Introduzione
La produzione letteraria di Giovanni Verga è molto vasta e varia; il massimo esponente del Verismo italiano, infatti (nato a Vizzini, in provincia di Catania, nel 1840 e morto a Catania nel 1922), cominciò la sua attività con il romanzo giovanile, rimasto inedito, “Amore e patria”, di argomento risorgimentale, seguito poi da “I carbonari della montagna”, pubblicato a sue spese, che narra del periodo storico della Carboneria calabrese, e dall’altro romanzo “Sulle lagune”, che descrive la situazione veneziana sottoposta all’Austria mentre l’Italia ha ottenuto l’indipendenza.
Nel 1865 lo scrittore si recò a Firenze, dove conobbe vari intellettuali, prendendo parte alla vita culturale della città, poi a Milano, dove la sua esperienza letteraria si arricchì e iniziò a comporre novelle e romanzi di ambientazione borghese, quali “Una peccatrice” (1865), “Storia di una capinera” (1870), “Eva” (1873), “Eros” (1875), “Tigre reale” (sempre del 1875), per approdare poi, anche grazie all’amicizia che lo legò al conterraneo Luigi Capuana, ai modi propri del Verismo, come venne chiamato il Realismo in Italia. Nel 1874 aveva infatti pubblicato “Nedda”, la storia di una misera raccoglitrice di olive, che segna l’inizio della sua produzione verista.
Nel 1876 fu poi pubblicata una raccolta di novelle, “Primavera e altri racconti”; l’anno successivo compose i famosi “Rosso Malpelo” e “Fantasticheria”. Ad essi si aggiunsero poi altri racconti che furono pubblicati nel 1880 col titolo “Vita dei campi”. Nel frattempo il Verga lavorava al romanzo “I Malavoglia”, che uscì nel 1881, non riscuotendo però molto successo.
Con il romanzo “Il marito di Elena” del 1882 il Verga ritorna a comporre nei modi tardoromantici, descrivendo un ambiente borghese. Nello stesso periodo inizia la stesura di diverse novelle che entreranno a far parte delle altre raccolte “Novelle rusticane” e “Per le vie”.
L’attività teatrale inizia nel 1884 con la trasposizione per le scene della novella “Cavalleria rusticana”, seguita da altre commedie tratte dalle sue novelle.
E’ del 1877 l’altra sua raccolta di novelle, dal titolo “Vagabondaggio”.
Dopo i soggiorni, anche lunghi, a Firenze, Milano, Roma, lo scrittore tornerà a Catania, dove pubblicherà nel 1890 il suo secondo grande romanzo, “Mastro Don Gesualdo”.
Verga è ricordato generalmente per le opere maggiori, i due romanzi “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, che fanno parte del ciclo dei “vinti”, il quale avrebbe dovuto ricomprenderne altri tre (“La Duchessa di Leyra”, “L’Onorevole Scipioni”, “L’uomo di lusso”), che non furono però completati (rimane solo il primo capitolo de “La Duchessa di Leyra” e parte del secondo). Il titolo originario del ciclo era “Marea”, come scrisse l’Autore in una lettera ad un amico; l’intera opera avrebbe dovuto rappresentare la sconfitta dell’individuo, per opera della vita, a qualsiasi ceto sociale egli appartenesse, dal più umile al più altolocato.
Presso l’editore Treves furono poi pubblicati nel 1891 “I ricordi del Capitano D’Arce” e nel 1894 “Don Candeloro e C.i”.
Negli ultimi anni della sua vita, l’autore continuò a lavorare al suo terzo romanzo per il “ciclo dei vinti”, ma si dedicò anche alla scrittura di drammi tratti dalle sue novelle e alla fotografia; nel 1906 venne poi pubblicato il dramma “Dal tuo al mio”. Iniziò anche a comporre la sceneggiatura per il cinema di alcune delle sue opere.
Per quanto riguarda “Don Candeloro e C.i.”, l’opera è un insieme di racconti di diverso argomento e diversa ambientazione. La prima novella, che dà il titolo all’intera raccolta, narra le vicende di una famiglia di attori di provincia, costretti a rinunciare agli ideali di gloria per poter sopravvivere, adeguandosi ai gusti grossolani del pubblico.
Dopo le raccolte di novelle e i romanzi di stampo verista, con questi racconti Verga ripiega sui temi della narrativa ottocentesca a lui contemporanea, rappresentando una varia umanità. Oltre agli artisti di teatro e alle loro vicende, che compaiono nelle prime tre novelle, l’Autore descrive una serata di successo di una cantante lirica acclamata da tutti e circondata da uno stuolo di corteggiatori; poi il declino, la fine di un amore e la morte di una danzatrice; nella sesta novella, si rappresenta l’ascesa sociale di “un commediante” che da uomo di malaffare riesce a diventare guardiano dei cappuccini; segue poi un altro racconto che descrive della rovina di un paese dopo il passaggio di un reggimento di soldati, che porta con sé la distruzione della guerra. Nell’ottava novella le vicende sono ambientate in un convento e tra le rivalità delle suore si inserisce una novizia di bassi natali, che è poco incline all’educazione impartitale; la novella seguente racconta dello sconvolgimento provocato a una tranquilla e onorata famiglia dopo un’insolita predica in chiesa. La decima novella racconta la storia di una povera giovane che, promessa sposa e già intenta alla preparazione del corredo, è costretta a farsi monaca poiché la sua famiglia è andata in rovina. Poi è la volta delle vicende di due innamorati che, nonostante abbiano organizzato una fuga d’amore per convincere il padre di lei ad acconsentire alle nozze e a elargire una ricca dote, non si sposeranno più, per l’intransigenza del vecchio e le richieste esose del giovane. Conclude la raccolta una novella che vuole esserne l’epilogo, rappresentando le diverse sfaccettature che può assumere la vita; il racconto è infatti introdotto dalle seguenti considerazioni dell’Autore stesso: “Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l’uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori! - Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!”
Sembra di sentire Pirandello e in effetti, a ben guardare, nelle novelle del Verga si possono ricercare tratti che saranno propri anche dello scrittore agrigentino, il quale ebbe grande stima del suo predecessore e ne esaltò le doti in due discorsi, uno tenuto il 2 settembre 1920 al Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania, in occasione dei festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno del Verga, e un altro tenuto alla Reale Accademia d'Italia, nel 1931.
La comunanza di origini e di formazione emerge dalle stesse parole di Pirandello; nel primo discorso egli scrive:
“Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si senton sicuri e si tengono appartati; per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e piú si chiudono in sé, perché di quest'aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l'ha, la sua poca gioia, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato”. Continua però trovando altre affinità con il suo conterraneo, e dice: “Ma ci son di quelli che evadono; di quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che, bravando quell'istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo che li fa isole a sé, e vanno ambiziosi di vita ove una loro certa fantastica sensualità li porta, spassionandosi, o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera, riposta passione, con quella ambizione di vita effimera. Il Verga, giovine, fu uno di questi”.
La “sicilianità” accomuna dunque i due grandi scrittori, ma anche la loro ricerca coraggiosa di arte, realtà e vita.
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