Il domani dello sviluppo
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Il domani dello sviluppo

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Al concetto di sviluppo se ne associano molti altri, spesso confondendoli, come: crescita, benessere, qualità della vita, evoluzione, miglioramento continuo. L'autore ci invita a riflettere sui riduzionismi che applichiamo a queste nozioni, specie nelle risposte date per affrontare il complesso contesto contemporaneo, segnato dai venti della crisi. Si indaga sui problemi di un ostentato "crescismo", che vede nell'irriflessiva rincorsa all'incremento la panacea macroeconomica a tutti i mali. Un approccio cieco sull'inevitabilità dei limiti (sociali ed ecologici) intrinseci in ogni modello di sviluppo. Alla diagnosi di stringenti problemi l'autore contrappone una breve overview sulle possibili soluzioni, terreno fertile per immaginare cambiamenti che richiedono un enorme sforzo culturale, di cui è opportuno parlare per costruire consapevolezza e fare il domani.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831609777

PROBLEMI

“La cre­sci­ta, per il ca­pi­ta­li­smo, è una ne­ces­si­tà si­ste­mi­ca to­tal­men­te in­di­pen­den­te dal­la e in­dif­fe­ren­te al­la real­tà ma­te­ria­le di ciò che crea. Es­sa ri­spon­de ad un bi­so­gno del ca­pi­ta­le.”
(Gorz A., 2007)

UNA SUPERIDEOLOGIA

“Vi so­no due tra­ge­die nel­la vi­ta. Una con­si­ste nel non ot­te­ne­re ciò che il vo­stro cuo­re de­si­de­ra. L’al­tra nell’ot­te­ner­lo”
(Shaw)
Se il pro­gres­so cor­ri­spon­de a un mo­men­to, per ca­ri­tà de­si­de­ra­bi­le, ne­ces­sa­rio, del­le so­cie­tà uma­ne, non oc­cor­re di­men­ti­car­si che esi­ste an­che la fa­se dell’equi­li­brio. Equi­li­brio non vuol di­re ne­ces­sa­ria­men­te “mi­glio­ra­men­to con­ti­nuo”, ma­ga­ri es­se­re po­sti sem­pre in una si­tua­zio­ne sfi­dan­te per es­se­re “sti­mo­la­ti”; vuol di­re piut­to­sto sa­pe­re quan­do e quan­to spin­ger­si fi­no al li­mi­te, co­sì co­me ri­co­no­sce­re e ri­spet­ta­re i con­fi­ni. Ana­lo­ga­men­te, vin­ce­re non vuol di­re sem­pre con­se­gui­re l’obiet­ti­vo che ci si era po­sti ma an­che ca­pi­re quan­do è il mo­men­to di sa­per ri­nun­cia­re. In sen­so la­to “mi­glio­ra­re” non è det­to che sia sem­pre giu­sto e de­si­de­ra­bi­le, al­le vol­te è più im­por­tan­te fo­ca­liz­zar­si sul con­so­li­da­men­to, la sta­bi­li­tà (che com­por­ta si­cu­rez­za). A tal pro­po­si­to è in­te­res­san­te re­cu­pe­ra­re un po’ di quel­la cir­co­la­ri­tà a cui si ri­con­du­co­no so­prat­tut­to mol­te tra­di­zio­ni fi­lo­so­fi­che orien­ta­li, più che ri­dur­re i pro­ces­si a un co­stan­te evo­lu­zio­ni­smo li­nea­re frut­to po­si­ti­vi­sta del­la fi­lo­so­fia mo­der­na. Que­sta sag­gez­za non cre­de che su­pe­ra­re e su­pe­rar­si sia sem­pre buo­no e giu­sto, ben­sì è pron­ta per de­fi­ni­zio­ne a met­ter­si in di­scus­sio­ne e a va­lu­tar­si in ba­se al­la cir­co­stan­za. Que­ste con­di­zio­ni ser­vo­no da pre­mes­sa per tor­na­re ad ap­pro­priar­ci del­la no­zio­ne di “li­mi­te”, as­so­cia­ta non all’an­ti­te­si ne­ga­ti­va con svi­lup­po, cre­sci­ta, mi­glio­ra­men­to; piut­to­sto è par­te del­la stes­sa me­da­glia. Con­cre­ta­men­te ciò ci por­ta a ri­co­no­sce­re il “pun­to di rot­tu­ra” tra evo­lu­zio­ne (mi­glio­ra­men­to) e qua­li­tà del­la vi­ta; la di­re­zio­ne che dia­mo al­le co­se. Se vi è sta­ta una cer­ta de­ri­va “ef­fi­cen­ti­sta” è per­ché an­da­va a so­ste­gno del­lo spic­ca­to pro­dut­ti­vi­smo, na­to a sua vol­ta da un an­tro­po­cen­tri­smo te­so a vo­ler­si im­pos­ses­sa­re del­le co­se (la na­tu­ra, per esem­pio), piut­to­sto che va­glia­re an­che l’ipo­te­si di co­strui­re con es­se re­la­zio­ni di equi­li­brio. Ciò che ci de­ve gui­da­re, più che un ge­ne­ri­co (per­ché aprio­ri­sti­co) “mi­glio­ra­men­to con­ti­nuo”, do­vreb­be es­se­re: mi­glio­ra­men­to di co­sa? Per co­sa e chi? A qua­li con­di­zio­ni? Sen­za ta­li pre­ci­sa­zio­ni as­su­me­re co­me at­ti­tu­di­ne l’oriz­zon­te pe­ren­ne dell’ot­ti­miz­za­zio­ne può es­se­re pe­ri­co­lo­so, ol­tre che sen­za sen­so. In que­sto pa­no­ra­ma la for­mu­la toyo­ti­sta del Kai­zen ha so­lo da­to vo­ce a del­le ten­sio­ni pre­sen­ti ben pri­ma nel po­si­ti­vi­smo mo­der­no. Al­lo stes­so mo­do più re­cen­ti tor­men­to­ni co­me l’Em­po­wer­ment (che non a ca­so ha tro­va­to an­co­ra una vol­ta ter­re­no fer­ti­le nei con­te­sti or­ga­niz­za­ti­vi / la­vo­ra­ti­vi) ri­flet­to­no la me­de­si­ma ste­ri­li­tà con­cet­tua­le di ri­dur­re qual­sia­si tra­sfor­ma­zio­ne a una cre­sci­ta. Si ha la sen­sa­zio­ne che se non si lot­ta per que­sto eter­no “obiet­ti­vo” de­ca­de ogni ra­gio­ne di azio­ne. In ta­li ve­ne cir­co­la il cre­sci­smo. Ma la co­sa in­te­res­san­te è che que­st’ul­ti­mo è più di una clas­si­ca ideo­lo­gia, è una “su­pe­ri­deo­lo­gia”, pro­prio per­ché si trat­ta di un suo po­ten­zia­men­to (tan­to per ri­ma­ne­re su que­sti ter­mi­ni “mi­glio­ran­ti”). La ra­gio­ne è sem­pli­ce e de­ter­mi­nan­te ri­spet­to al­le clas­si­che ideo­lo­gie: cre­sce­re o svi­lup­par­si so­no vi­sti co­me un fe­no­me­no na­tu­ra­le nell’or­di­ne po­si­ti­vo del­le co­se. Al­le clas­si­che con­vin­zio­ni fi­dei­sti­che se ne ri­co­no­sce spes­so il ca­rat­te­re ar­ti­fi­cia­le, uma­no, per cui an­che nel­la mol­ti­tu­di­ne del sen­so co­mu­ne vi pos­so­no es­se­re pa­re­ri con­tra­stan­ti sul­la sua cor­ret­tez­za; ma quan­do si in­ne­sta la “na­tu­ra­li­tà” in cer­ti fe­no­me­ni si pen­sa che non può es­se­re al­tri­men­ti. L’ideo­lo­gia re­li­gio­sa è sor­ret­ta dal­la fe­de nel so­pran­na­tu­ra­le; all’ideo­lo­gia po­li­ti­ca fa da sfon­do il fa­na­ti­smo, l’in­dot­tri­na­men­to, non di ra­do la vio­len­za; la su­pe­ri­deo­lo­gia è an­co­ra più coer­ci­ti­va poi­ché è mol­to più sot­ti­le: si fa for­te del­la scien­za (tra­mu­ta­ta or­mai in tec­ni­ca), crean­do co­sì il le­ga­me di ov­vie­tà con la na­tu­ra. In que­sto mo­do il pa­ra­dig­ma che le­ga cre­sci­mo e tec­ni­ca, fon­den­do­li as­sie­me, li raf­for­za re­ci­pro­ca­men­te. Al­lo­ra, die­tro il su­per­ca­pi­ta­li­smo (si ve­da la dia­gno­si con­tem­po­ra­nea di Ro­bert Rei­ch) de­ve es­ser­ci, per l’ap­pun­to, una su­pe­ri­deo­lo­gia, ca­rat­te­riz­za­ta dal­la na­tu­ra­li­tà. Evo­lu­zio­ne e cre­sci­ta so­no due co­se da non con­fon­de­re. La no­zio­ne di “svi­lup­po” (co­sì co­me quel­la di mi­glio­ra­men­to) in­ve­ste en­tram­bi i con­cet­ti, nel pri­mo ca­so in qua­li­tà di ri­spo­sta a un con­te­sto mu­ta­to, nel se­con­do in qua­li­tà di un ri­du­zio­ni­smo ca­pa­ce di as­so­cia­re l’ac­cu­mu­lo di ric­chez­za con il be­nes­se­re. Se con­fu­tia­mo que­sti le­ga­mi aprio­ri­sti­ci “cre­sce­re” non vuol di­re ne­ces­sa­ria­men­te svi­lup­po, co­sì co­me “mi­glio­ra­men­to”, tan­to­me­no si trat­ta di un pro­ces­so evo­lu­ti­vo. L’ap­piat­ti­men­to cre­sci­sta con­si­ste pro­prio nel ri­con­dur­re tut­to, per­fi­no la na­tu­ra, a se stes­so.
Co­me det­to, seb­be­ne la pro­pen­sio­ne na­tu­ra­le dell’es­se­re uma­no sia quel­la di vo­le­re e spe­ra­re in “qual­sia­si mi­glio­ra­men­to” (del­le po­si­ti­vi­tà), non va di­men­ti­ca­to che, co­me ri­cor­da­va Kant, die­tro al­la pro­mes­sa di fe­li­ci­tà che ac­com­pa­gna ogni de­si­de­rio, vi si na­scon­de quel­la del­la sua di­stru­zio­ne: “Da­te pu­re a uo­mo tut­to ciò che de­si­de­ra, ma ap­pe­na lo avrà sen­ti­rà che tut­to non è tut­to”. L’uto­pia ci gui­da let­te­ral­men­te nel be­ne e nel ma­le. La spin­ta po­si­ti­va del “non ave­re li­mi­ti” ce­la la ten­sio­ne ne­ga­ti­va dell’in­fe­li­ci­tà, la con­dan­na all’in­sod­di­sfa­zio­ne per­ma­nen­te. È del tut­to na­tu­ra­le pen­sa­re a una so­cie­tà in co­stan­te mi­glio­ra­men­to ed es­ser­ne al­tret­tan­to de­lu­si quan­do se ne par­la. La que­stio­ne pe­rò è di au­to­con­sa­pe­vo­lez­za e mi­su­re: ca­pi­re di vol­ta in vol­ta le aspet­ta­ti­ve che ci gui­da­no, co­sa in­ten­dia­mo per mi­glio­ra­men­to e co­me pos­sia­mo ge­stir­lo. Stu­dia­re un po’ me­glio le di­men­sio­ni del­la de­lu­sio­ne sot­te­sa al­le scel­te che fac­cia­mo ci per­met­te non di evi­tar­la ma di es­se­re più con­sa­pe­vo­li. D’al­tra par­te se ciò ac­ca­de per il sin­go­lo va­le an­che per le so­cie­tà, lì do­ve la fe­li­ci­tà è stret­ta­men­te con­nes­sa al­le aspet­ta­ti­ve, è sem­pre be­ne sa­per mi­su­ra­re que­ste ul­ti­me per sal­va­guar­da­re la pri­ma:
Il mon­do che sto ten­tan­do di in­da­ga­re in que­sto sag­gio è quel­lo in cui gli in­di­vi­dui pen­sa­no di de­si­de­ra­re una co­sa, ma poi, non ap­pe­na l’han­no ot­te­nu­ta, sco­pro­no con co­ster­na­zio­ne di non de­si­de­rar­la af­fat­to quan­to pen­sa­va­no o di non de­si­de­rar­la per nul­la, e che ciò che ora de­si­de­ra­no real­men­te è qual­cos’al­tro, qual­co­sa di cui in pre­ce­den­za era­no ben po­co co­scien­ti. Noi non agia­mo mai in re­la­zio­ne ad un’am­pia ge­rar­chia di de­si­de­ri sta­bi­li­ta da qual­che psi­co­lo­go in­ten­to ad esa­mi­na­re i mol­te­pli­ci obiet­ti­vi o “bi­so­gni” dell’uma­ni­tà, ma in­ve­ce, in ogni mo­men­to del­la no­stra esi­sten­za rea­le – e que­sto è spes­so ve­ro an­che per le so­cie­tà in­te­re – per­se­guia­mo al­cu­ni obiet­ti­vi che poi so­sti­tuia­mo con al­tri. (Hir­schmn, Al­bert O., 1983, p. 39)
Eb­be­ne, ec­co i de­si­de­ri mo­der­ni: cre­sce­re per svi­lup­par­si, mi­glio­ra­re e pro­gre­di­re, so­no tut­ti au­to­ma­ti­smi con­cet­tua­li e no­zio­ni che as­so­cia­mo ge­ne­ral­men­te al­le co­se sen­za dar­vi una rea­le di­re­zio­ne, a par­te il fat­to di vi­ve­re il tut­to co­me del­le co­se buo­ne e giu­ste in ogni ca­so, poi­ché que­ste co­sti­tui­sco­no ge­ne­ri­ca­men­te la di­re­zio­ne da se­gui­re. A par­ti­re da que­sti pre­sup­po­sti l’af­fer­mar­si dell’uo­mo non può e non de­ve co­no­sce­re li­mi­ti, poi­ché egli si è or­mai svin­co­la­to dal­la sog­ge­zio­ne dell’am­bien­te. Una vol­ta con­trol­la­to e do­mi­na­to a pro­prio pia­ci­men­to que­st’ul­ti­mo tut­to è pos­si­bi­le, in ogni cam­po del sa­pe­re e del fa­re. Ta­le an­tro­po­cen­tri­smo, che ha i suoi al­bo­ri in Car­te­sio, è la giu­sta con­di­zio­ne per la na­sci­ta e il pro­spe­ra­re dell’in­te­res­se eco­no­mi­co, il pri­mo per de­fi­ni­zio­ne a non tro­va­re li­mi­ti. Si get­ta­no in que­sto mo­do le ba­si del­la scien­za mo­der­na, ap­por­tan­do di fat­to un no­te­vo­le pas­so in avan­ti nel si­ste­ma di pen­sie­ro. Tut­ta­via, nel di­rom­pen­te fiu­me del­le idee po­si­ti­ve, si na­scon­do­no dei ger­mi cre­sci­sti che sa­ran­no de­sti­na­ti a tro­va­re ter­re­no fer­ti­le. Sia­mo pe­rò si­cu­ri che ciò che fi­no a po­co tem­po fa ci ha gui­da­to ver­so un con­cre­to be­nes­se­re e fe­li­ci idee di fu­tu­ro, non pos­sa es­se­re la stes­sa co­sa che mi­nac­cia ciò in cui spe­ria­mo? Oc­cor­re al­lo­ra in­da­ga­re qua­le idea di fu­tu­ro ci gui­da, at­tra­ver­so un ri­tor­no al­la sto­ria del­le idee.

FUTURI FRAINTESI

Og­gi pos­sia­mo tran­quil­la­men­te di­re che gli eco­no­mi­sti clas­si­ci del XIX se­co­lo sba­glia­ro­no le lo­ro pro­fe­zie in me­ri­to ai pro­fon­di mu­ta­men­ti che sta­va­no os­ser­van­do nel­la na­scen­te so­cie­tà in­du­stria­le. Per pri­mo non può che ve­nir­ci in men­te Mal­thus e le pre­oc­cu­pa­zio­ni le­ga­te all’in­cre­men­to del fat­to­re de­mo­gra­fi­co, il qua­le sa­reb­be sta­to la cau­sa di dif­fu­se ca­re­stie, vi­sta l’in­ca­pa­ci­tà di so­ste­ne­re la pro­du­zio­ne per un fab­bi­so­gno sem­pre più gran­de. L’uni­ca al­ter­na­ti­va al ri­schio so­vrap­po­po­la­zio­ne di­ven­ta il con­trol­lo del­la na­ta­li­tà. Co­sa di­reb­be og­gi Mal­thus ve­den­do il nu­me­ro de­gli abi­tan­ti pre­sen­ti sul pia­ne­ta? An­zi, co­sa di­reb­be nel mo­men­to in cui, in al­cu­ne par­ti del mon­do, sia­mo per­fi­no ar­ri­va­ti a un ec­ces­so di ca­pa­ci­tà pro­dut­ti­va ri­spet­to al­la do­man­da? Che di­re poi di Ri­car­do, il qua­le un pa­io di de­cen­ni do­po il Sag­gio (1798) mal­thu­sia­no pub­bli­ca i Prin­ci­pi dell’eco­no­mia po­li­ti­ca e dell’im­po­sta (1817), in cui espri­me tut­ta la pau­ra a lun­go ter­mi­ne ri­guar­do al­la ren­di­ta fon­dia­ria e il prez­zo del­la ter­ra. Se­con­do que­sta vi­sio­ne la ter­ra sa­reb­be di­ven­ta­ta un be­ne sem­pre più ra­ro nel mo­men­to in cui, an­che qui, cre­sce la po­po­la­zio­ne e il pro­dot­to. Le di­ret­te con­se­guen­ze di ta­li fe­no­me­ni so­no una cre­scen­te di­su­gua­glian­za, in quan­to sa­rà sem­pre più va­sto il ri­cor­so a ter­re­ni me­no fer­ti­li con ren­di­te più bas­se, fa­cen­do au­men­ta­re la "ren­di­ta dif­fe­ren­zia­le" (la dif­fe­ren­za tra la ren­di­ta dei ter­re­ni più fer­ti­li e quel­la dei ter­re­ni me­no fer­ti­li). Non so­lo, il se­con­do fat­to­re di spe­re­qua­zio­ne è da­to dal­la “leg­ge fer­rea dei sa­la­ri”, se­con­do la qua­le, in ba­se al­la leg­ge del­la do­man­da e dell'of­fer­ta, i sa­la­ri ten­do­no ad ab­bas­sar­si sem­pre più per at­te­star­si al me­ro li­mi­te di so­prav­vi­ven­za del la­vo­ra­to­re. In­fi­ne, che di­re di Marx, for­se il più at­tua­le e rap­pre­sen­ta­ti­vo esem­pio di pen­sie­ro at­to a in­ter­pre­ta­re le spe­re­qua­zio­ni le­ga­te al ca­pi­ta­le. La sua pre­vi­sio­ne ve­de­va o un ca­lo pro­gres­si­vo del tas­so di pro­fit­to (ge­ne­ran­do ten­sio­ni tra i ca­pi­ta­li­sti stes­si, de­pre­dan­do­si a vi­cen­da una ric­chez­za or­mai più ra­ra da ot­te­ne­re), op­pu­re un au­men­to sen­za mi­su­ra del­la quo­ta di ca­pi­ta­le del red­di­to na­zio­na­le (por­tan­do la clas­se ope­ra­ia a ri­bel­lar­si con­tro i de­ten­to­ri di ca­pi­ta­le).
Senz’al­tro vi era­no an­che non po­chi con­tem­po­ra­nei a que­sti au­to­ri me­no pre­oc­cu­pa­ti dell’av­ven­to di di­strut­ti­ve di­su­gua­glian­ze. Lo sce­na­rio in­tel­let­tua­le si pre­sen­ta­va più di­ver­si­fi­ca­to ri­spet­to al­le ge­ne­ra­zio­ni suc­ces­si­ve: c’era spa­zio sia per l’elo­gio all’in­fal­li­bi­li­tà dei dog­mi eco­no­mi­ci, co­sì co­me per la pro­fes­sio­ne di im­mi­nen­ti ca­ta­cli­smi, se non si fos­se cor­so ai ri­pa­ri. Al con­tra­rio di og­gi, do­ve il co­ro eco­no­mi­co pa­re per­lo­più una­ni­me, spe­cie quan­do ci si ca­la all’in­ter­no del­le pras­si po­li­ti­che; le uni­che vo­ci dis­sen­zien­ti so­no del­le mi­no­ran­ze, de­no­ta­te co­me igno­ran­ti ri­spet­to al­la com­ples­si­tà del­la scien­za eco­no­mi­ca. La svol­ta ot­ti­mi­sta ver­so un fu­tu­ro do­mi­na­to dal be­nes­se­re, an­zi­ché dal­la spe­re­qua­zio­ne, ver­rà for­ni­ta dal­la cur­va di Kuz­ne­ts, in cui l'au­men­to dell'oc­cu­pa­zio­ne e del­la pro­dut­ti­vi­tà por­te­reb­be­ro a un in­cre­men­to dei sa­la­ri e a una di­stri­bu­zio­ne più egua­le del red­di­to. Una vol­ta sal­da­te le vo­lon­tà e le im­pres­sio­ni a so­li­de teo­rie, far­ci­te con buo­na do­se di tec­ni­ca ma­te­ma­ti­ca, l’idea di un fu­tu­ro, do­mi­na­to dai dog­mi eco­no­mi­ci orien­ta­ti al con­ti­nuo be­nes­se­re, è or­mai com­piu­ta. La na­sci­ta del ce­to me­dio, il boom eco­no­mi­co sup­por­ta­to dal­la tec­no­lo­gia, fa­ran­no il re­sto per con­fer­ma­re che que­sta è l’idea di fe­li­ci­tà e di be­nes­se­re che de­ve gui­da­re le so­cie­tà, dun­que le lo­ro pras­si po­li­ti­che.
Gli au­to­ri clas­si­ci sba­glia­ro­no le lo­ro os­ser­va­zio­ni per­ché igno­ra­ro­no le in­no­va­zio­ni tec­no­lo­gi­che che han­no au­men­ta­to la pro­dut­ti­vi­tà, li­vel­lan­do co­sì più del pas­sa­to il pro­ces­so di ac­cu­mu­la­zio­ne e il ca­pi­ta­le pri­va­to. Igno­ra­ro­no la so­ste­ni­bi­li­tà del­la cre­sci­ta de­mo­gra­fi­ca a fron­te del­le in­no­va­zio­ni tec­ni­che (scon­giu­ran­do i ti­mo­ri Mal­tu­sia­ni); una de­mo­gra­fia che, as­sie­me al­le in­no­va­zio­ni tec­no­lo­gi­che, ha con­sen­ti­to an­che un in­nal­za­men­to del pro­dot­to in­ter­no lor­do, tra l’al­tro age­vo­la­to da con­tin­gen­ze sto­ri­che co­me le due guer­re mon­dia­li. In­som­ma, una con­giun­tu­ra di fat­to­ri fa­vo­re­vo­li per al­ti tas­si di cre­sci­ta, il mo­men­to sto­ri­co idea­le per l’emer­ge­re di una clas­se me­dia che an­dò a di­stri­bui­re le di­su­gua­glian­ze, co­sì for­ti in pros­si­mi­tà del­la pri­ma guer­ra mon­dia­le. Gli eco­no­mi­sti del XIX se­co­lo non va­lu­ta­ro­no tut­te que­ste no­vi­tà sto­ri­che per­ché ave­va­no uno sguar­do le­ga­to al lo­ro pas­sa­to e sem­pli­ce­men­te per­ché mol­te pre­vi­sio­ni era­no nell’im­pos­si­bi­li­tà sto­ri­ca di com­pier­le. Di con­se­guen­za, quan­do si va­lu­ta­no con oc­chi vec­chi fe­no­me­ni nuo­vi si ri­schia di de­ri­va­re in vi­sio­ni apo­ca­lit­ti­che o idil­lia­che. Mol­ti au­to­ri del XIX se­co­lo scon­fi­na­ro­no nel­la pri­ma vi­sio­ne, aven­do pe­rò il pre­gio di fo­ca­liz­zar­si su pro­spet­ti­ve fon­da­men­ta­li di lun­go pe­rio­do, po­nen­do l’ac­cen­to su in­giu­sti­zie e di­su­gua­glian­ze. L’eco­no­mia ave­va una sua di­men­sio­ne di pre­oc­cu­pa­zio­ne so­cia­le per­ché era più vi­ci­na al­le ori­gi­ni, al­le que­stio­ni so­cia­li che l’han­no fat­ta sor­ge­re. È con l’im­por­si dei mo­del­li sem­pli­ci­sti­ci, au­toe­spli­ca­ti­vi, in par­ti­co­la­re con il cre­scen­te uti­liz­zo di mo­del­li ma­te­ma­ti­ci nul­la più che “rap­pre­sen­ta­ti­vi”, che l’eco­no­mia met­te da pa­re ogni pre­oc­cu­pa­zio­ne per tra­ghet­tar­si ver­so un il­li­mi­ta­to ot­ti­mi­smo, la cui pre­con­di­zio­ne as­so­lu­ta è la cre­sci­ta eco­no­mi­ca. Cre­sce­re per svi­lup­par­si: ri­cet­ta che ha fat­to sva­ni­re i ti­mo­ri dei vec­chi au­to­ri e che ci ha con­dot­to nel­la de­ri­va op­po­sta, fat­ta di un sem­pli­ce rei­te­ro dei suoi in­gre­dien­ti per il suc­ces­so a dol­ce esi­to. Il se­gno dell’ideo­lo­gia è co­sti­tui­to dal fat­to che og­gi ci tro­via­mo in una si­tua­zio­ne dia­me­tral­men­te op­po­sta: quel­lo che do­vreb­be far­ci ve­ni­re dei dub­bi è che co­sì co­me il pes­si­mi­smo apo­ca­lit­ti­co del XIX se­co­lo ha fal­li­to (per ora) nel pre­ve­de­re il fu­tu­ro, al­lo stes­so mo­do il ge­mel­lo spe­cu­la­re dell’ot­ti­mi­smo ir­ri­fles­si­vo può fal­li­re nel pen­sar­si sem­pre e co­mun­que la ri­cet­ta di ba­se del be­nes­se­re. D’al­tra par­te, al­me­no già da un de­cen­nio tut­ti i tas­si di cre­sci­ta nei pae­si evo­lu­ti han­no su­bi­to un si­gni­fi­ca­ti­vo de­cre­men­to, fa­cen­do in­tra­ve­de­re una di­na­mi­ca in­ver­sa or­mai di na­tu­ra strut­tu­ra­le. Sem­mai, è sta­to ec­ce­zio­na­le il boom eco­no­mi­co del­la se­con­da me­tà del no­ve­cen­to, più che le con­tem­po­ra­nee sta­gna­zio­ni dei pae­si in­du­stria­liz­za­ti. A scon­giu­ra­re nuo­ve cu­pe vi­sio­ni non ci re­sta che una mag­gio­re co­scien­za sto­ri­ca di ta­li di­na­mi­che, stret­te tra due op­po­ste de­ri­ve: apo­ca­lit­ti­ca o idil­lia­ca.
Co­me la na­tu­ra uma­na ci in­se­gna, pa­re che pre­...

Indice dei contenuti

  1. DIGRESSIONI INIZIALI
  2. PROBLEMI
  3. C’È CHI DICE NO
  4. SOLUZIONI
  5. BIBLIOGRAFIA MINIMA
  6. Note