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Dai paradossi alla verità (anzi, la verità dei paradossi), dall'economia all'antropologia: in questo volume l'autore spazia dalla filosofia al ripensamento dell'Homo oeconomicus. Restaurare il senso, constatandone l'inevitabile fiducia metafisica, è un'opportunità in più di riformulare la profondità della dimensione morale. Infatti, ciò che fa da costante sfondo è la ricerca delle condizioni ideali che costituiscono la scelta e quelle materiali che permettono la sua realizzazione.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831610001

ATTO PRIMO:
UN PIANO PARADOSSALE

Gesù da bambino costruì con suo padre falegname una croce che serviva per giustiziare un rivoltoso.
A fatti compiuti si congratularono l'un altro compiaciuti per il buon lavoro svolto. Così va la vita
(Kurt Vonnegu, Mattatoio n°5)
Come detto, non mi voglio occupare direttamente della questione della scelta, non voglio affrontarlo come un presupposto, bensì scoprirlo come un problema permeante i domini ideali e pratici della quotidianità. A proposito il paradosso, come sfida al buon senso comune, ci ha sempre affascinato rendendo la scelta difficile se non impossibile. Quando una cosa può essere sia vera che falsa, o incoerente con le premesse date, il mondo ci appare un luogo a cui è impossibile dare un ordine. Senza ordine non c’è possibilità di formulare ipotesi, quindi neppure di sceglierle. Il legame tra conoscenza e azione, attraverso la valutazione (della scelta), è palese. Da queste prime considerazioni ho sempre percepito che mi dovevo dire qualcosa sul paradosso e sulla conoscenza; queste riflessioni ne sono espressione.
Paradosso come sfida all’ortodosso e (appunto, paradossalmente) come condizione di una fede mistica. Fede a causa del presupposto metafisico; mistica a causa del misterioso potenziale di non detto (il metadetto) e, forse, anche del visto (ma non del possibile intuibile), che è insito nel paradosso. In tutto questo ciò che ci stimola a ricercare, a pensare altro anche oltre la contraddizione, è la fiducia. Senza la fede in ciò che crediamo non saremmo spinti a provarne la verità, senza la speranza in ciò che verrà non saremmo spinti ad esplorare mondi altri e ignoti. In questi tempi, segnati da crisi del domani, occorre ricordarlo: “Voglio ribadire un punto: il mondo di oggi sembra cospirare contro la fiducia” (Bauman Z., 2010, p. 64). Occorre ricordare che il “principio primo” non è dimostrabile, altrimenti lo useremmo nella sua stessa dimostrazione: ci affidiamo costantemente ad esso. È quella che si può chiamare fiducia epistemica, fondamento e conseguenza del conoscere. La Metafisica di Aristotele andrebbe riletta per farci capire come “metafisica” sia la condizione cognitiva in cui siamo, il paradosso di un principio usato nella sua dimostrazione è qui chiarificante: l’inevitabilità dell’affidarsi all’uso della non contraddizione va sottolineata. A ogni modo, non occorre confondere il “credere” con il “conoscere”, pensando che il primo termine sia precedente al secondo. In realtà, la fiducia nasconde un bisogno di credere e quindi, prima ancora, del/per conoscere. È questa l’essenza del principio di non contraddizione, in cui plasmiamo la conoscenza ipotetica del mondo a partire dalla sua esperienza diretta, fondata sull’esclusione: se vivo questo non vivo dell’altro. Ciò che denotiamo “credenza” è qualcosa che abbiamo in un qualche modo conosciuto, qualcosa riconducibile a un’esperienza. Solo il dogma nega tale evidenza; facendo passare l’autoconvincimento per comprensione si rinuncia all’impegno della ricerca. La religione spesso ha deformato il rapporto tra “conoscenza” e “credenza”; assimilando la prima in quest’ultima si riduce l’esperienza ad un semplice assenso dottrinale. A proposito è illuminante l’espressione di Eckhart nel suo Commento al Vangelo di Giovanni: “Chi crede non è ancora figlio di Dio”; come a dire che il punto non è credere o meno ad una forza soprannaturale (presupponendola), quanto conoscerla. Tuttavia, è pur vero che non posso conoscere se non presuppongo, se non stabilisco degli assiomi che ritengo validi (per esperienza o per ragionamento, o per entrambi). Il percorso di ricerca del vero risiede proprio in questa paradossale condizione: mediare costantemente tra dimensione teorica e pratica, tra presupporre ed esperire. Capire, cioè, cosa dell’esperienza è funzionale all’interpretazione, e cosa di quest’ultima cambia il modo in cui agiamo. Interdipendenza che legittima un discorso teoretico e pragmatico.
In questo percorso cerco di attraversare un primo terreno entrando nella razionalità della logica, capendone le sfide e i limiti. A riguardo c’è una vasta letteratura, a partire dalla logica per finire nella filosofia vera e propria; i paradossi stimolano la ragione, mettendola in discussione. La tentazione di lasciarsi andare a implicazioni filosofiche, a partire dai problemi “più tecnici” dei sistemi formali, è grande. Ciò non vuol dire che è illegittimo, tuttavia bisogna essere ben coscienti che il terreno “esistenziale” a cui certe considerazioni filosofiche si estendono, è altro rispetto a certi intenti più ristretti della logica. A proposito vorrei solo lanciare una constatazione alla condizione speculativa e conoscitiva dell’uomo, attraverso il paradosso. Per fare questo dovrò prescindere dall’ambito della logica analitica, per entrare in una sfera della filosofia che appare molto più distante: l’esistenzialismo. Da qui in poi la chiave di lettura tende ad essere l’implicazione del paradosso, riconosciuto tale dalla vita, ovvero: l’assurdo. Ad un attento osservatore non può sfuggire il parallelo tra due personaggi apparentemente distanti sul terreno intellettuale di inizio novecento: Wittgenstein e Camus. Entrambi stretti da una vita accademica non comune, per Wittgenstein rintracciabile nell’originalità del suo pensiero, difficilmente catalogabile negli standard dell’epoca di riferimento; per Camus nel non poter essere inserito pienamente in alcuna corrente letteraria. Queste ed altre ragioni biografiche - intellettuali, rendono i nostri due personaggi in un qualche modo anomali. Forse proprio per questo entrano, attraverso due registri differenti, nell’ambito del paradosso. Camus parlerà di assurdo, legato, anche qui, all’osservazione di una realtà che gli pare irragionevole ma forse, proprio perciò, ragionevole. Sul fronte analitico Wittgenstein vuole riconoscere l’eventualità della contraddizione, non accetta il dogmatico riposare in pace della ragione; piuttosto è turbato dal fatto che vi possa essere un modo di emanciparsi dal principio stesso di non-contraddizione: “e un giorno arriveremo a vantarci di esserci emancipati anche dalla non-contraddittorietà”. Ebbene, in questo riconoscimento di dimensioni “strane”, quasi inquietanti per la vita (Camus) e alla logica (Wittgenstein), sta qualcosa al fondo della natura umana, della sua stessa condizione e possibilità conoscitiva. In ballo c’è il problema del senso. Non c’è separazione, se non accademica, tra vita e ragione; per questo mi pare opportuno raccordare sotto un singolo punto di vista le due nozioni / intuizioni che stanno dietro ai suddetti due intellettuali. La conferma sta nel paradigmatico percorso intellettuale dei due filosofi; entrambi riassumono il lutto, la crisi, l’inevitabilità della caduta di certi miti ordinati e rassicuranti, che non vogliono cedere al pericolo del paradosso. Dall’altro la necessità di costruirsi nuovi orizzonti, di edificare, con rinnovata consapevolezza, nuove possibilità di senso nonostante il riconoscimento di ciò che ci appariva, o forse ci continua ad apparire, assurdo.
In Wittgenstein, in tutte le fasi del suo pensiero, sussiste l’interesse per il linguaggio, rimanendo l’oggetto principale della riflessione. Tant’è che lo stesso Russell sarà spinto a riportare il problema filosofico sostanziale a una dimensione linguistica, stretta tra il dicibile e il non dicibile:
Ho paura che tu non abbia realmente affermato la mia tesi principale, rispetto alla quale tutta la faccenda delle proposizioni logiche è soltanto un corollario. Il punto principale è la teoria di quello che si può esprimere con proposizioni – cioè con il linguaggio (e, che viene ad essere lo stesso, quel che si può pensare) – e quel che non si può esprimere in proposizioni, ma solo mostrare; questo, credo, è il problema cardine della filosofia… (Anscombe, 1959, p. 149)
Questo scarto ci rimane sempre davanti, perché quello che fonda la possibilità del dire fonda, ancora prima, la possibilità di vivere. In questo il raccordo esistenziale con il lavoro di Camus lo trovo decisivo. Accettare la vita è accettare che possa essere espressa, che abbia ancora qualcosa di sensato da dire. Il legame tra l’apparente distante mondo della logica (e i suoi paradossi) con il vivere è posto sulla nozione di senso, da qui quella di significato e scopo. Il problema filosofico fondamentale di un Russell o un Wittgenstein (il dicibile e l’indicibile) è, senza stupirci, lo stesso problema di Camus (il valere o meno di vivere). Entrambi gli approcci parlano di problemi filosofici “di base”, in cui risiede la medesima metafisica. Interessante la divisione tra fatti del mondo e proposizioni linguistiche; ciò che rende particolare questo “fatto proposizionale” (il linguaggio come fatto) è il riferimento al mondo del linguaggio attraverso la nozione di significato. Non a caso Wittgenstein parlerà, nella sua prima fase del Trattato logico-filosofico, di “raffigurazione logica del mondo”. Già qui si assiste a qualcosa di strano: il linguaggio (che è un fatto) parla di fatti. Nella storia dei paradossi questa ricorsività darà fastidio a Russell, darà fastidio un po’ a tutti; di meno al nostro Wittgenstein che cercherà vie alternative all’inevitabile. Da queste considerazioni il filosofo austriaco elabora il famoso metodo analitico, corrispondente a quella sua volontà di liquidare tutti i problemi della filosofia:
Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi: dunque, proposizioni della scienza naturale- dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare-, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l'altro- egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia-, eppure esso sarebbe l'unico rigorosamente corretto. Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se è salito per esse- su esse- oltre esse; (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. (Wittgenstein L., 1922, 6.53-7)
Ermetico ed enigmatico quanto basta per capire che il linguaggio stesso è come una scala da gettare via dopo averla usata. La cosa interessante da chiedersi, a questo punto, è: in virtù di cosa il discorso di Wittgenstein si sottrae al silenzio? Comunque, in questo modo il nostro logico trasforma la filosofia in un “sapere negativo”, atto non ad edificare scienza, piuttosto un’attività critica di ciò che non possiamo dire. “Terapia” del sapere attraverso la rimozione del mitico e idealistico credere di poter sapere. Non solo, il linguaggio si dimostra incapace di dire gran parte del mondo, da qui un certo sentimento mistico, su cui lo stesso autore non potrà tacere nella sua seconda fase. In effetti, il linguaggio descritto nel Tractatus è rigidamente segnato dal significato che rimanda all’oggetto del mondo; tuttavia si affaccia una pluralità sempre nuova di giochi linguistici. Qui Wittgenstein si improvvisa antropologo, cercando di calarsi nelle modalità di uso e creazione della comunicazione umana. Cerca di farsi testimone di quei giochi linguistici che gli lasciano intravedere la mistica di un discorso inevitabile, di una rappresentazione del mondo sempre nuova e necessaria. Se il silenzio mistico domina il primo taciturno Wittgenstein, il secondo torna a parlare, costretto com’è dall’evidenza, che non vi è una definizione univoca del significato di una parola; piuttosto questa è sempre mediata, rigiocata in nuove e possibili “forme di vita”. Entrare in queste ultime, studiarle, correggerne le eventuali aberrazioni, è ciò che può offrire la filosofia: non aggiunge nulla di suo, osserva attentamente il linguaggio per un suo uso meno metafisico. Quindi, capire i vari giochi linguistici non è solo un esercizio di comprensione del mondo attraverso il linguaggio che ne parla in modi differenti, bensì, allo stesso tempo, correzione e autoanalisi del nostro linguaggio (mondo) corrente. La cosa paradossale in Wittgenstein è che nel suo intento antimetafisico coglie il punto essenziale del linguaggio stesso: la sua natura metafisica. Non è un caso che la conclusione del Tractatus si rifugia nel silenzio, è come se avesse scoperto che per abolire il perpetuarsi di una metafisica fuorviante si debba tacere. Se tutto ciò che può e deve essere detto ha una corrispondenza con un fatto, allora non c’è nessuna parola che sfugge alla condanna di non essere la realtà: “Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia” (6.44). La parola sembra perdere ogni forza con la cogenza del fatto, lo scarto è tra realtà e sua rappresentazione. Ciò che guida la visione di Wittgenstein è analoga a quella apofantica di Aristotele, presupponendo che il linguaggio è manifestazione di ciò che è. Se la tesi del filosofo austriaco è quella di criticare il linguaggio e tacere per evitare implicazioni metafisiche, è pur vero che in seguito tornerà a parlare. In quest’altra fase la filosofia più che criticare ci deve mostrare i diversi giochi linguistici: le diverse metafisiche in atto che traiamo dai fatti. Il suo intento antimetafisico risulta evidente quando sceglie di tacere, intuendo qualcosa di ricorsivo e trascendente nel linguaggio, ma la necessità di ritornare a dire è espressione dell’inevitabilità a cui il discorso ci sottopone per comprendere. In questo caso il paradosso è che, nonostante l’intento di Wittgenstein sia quello di ripulire il linguaggio da riferimenti astrusi oltre i fatti (la fisica), egli si accorge che il linguaggio, come fatto, non può che doversi astrarre dalla realtà per poterne parlare. A questo punto la metafisica non diventa questione di evitamento, di scelta, bensì questione di grado e controllo di qualcosa che comunque c’è, se di decide di discutere, anzi, ancora prima, di osservare. L’idea dei giochi linguistici è rappresentativa del potenziale interpretativo del linguaggio, evidentemente non riconducibile al fatto più di quanto non sia prima riconducibile alla sua idea astratta. Il gioco linguistico, lungi dal poter essere ferrea rappresentazione (univoca) logica del mondo, è una sua continua reinterpretazione; possibile solo a fronte di una creazione, al di là della sola fattività che vorremmo conoscere per come è. Se vogliamo, la metafisica sussiste in quella costruzione, altrimenti sarebbe la fattività fisica: “il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore- né, se vi fosse, avrebbe un valore” (6.41). Il senso, il valore, è astrazione al di fuori del “gioco del fatto”; anzi, a priori non vi è nessun “gioco” nella nudità del mondo aldilà di una coscienza che lo problematizza. Piuttosto, è l’osservazione, al di fuori, nella nudità di ciò che “avviene come avviene”, a cercare un senso: il primo passo verso l’attribuzione di un significato che possiamo esprimere. Ogni osservazione è comunque sempre un potenziale detto, un qualcosa che “ci diamo” e che potremmo esprimere; qualcosa che come fatto non è il fatto, qualcosa che come descrizione non è il descritto. Sotto questo punto di vista la coscienza è conoscenza “in potenza”, il mezzo per il fine.
Se per Wittgenstein il paradosso è fonte di interesse e la realtà lo spinge al silenzio, rispetto all’inadeguatezza della parola, su un terreno esistenziale l’assurdo di Camus è la condizione entro cui tutto si dà. Il paradosso di Wittgenstein è quello di un linguaggio troppo interno al mondo di cui parla, parte e fatto di esso; spinta al silenzio ma strumento necessario per parlare. L’assurdo di Camus, quello specialmente introdotto teoricamente nel Il mito di Sisifo è svelato, non è una conclusione del ragionamento, bensì premessa ovvia: “l’assurdo è un peccato senza Dio”. La conseguenza è che: “tutto ciò che esalta la vita ne accresce, nello stesso tempo, l'assurdità”; nel mondo non essendoci ragione sembrano ancora più ridicole quelle cose che ne accrescono la bellezza, come se vi fosse una ragione. Qui Camus non indaga sulle possibilità di conoscere il mondo, non fa analisi epistemologiche, piuttosto si interroga sulla vita: “C'è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio”. Dietro la sua riflessione c’è costantemente il problema del senso, la valenza quotidiana ed emotiva. Ma a tutto ciò il filosofo si ribella, non può accettare passivamente l’assurdo: vi si deve rivoltare. Anche qui, o si muore o si vive, non esistono le mezze misure. Contro l'insensatezza occorre farsi forza e imporsi, dando l’impronta del suo; si ha la sensazione di assistere ad un monito rel...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. ATTO PRIMO: UN PIANO PARADOSSALE
  3. ATTO SECONDO: LA SCELTA DELL’ECONOMIA E SCELTE OLTRE L’ECONOMIA
  4. BIBLIOGRAFIA