giusto fare senza trascurare alcun aspetto eticamente rilevante della situazione e 4) trovare il coraggio di far seguire, alla decisione, l'azione.
Le discipline di riferimento sono, da una parte, la filosofia morale, che spiega i concetti fondamentali dell'etica generale (responsabilità, integrità, eccellenza, giustizia) e dell'etica professionale (bene comune, uso e abuso del potere, responsabilità sociale d'impresa), e dall'altra le scienze che studiano il comportamento umano nelle organizzazioni.
Queste offrono dei dati essenziali per comprendere perché il comportamento non etico di pochi può condurre fino all'erosione etica di un'azienda, o in che modo il livello etico dei leader influisce su quello degli altri dipendenti.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788827854341

Capitolo 1
L’uomo come animale etico

Il solo atto che certamente
l’animale non è in grado di compiere,
è il preferire un valore a un altro.
Max Scheler
Filosofo (1874-1928)
Si racconta che nel quinto secolo a.C. all’ingresso del tempio di Delfi fosse incisa nella pietra la frase «uomo, conosci te stesso». L’iscrizione serviva a ricordare, a coloro che varcavano la soglia, la loro piccolezza rispetto alla di­vinità. Socrate che, come abbiamo accennato, può essere considerato il fonda­tore dell’etica come disciplina filosofica, adottò lo stesso motto per in­di­ca­re che solo chi conosce sé stesso può prendersi cura di sé. Per questa ragione, al fine di compiere il Primo Passo nell’etica, è necessario fermarsi un mo­men­to e riflettere su chi siamo come esseri umani e perché esiste l’etica per noi, mentre non si parla di etica per i pettirossi, i lombrichi e gli struzzi.
Nel paragrafo 0.2 abbiamo accennato al fatto che la riflessione fi­lo­so­fi­ca parte dall’osservazione dei fenomeni dell’esperienza. Tuttavia, la filo­so­fia ha anche come caratteristica quella di voler distinguere tra gli aspetti ac­ci­den­tali e secondari di tali fenomeni e quelli essenziali, necessari, per con­cen­trarsi su questi ultimi. Iniziamo, per­ciò dall’osservazione dell’uomo per individuarne le caratteristiche essenziali per l’etica.
Che l’uomo sia un essere corporeo, è immediatamente evidente. Il cor­po u­ma­no è una re­al­tà materiale, come un sasso e un cristallo. Dunque può es­sere visto, toc­cato, mi­su­ra­to, pe­sato. In quanto è materiale, è sotto­po­sto alle leggi che re­go­lano le cose, come la for­za di gravità e la di­vi­si­bi­lità in parti, e può es­se­re stu­dia­to da scienze co­me la fi­si­ca e la chi­mi­ca. A differenza del sasso e del cri­stal­lo, pe­rò, il corpo uma­no è una real­tà ma­te­riale vivente, così come un cactus e uno sco­iat­tolo. Per que­sto ha bisogno di acqua e di luce, è sensibile al caldo e al fred­do, ha un di­na­mi­smo interno che ne guida la cre­sci­ta, la nu­tri­zione, il ri­cam­bio cel­lu­lare. Può dun­que essere studiato dalla bio­lo­gia. A dif­ferenza del cactus, e come lo scoiat­to­lo, il cor­po u­ma­no è però anche un cor­po ani­ma­to, nel senso che è capace di muoversi per nu­trirsi e riprodursi. Come gli a­ni­mali, ha degli istinti, ad esempio la fame, la sete, lo stimolo ses­suale, la paura, etc. Una parte significativa della psi­colo­gia si occupa proprio di questi aspetti, ossia studia quali so­no gli im­pul­si e i bi­so­gni che muovono il comportamento. L’uomo, ad esempio, ri­spon­de al mec­ca­ni­smo sti­mo­lo-rispo­sta quan­do è sottoposto ad una sol­le­ci­tazione do­lo­rosa o pia­cevole. Così come gli animali, può allora essere stu­dia­to da scien­ze co­me la zoologia, l’a­na­to­mia e la neurologia. (Stein 2013, pp. 40ss)
Se l’uomo fosse tutto qui, cioè solo un corpo vivente animato, po­treb­be a buon di­rit­to essere considerato semplicemente come un animale evoluto. Ora, l’uomo è un ani­male, ma la filosofia da sempre rivendica che egli non è sem­pli­ce­mente ma­te­ria vivente e animata. Il geniale filosofo tedesco Max Scheler, ad esempio, nel 1913 scriveva:
L’uomo, come homo naturalis, è un animale, un breve sentiero laterale im­boc­cato dalla vita entro la classe dei vertebrati e, poi, dei primati. Dunque, non si è affatto «evoluto» dal mondo animale, ma è stato animale, è ani­ma­le e resterà sempre animale. (Scheler, 2006, p. 73)
Tuttavia, aggiunge Scheler, non è solo un animale, perché manifesta delle ca­pa­cità del tut­to proprie, qua­li­ta­ti­va­men­te superiori a quel­le di cui gli ani­ma­li «bruti» sono capaci. Così come pos­sia­mo af­fermare che un es­sere è vi­vente os­ser­vando i se­gni della sua attività vitale, ad esempio la cre­scita o il battito del cuo­re, a­naloga­mente possiamo affermare che l’uomo è un es­sere non solo cor­poreo, ma an­che spi­rituale ˗ pos­siamo anche dire che è un essere personale ˗ osservando le ope­ra­zio­ni che è in grado di realiz­za­re e che non sono ri­duci­bili alle sue funzioni corporee.
Tra le cose che l’uomo sa fare e gli animali no, si può pensare in primo luo­go al fat­to che sa trovare il lato comico di si­tua­zioni come quel­la di un pas­sante che sci­vola su una buccia di banana, o di una vignetta che vede su una ri­vista. Poi, si può pensare al fatto che ci sono uomini che creano opere d’arte, come una ve­duta di Venezia del Canaletto o i Notturni di Chopin, e altri, mol­ti di più, che ne apprezzano la bellezza: quest’ultima non è sem­pli­ce­men­te ridu­ci­bile alle pennellate che compongono il qua­dro, o ai suoni che for­mano la musica, non si esaurisce nella realtà fisica. Infine, abbiamo già avuto modo di ricordare, nell’Introduzione, che o­gni uomo ma­ni­festa un senso morale, ad e­sem­pio quando si com­muo­ve di fronte all’e­roi­smo di un medico che sacrifica la pro­pria vita per i suoi pazienti, o apprezza l’atto di per­dono offerto dalla vittima di un ra­pi­mento ai suoi carcerieri.
Ora, tutte queste sono operazioni che gli animali non sanno svolgere. Le scien­ze del comportamento non possono perciò considerare l’uomo con gli stessi cri­teri con cui studiano i pinguini e le formiche, perché l’uomo è in gra­do di com­pie­re delle a­zio­ni assenti nel mondo animale. Fin da Aristote­le la fi­losofia affer­ma che se si dà un’o­pe­razione, ci deve essere una ca­pa­cità o fa­coltà che la rende possibile (De anima, 415 a 14-24). Se un mam­mi­fero di sesso fem­mi­nile, do­po aver partorito, pro­du­ce latte, significa che è ca­pa­ce di allattare e quindi questa non è un’abilità tipicamente umana. Se un or­so gira la pista del circo in bici­cletta, ciò significa che è ca­pa­ce di an­da­re in bici­clet­ta, dunque neppure questa è una capacità specificamente u­ma­na. Se, invece, pro­viamo a ri­sa­li­re alle facoltà che rendono pos­si­bili le ope­razioni degli esempi fatti nel paragrafo precedente, allora, possiamo con­cludere che esistono al­cu­ne ca­pa­ci­tà fon­damentali che solo l’uomo manifesta.
In primo luogo, vediamo che l’uomo è intelligente, cioè è capace di atti intel­let­tua­li. La maggior parte degli animali ha delle capacità co­no­sci­tive, perché per­cepi­sce at­tra­verso i sensi, e molti animali hanno an­che una certa capacità di con­serva­re i ri­cor­di e di combinare le percezioni sensoriali. L’es­sere umano, però, ha una for­ma di co­no­scenza che tra­scende la sem­pli­ce perce­zione ed elaborazione mec­ca­ni­ca dei dati dei sensi, per­ché può co­no­scere realtà immateriali, come la verità di un’informazione, il valore poetico di una canzone o la cattiveria di una calunnia. Inoltre, mentre spe­ri­men­ta il mon­do, l’uomo percepisce anche sé stesso come es­sere cosciente. Non è solo con­sa­pe­vole di altre cose, ma an­che coglie sé stesso co­me sog­getto u­nico, sem­plice, che permane nel flusso delle proprie espe­rienze: egli infatti ha co­scienza di sé, può dire «io».
In secondo luogo, l’uomo è capace di intraprendere azioni vo­lon­tarie. La vo­lon­tà può es­sere definita come la capacità di iniziare una nuova catena cau­sale, sen­za es­sere de­ter­mi­na­ti da cause esterne. Tutti gli esseri viventi ma­ni­festano qualche for­ma più o meno elementare di auto-determinazione, come il rivol­ger­si alla fonte di luce del gi­ra­so­le e la migrazione verso nuovi pascoli del bu­falo. Ma nell’uomo solamente pos­sia­mo parlare di libertà in sen­so stret­to, una capacità che pre­sup­po­ne una co­no­scen­za in­tel­let­tuale, ed è una pro­prietà totalmente nuo­va, perché può svin­co­lar­si o addirittura op­porsi ai dina­mi­smi puramente istin­tivi. La crea­ti­vi­tà artistica e le azioni eroiche so­no e­sempi gran­dio­si di que­sta fa­coltà. Ma ogni vol­ta che rinuncio a bere al­colici prima di guidare o condivido l’ultima fetta di torta rimasta con un fa­mi­liare, dimostro di es­sere libero di contrastare ciò che mi detta l’istinto.
In terzo luogo, l’uomo possiede una dimensione affettiva che non scatu­risce da­gli i­stin­ti, bensì è una risposta intenzionale, piena di si­gni­fi­cato, del suo cuore, a ciò che di im­por­tante gli accade. Pensiamo allo sdegno che l’in­giustizia su­bìta da una persona inerme suscita in noi, o alla gioia mo­ti­va­ta dal rivedere una persona amata, o all’en­tu­sia­smo nel tornare in un luo­go del­la nostra infanzia. Se è vero che l’affetti­vità implica una stretta con­nessione con il cor­po, perché viene sentita a li­vel­lo psico-fisico, le e­spe­rienze alle quali ci rife­ria­mo implicano un «an­da­re al di là» della dimen­sio­ne me­ra­men­te animale: rive­la­no una co­scienza del valore delle cose, che com­muove il no­stro cuo­re, ge­ne­ran­do ri­spo­ste come la gioia, la sti­ma e l’amore o, di fronte alle esperienze dotate di valore negativo, la tristezza, il disprezzo e l’odio.
Abbiamo deciso di intitolare questo capitolo all’uomo «come animale etico» per indicare che la capacità di compiere atti etici distingue l’uomo da tutti gli altri animali, pur senza eliminare le caratteristiche che egli con­di­vide con gli altri esseri viventi. Per comprendere meglio che cosa rende gli esseri umani «etici» è op­por­tu­no riflettere più nel dettaglio sulle tre fa­col­tà ˗ in­tel­li­genza, volontà e affettività ˗ che abbiamo appena elencato.

1.1 L’intelligenza come capacità di conoscere

L’intelligenza è la capacità umana di conoscere. Raggruppiamo quindi sot­to que­sta facoltà tutte le attività che implicano il «pren­dere co­scien­za di» qual­cosa, dal ca­pi­re una ricetta di cucina o le spie­gazioni per costruire un mo­dellino di aereo, fino alla cono­scen­za teorica che è propria delle scienze e a quella pratica che è con­di­zione per agire, per entrare in relazione con gli altri e per fare la cosa giusta in ambito etico.
È di uso comune parlare di «luce» o «lume» della ragione. Que­sta e­spres­sio­ne in­dica molto bene il ruo­lo dell’intel­li­gen­za nella vita umana. Es­sa è come la luce che per­met­te di en­trare in una stan­za e vedere i diversi oggetti, ma an­che di sta­re nella stanza e di agire. L’intelligenza è pre­sup­po­sta in cia­scun atto ti­pica­mente perso­na­le, perché è la facoltà che apre l’uo­mo al mon­do. Ecco perché solo chi è capace di in­ten­de­re, è an­che capace di volere. Sen­za in­tel­ligenza non si può a­gi­re da uomini. Questo non signi­fi­ca che l’uo­mo senza in­tel­li­genza non sia un uomo. L’uo­mo incapace di in­ten­de­re è un uomo, ma non può agire come uomo.
Tra il 1917 e il 1924 dall’Europa centrale si diffuse in tutto il mondo l’epi­demia di un virus sconosciuto, che provocava nelle persone colpite l’en­ce­falite letargica. I pa­zienti, di cui molti bambini, quando soprav­vis­se­ro, spes­so restavano in uno stato catatonico: sembravano addormentati, ri­spon­de­vano ad al­cu­ni stimoli, come afferrare una palla quando veniva lan­ciata nella lo­ro direzione, ma per il resto sembravano del tutto incoscienti. Nel 1969 il neurologo Oliver Sacks provò a somministrare a un gruppo di questi pa­zien­ti ricoverati in un ospedale del Bronx un nuovo farmaco che era stato appena scoperto e veniva utilizzato per curare il morbo di Parkin­son. I pa­zienti si risvegliarono, anche se l’effetto non fu definitivo. L’a­spet­to che ci interessa della vicenda è che non appena tornarono in sé, iniziarono a chie­de­re di uscire dall’ospedale per decidere della propria vita e dovettero scon­trarsi con l’ospedale, che li aveva ricoverati senza pre­ve­de­re una dimis­sione. Questa storia ha dato origine a un film, Risve­gli (USA, 1990, di P. Marshall con R. De Niro e R. Williams) e l’episodio è rap­pre­sentato da una di­scus­sio­ne nella quale De Niro, che impersona il primo paziente ad essersi «svegliato», discute per far valere i suoi diritti. Nel mo­men­to in cui in­stau­ra­rono nuo­va­mente una re­la­zione conoscitiva con ciò che li circondava, dunque, questi pazienti di­ven­tarono an­che capaci di vo­lere e iniziarono ad agire in modo autonomo. Proprio questo legame tra la capacità di «inten­dere» (pensare) e la capacità di volere, rende così im­por­tante la dimensione cognitiva per l’etica, tanto che la presa di coscienza del problema etico è il Primo Passo del nostro cammino, che sarà seguito dalla cono­scen­za dei cri­te­ri per valutare (Secondo Passo) e del metodo per decidere in modo razionale (Terzo Passo).

1.1.1. La differenza tra pensiero intuitivo e pensiero razionale

A questo punto dobbiamo introdurre una distinzione molto importante al­l’interno delle nostre attività mentali, che ci aiuterà a comprendere diversi dinamismi essenziali nei nostri comportamenti etici. Invitiamo perciò il lettore a prestarvi attenzione.
Gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky negli anni Set­tanta del secolo scorso hanno inaugurato una linea di ricerca che ha con­dotto a dimostrare che i processi mentali attraverso i quali pensiamo appar­ten­gono a due sistemi differenti, che possiamo chia­ma­re del pensiero intui­tivo e del pensiero razionale. La filosofia ha sempre preso in conside­ra­zione il se­con­do sistema più del primo: pensare è stato identificato con quel­l’attività con­sa­pevole, lenta e metodica con la quale organizziamo le no­stre idee nelle loro connessioni logiche e passiamo così da delle pre­mes­se a delle conclu­sioni. Il merito di Kahneman e Tversky è stato quello di mettere in luce che una parte considerevole della nostra vita psichica non è guidata da questo pensiero razionale e deliberato, bensì dipende da dei procedimenti intuitivi, spontanei e veloci, non sottoposti alla nostra vo­lon­tà, ma efficaci nel per­met­terci di giungere rapidamente a delle conclusioni. Il sistema intuitivo è generalmente preciso, perché si raffina con l’espe­rien­za, tuttavia può anche indurci in errore, in quanto tende a prendere delle scor­ciatoie che facilitano il suo compito, ma a volte ci possono deviare dal­la realtà. Ad esempio, tende a considerare solo i dati che ha a portata di mano e a trascurare il fatto che possono mancare delle informazioni rile­van­ti, oppure si lascia influenzare, nei suoi giudizi, dalla reazione emotiva immediata che le situazioni pro­vo­ca­no in noi.
Anche nella valutazione delle situazioni eticamente rilevanti possono en­trare in gioco entrambi i sistemi, il pensiero intuitivo e quello razionale. Spesso ci basiamo sull’intuito per prendere le decisioni, anche quelle che han­no un impatto etico. Un ruolo insostituibile del pensiero intuitivo per l’e­tica ri­guar­da la percezione della rilevanza morale delle situazioni. L’e­spe­rienza etica, potremmo dire, inizia sempre col pensiero intuitivo, tanto che, osservano Bazerman e Tenbrunsel, se utiliz­zas­simo esclusivamente il pen­sie­ro razionale, le nostre de­ci­sio­ni sarebbero ridotte ad un calcolo tra costi e benefici (2011, cap. 2). D’altra parte, il pensiero intuitivo può essere deviato da dei pre­giu­di­zi cognitivi, perciò il compito del pensiero razionale è quello di verificare le sue conclusioni e, se necessario, rettificarle. Per prendere de­ci­sioni eti­camente corrette, insomma, i due sistemi devono in­te­ragire. Avre­mo modo di vedere, nei prossimi capitoli, che la formazione eti­ca si deve rivolgere sia ad allenare il pensiero intuitivo a rimanere ade­ren­te ai dati og­gettivi, sen­za farsi deviare dalle tendenze istintive e dai pre­giudizi (capitolo 4), sia a educare il pensiero razionale a prendere decisioni sempre più attente e pon­derate (capitolo 9).

1.1.2 Il problema dell’errore nella conoscenza

Una questione spinosissima per chiunque di occupi di conoscenza, in qual­sia­si campo dello scibile umano, e l’etica non fa eccezione, è quella del­l’er­rore. L’esperienza ci mostra, infatti, che l’uomo è capace di cono­sce­re, la sua conoscenza è limitata, non assoluta, eppure generalmente affidabile; tut­tavia, ci mostra anche che a volte le nostre capacità cono­sci­tive fanno ci­lec­ca e sbagliano. Tradizionalmente sono due le cause alle quali sono attri­bui­ti i nostri errori cognitivi.
La prima è l’ignoranza: se non abbiamo tutte le informazioni necessarie per trarre una conclusione, facilmente la nostra conclusione sarà inesatta. Questo vale anche per l’etica: per prendere una decisione corretta riguardo a un caso etico, è necessario avere tutte le informazioni rilevanti per il ca­so, e tenerne conto. Come avremo modo di vedere, in ambito etico l’igno­ran­za può essere involontaria, incolpevole, quando non era assolutamente possi­bi­le ot­te­nere quelle informazioni, oppure essere colpevole, quando ri­guarda infor­ma­zioni che erano accessibili o ciò che per la nostra posizione pro­fes­sio­nale saremmo tenuti a sapere. Ad esempio, il medico non è scu­sa­to dal fatto di ignorare il contenuto del suo codice deontologico o gli effetti col­la­te­rali dei farmaci che prescrive. In entrambi i casi, comunque, l’igno­ran­za è una «non conoscenza», quindi il solo modo per evitarla è cercare di in­for­marsi nel modo più accurato possibile prima di trarre delle conclusioni o di decidere che cosa fare.
La seconda causa che tradizionalmente spiega gli errori conoscitivi è il prevalere, sulle nostre capacità razionali, della nostra sfera emotiva e degli istinti. Già Platone, nel Fedro, rappresentò l’anima umana come un carro a­lato, guidato da un auriga e trainato da due cavalli. L’auriga raffigura la ra­zionalità, che per muoversi ha bisogno dei cavalli, ma questi sono diffi­ci­li da controllare, perché rappresentano uno le passioni corporee, l’altro quelle più elevate. L’auriga ha perciò il compito di domare e dirigere i ca­val­li. Con que­st’im­magin...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Paola Premoli De Marchi
  3. Introduzione L’impresa di aprire un nuovo sentiero
  4. Il primo passo
  5. Premessa
  6. Capitolo 1 L’uomo come animale etico
  7. Capitolo 2 L’azione come atto libero che cambia il mondo
  8. Capitolo 3 L’etica si può insegnare?
  9. Capitolo 4 Prendere coscienza del problema etico: ostacoli e rimedi
  10. Il Secondo Passo: stabilire i criteri per giudicare
  11. Premessa
  12. Capitolo 5 La “lente” dei risultati: L’attenzione alle conseguenze delle azioni e al massimo bene possibile
  13. Capitolo 6 La “lente” dei principi: L’attenzione ai doveri e ai valori
  14. Capitolo 7 La “lente” della giustizia: L’attenzione alle relazioni
  15. Capitolo 8 La “lente” dell’eccellenza personale: l’attenzione alle virtù e alla crescita individuale
  16. Il Terzo Passo: prendere una decisione
  17. Premessa
  18. Capitolo 9 La decisione etica e le sue tappe
  19. Capitolo 10 La responsabilità morale individuale e collettiva
  20. Capitolo 11 La coscienza professionale e l’autonomia nell’esercizio della professione
  21. Capitolo 12 Dall’etica individuale all’etica dell’economia
  22. Capitolo 13 Elementi di etica d’impresa
  23. Il Quarto Passo: agire con coraggio
  24. Premessa
  25. Capitolo 14 La discrepanza tra previsione e azione
  26. Capitolo 15 L’etica del potere nelle organizzazioni
  27. Capitolo 16 La leadership etica: integrità, compromesso col male o corruzione di chi è al potere
  28. Capitolo 17 Come trovare il coraggio di fare la cosa giusta
  29. Bibliografia