Il debito pubblico e le illusioni degli italiani
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Il debito pubblico e le illusioni degli italiani

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Il debito pubblico e le illusioni degli italiani

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Molti non si rendono conto delle difficoltà che derivano dall'elevato debito pubblico italiano. Oppure, pensano ancora che l'uscita dell'Italia dall'Euro sarebbe la soluzione di tutti i problemi, anche dell'insufficiente crescita economica. In questo libro si cerca di capire un po' meglio la difficile situazione politico-economica italiana.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788827864456
Argomento
Business
 

1. Il debito pubblico italiano.

 
Il debito pubblico dell’Italia è costituito dalle passività finanziarie delle sue amministrazioni pubbliche. Cresce se c’è un deficit, cioè uno squilibrio tra le spese e le entrate pubbliche, poiché il debito pubblico è il modo in cui le amministrazioni pubbliche di un Paese finanziano il proprio disavanzo.
Questo squilibrio, il deficit, è il risultato di due componenti: il saldo primario e la spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Il saldo primario è la differenza tra le entrate e le spese delle amministrazioni pubbliche, escluse le spese per gli interessi. La spesa per gli interessi dipende, ovviamente, sia dall’importo del debito, che dal livello dei tassi d’interesse.
Va rilevato che se manca un avanzo primario sufficiente per il pagamento degli interessi, e se il Prodotto interno lordo (Pil) rimane costante, o comunque aumenta meno del tasso di interesse sul debito, cresce “non solo il debito pubblico, ma anche il rapporto tra debito pubblico e Pil”.1
Un debito pubblico elevato assorbe una gran parte del risparmio nazionale, che potrebbe invece finanziare gli investimenti privati, e questo “spiazzamento - detto anche crowding out - aumenta se crescono i tassi di interesse sul debito. Infatti, maggiore è il rendimento dei titoli di Stato, maggiore è la quota del risparmio nazionale incentivata a preferire il finanziamento del disavanzo pubblico a quello degli investimenti privati.
Ma un aumento dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico comporta una riduzione degli investimenti privati anche per un’altra ragione: si trasmette a tutti i tassi di interesse dell’economia e per gli imprenditori diventa più difficile procurarsi il credito di cui hanno bisogno.
Last but non least, il servizio di un rilevante debito pubblico richiede anche una rilevante spesa pubblica - per l’Italia al momento tra i 60 e i 70 miliardi di euro - che potrebbe invece essere utilizzata per investimenti pubblici o anche per “produttive” spese correnti.
Soprattutto, un rilevante debito pubblico costituisce un grave vincolo alle scelte future di bilancio e un peso veramente ingiusto per le generazioni che verranno. Queste, infatti, se non vorranno aumentare ulteriormente il loro debito, dovranno inevitabilmente subire rilevanti riduzioni della spesa pubblica e/o rilevanti aumenti dell’imposizione tributaria. “Se ci sono anni in cui il bilancio pubblico è in disavanzo, ce ne devono essere altri in futuro in cui il bilancio pubblico manifesta un avanzo”. 2
In definitiva, un gravoso debito pubblico danneggia la crescita economica. Non è un caso che i tre Stati avanzati con il debito pubblico più elevato - Giappone, Grecia e Italia - sono cresciuti negli ultimi anni meno di altri. Uno studio di alcuni economisti del Fondo Monetario Internazionale ha evidenziato che un Paese con un debito pubblico pari al 120% del Pil, a parità di altre condizioni, potrà avere una crescita annua del Pil più bassa dell’1% circa di quella di un Paese con un debito pubblico pari al 60% del Pil. In sostanza, il crowding out opera pesantemente anche prima di una crisi finanziaria.3
Va precisato che il debito pubblico italiano è calcolato secondo le norme del Regolamento del Consiglio delle Comunità Europee n. 549/13 sul Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (SEC 2010) e del Regolamento n. 479/09 sui Disavanzi Eccessivi, modificato, quest’ultimo, dai Regolamenti n. 679/10 e n. 220/14. E secondo questo sistema statistico l’“indebitamento netto” non è, come potrebbe forse pensarsi, il debito pubblico, ma il deficit.
Alla fine del 2017 il debito pubblico italiano era pari a 2.263,056 miliardi di euro: il 131,8% del Pil. Il rapporto debito/Pil è significativo perché è dalla ricchezza prodotta, ovverosia dal Pil, che si ricavano, tramite le entrate tributarie, le risorse per ripagare il debito e i suoi interessi. La Banca d’Italia ha poi certificato il raggiungimento, alla fine del maggio 2018, di un nuovo record di 2.327,381 miliardi di euro: +3,6% rispetto alla fine del 2017. Alla fine di agosto 2018 il debito risultava poi pressoché invariato: 2.326,546 miliardi di euro. Va rilevato che il debito pubblico italiano era pari ugualmente al 131,8% del Pil alla fine del 2014, al 131,5% alla fine del 2015, al 132,0% alla fine del 2016: si tratta quindi di un rapporto sostanzialmente stabile, non in diminuzione, negli ultimi anni.
E’ comunque un rapporto, questo tra il nostro debito pubblico e il Pil, molto elevato. Tra gli Stati avanzati, soltanto il Giappone e la Grecia hanno un rapporto debito/Pil maggiore. Ma la Grecia non sembra un esempio da seguire e il Giappone si trova in una situazione particolare.
In effetti il Giappone, la nazione più indebitata del mondo, ha un debito pubblico pari a circa 8.000 miliardi di euro, circa il 250% del Pil. Ciò non ostante, il Paese ha mantenuto dal 2001 una valutazione di AAA, il miglior giudizio sull’affidabilità di un’economia emesso dalle agenzie di rating, e i tassi di interesse sui titoli di Stato giapponesi sono tra i più bassi del mondo: un titolo di Stato decennale giapponese rende meno del Bund tedesco, considerato il titolo di Stato decennale solido per eccellenza. Questa sostenibilità del debito pubblico giapponese dipende in primo luogo dal fatto che circa il 90% del debito pubblico giapponese è detenuto da soggetti residenti: la banca centrale (43%); istituti di credito (19%); assicurazioni e fondi pensione (20%); il fondo pensionistico nazionale (8%); risparmiatori (1%). Pertanto, creditori dello Stato giapponese sono in massima parte gli stessi giapponesi. In secondo luogo, il Paese può contare sulla possibilità della Bank of Japan di stampare moneta e anche di acquistare titoli di Stato.
Ben diversa è la situazione italiana. Infatti, con la nostra adesione al sistema della moneta unica europea, l’Euro, sono cresciute la fiducia nella solvibilità dell’Italia e pertanto anche - dal 4% del 1988 al 32% circa agli inizi del 2018 - la quota del nostro debito pubblico in mano a investitori stranieri. Inoltre, con l’adesione dell’Italia all’Eurozona, la Banca d’Italia, che già dal 1981 non doveva più necessariamente comprare titoli di Stato italiani (v. infra), ha perso anche la possibilità di stampare la moneta eventualmente necessaria per ripagare il nostro debito pubblico.
 

2. La storia del debito pubblico italiano.

Nei primi anni del Regno d’Italia, il rapporto debito pubblico/Pil era salito dal 36% all’80%, per le spese richieste da un vasto programma di opere pubbliche e per quelle conseguenti alla guerra con l’Austria del 1866, per l’incorporazione dei debiti degli Stati annessi e altro. Furono allora venduti immobili demaniali e vi fu anche una progressiva monetizzazione del disavanzo tramite la Banca nazionale. Ma risultò determinante la riforma fiscale della Destra di Quintino Sella e Marco Minghetti, con il suo riordino delle imposte dirette e l’inasprimento dell’imposta sui consumi. Dal 1870 al 1873 il rapporto debito/Pil scese così dall’80% a poco più del 60%.4
Con il successivo governo della Sinistra il debito pubblico aumentò, a causa soprattutto di un ampio programma di investimenti pubblici per lo sviluppo dell’economia italiana. Verso la fine degli anni ‘80 del XIX secolo, il rapporto debito/Pil aveva superato il 100% e alla fine del secolo si avvicinava al 120%.
Nei primi anni del XX secolo - l’epoca giolittiana - l’economia italiana si inserì nella fase espansiva dell’economia mondiale e si giovò ancora di investimenti importanti per la modernizzazione del paese: nel settore elettrico, nei trasporti, nella chimica. Inoltre, ebbe un grande successo un’operazione “volontaria” di conversione del debito. Fu infatti offerta la scelta tra la conversione dei titoli di Stato preesistenti in titoli consolidati al 3,75% e il rimborso del debito alla pari. E pochissimi scelsero il rimborso. Alla vigilia della prima guerra mondiale, il debito era sceso sotto il 75% del Pil.
Per le enormi spese della prima guerra mondiale, il debito pubblico - soprattutto verso la Gran Bretagna e gli Stati Uniti - era risalito, nel 1920, al 150% del Pil. I titoli di Stato di durata inferiore ai sette anni vennero allora forzatamente convertiti, nel 1926, in un prestito novennale chiamato “del Littorio” e il rapporto debito/Pil arrivò in tal modo a poco più del 50%. Ma dalla “grande depressione” in poi il debito riprese a salire e raggiunse nel 1943 il 110% del Pil.
Nel 1947 l’inflazione seguita alla seconda guerra mondiale, arrivata al 100% circa, ridusse il rapporto debito/Pil al 40%. Nello stesso tempo, Luigi Einaudi impostò una manovra di stabilizzazione monetaria che ricondusse l’inflazione sotto controllo.
Gli anni ‘50 e i primi anni ‘60 - il periodo del “miracolo economico” italiano - furono caratterizzati da un’elevata crescita economica, bassi tassi d’interesse e una severa politica di bilancio. Nel 1963 il rapporto debito/Pil era pari al 33%.
In seguito, anche in Italia, come nelle altre democrazie occidentali, aumentò la spesa per il welfare. Ma almeno negli anni ‘60, quando il Pil cresceva ogni anno intorno al 5% e l’inflazione appariva più o meno sotto controllo, il Paese poteva ancora permettersi un aumento delle spese pubbliche. Nel 1970, dopo dieci anni sempre in deficit, il rapporto debito/Pil era salito, dal 36,9% del Pil, solamente al 41,1%.
Era un equilibrio fragile e ciò divenne evidente negli anni ‘70. Il Pil crebbe meno del decennio precedente - in media del 3,4% l’anno - e l’inflazione decollò, anche a causa della crisi petrolifera: l’indice dei prezzi al consumo, che era al 5,2% nel 1972, arrivò al 21,7% alla fine del decennio. Ma proprio grazie all’elevata crescita del Pil nominale dovuta all’inflazione, l’Italia iniziò gli anni ‘80 con un debito pari “solo” al 59,5% del Pil.
Sennonché, nel 1981 l’amministrazione statunitense del presidente Ronald Reagan decise di abbattere l’inflazione, che negli USA aveva raggiunto il 14%, e pertanto la Fed aumentò drasticamente il costo del denaro, portandolo in sei mesi dal 9% a quasi il 19%. La Banca d’Italia, come tutte le altre grandi banche centrali, fu costretta a inseguire la Fed e a indirizzare il Paese su un cammino di “disinflazione”. Ma senza inflazione, l’aumento del debito a spese della lira diventò impraticabile.
Nel 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi concordarono il famoso “divorzio”: la Banca d’Italia venne liberata dall’obbligo di comprare l’invenduto alle aste dei titoli di Stato italiani e recuperò così una maggiore indipendenza nella sua politica monetaria. Si poteva sperare che il venir meno della chance dell’inflazione, per nascondere i deficit di bilancio, e la necessità di convincere gli investitori ad acquistare i titoli di Stato avrebbero indotto i governi italiani a una maggiore prudenza finanziaria. Ma ciò non accadde: a differenza delle altre grandi economie europee, per tutti gli anni ’80 l’Italia ebbe saldi primari (cioè al netto della spesa per gli interessi) sempre negativi. Con un’inflazione che non scese sotto il 10% fino al 1985, e la conseguente necessità di offrire elevati tassi d’interesse, indebitarsi sul mercato per l’Italia restava molto costoso. Il rapporto debito/Pil, che era al 59,5% nel 1980, arrivò così nel 1990 al 100%.
Sennonché, nel febbraio del 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, che aveva tra i suoi principali ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Il debito pubblico italiano.
  3. 2. La storia del debito pubblico italiano.
  4. 4. Le prospettive del 2019 per il debito pubblico italiano.
  5. 5. Le conseguenze di un possibile default
  6. 6. L’eventuale uscita dell’Italia dall’Euro
  7. 7. La vicenda del debito pubblico greco
  8. 8. I vincoli finanziari comunitari e costituzionali
  9. 9. Le promesse elettorali del marzo 2018
  10. 10. Populismi e demagogia alle elezioni del marzo 2018.
  11. 11. I risultati delle elezioni politiche del 2018
  12. 12. Una crisi di governo lunga e difficile
  13. 13. Il contratto di governo
  14. 14. La lunga e difficile gestazione della manovra di bilancio
  15. 15. L’espansione del Pil con il cosiddetto moltiplicatore
  16. 16. Dove va la nave?
  17. Note