PROBLEMI
“La crescita, per il capitalismo, è una necessità sistemica totalmente indipendente dalla e indifferente alla realtà materiale di ciò che crea. Essa risponde ad un bisogno del capitale.”
(Gorz A., 2007)
UNA SUPERIDEOLOGIA
“Vi sono due tragedie nella vita. Una consiste nel non ottenere ciò che il vostro cuore desidera. L’altra nell’ottenerlo”
(Shaw)
Se il progresso corrisponde a un momento, per carità desiderabile, necessario, delle società umane, non occorre dimenticarsi che esiste anche la fase dell’equilibrio. Equilibrio non vuol dire necessariamente “miglioramento continuo”, magari essere posti sempre in una situazione sfidante per essere “stimolati”; vuol dire piuttosto sapere quando e quanto spingersi fino al limite, così come riconoscere e rispettare i confini. Analogamente, vincere non vuol dire sempre conseguire l’obiettivo che ci si era posti ma anche capire quando è il momento di saper rinunciare. In senso lato “migliorare” non è detto che sia sempre giusto e desiderabile, alle volte è più importante focalizzarsi sul consolidamento, la stabilità (che comporta sicurezza). A tal proposito è interessante recuperare un po’ di quella circolarità a cui si riconducono soprattutto molte tradizioni filosofiche orientali, più che ridurre i processi a un costante evoluzionismo lineare frutto positivista della filosofia moderna. Questa saggezza non crede che superare e superarsi sia sempre buono e giusto, bensì è pronta per definizione a mettersi in discussione e a valutarsi in base alla circostanza. Queste condizioni servono da premessa per tornare ad appropriarci della nozione di “limite”, associata non all’antitesi negativa con sviluppo, crescita, miglioramento; piuttosto è parte della stessa medaglia. Concretamente ciò ci porta a riconoscere il “punto di rottura” tra evoluzione (miglioramento) e qualità della vita; la direzione che diamo alle cose. Se vi è stata una certa deriva “efficentista” è perché andava a sostegno dello spiccato produttivismo, nato a sua volta da un antropocentrismo teso a volersi impossessare delle cose (la natura, per esempio), piuttosto che vagliare anche l’ipotesi di costruire con esse relazioni di equilibrio. Ciò che ci deve guidare, più che un generico (perché aprioristico) “miglioramento continuo”, dovrebbe essere: miglioramento di cosa? Per cosa e chi? A quali condizioni? Senza tali precisazioni assumere come attitudine l’orizzonte perenne dell’ottimizzazione può essere pericoloso, oltre che senza senso. In questo panorama la formula toyotista del Kaizen ha solo dato voce a delle tensioni presenti ben prima nel positivismo moderno. Allo stesso modo più recenti tormentoni come l’Empowerment (che non a caso ha trovato ancora una volta terreno fertile nei contesti organizzativi / lavorativi) riflettono la medesima sterilità concettuale di ridurre qualsiasi trasformazione a una crescita. Si ha la sensazione che se non si lotta per questo eterno “obiettivo” decade ogni ragione di azione. In tali vene circola il crescismo. Ma la cosa interessante è che quest’ultimo è più di una classica ideologia, è una “superideologia”, proprio perché si tratta di un suo potenziamento (tanto per rimanere su questi termini “miglioranti”). La ragione è semplice e determinante rispetto alle classiche ideologie: crescere o svilupparsi sono visti come un fenomeno naturale nell’ordine positivo delle cose. Alle classiche convinzioni fideistiche se ne riconosce spesso il carattere artificiale, umano, per cui anche nella moltitudine del senso comune vi possono essere pareri contrastanti sulla sua correttezza; ma quando si innesta la “naturalità” in certi fenomeni si pensa che non può essere altrimenti. L’ideologia religiosa è sorretta dalla fede nel soprannaturale; all’ideologia politica fa da sfondo il fanatismo, l’indottrinamento, non di rado la violenza; la superideologia è ancora più coercitiva poiché è molto più sottile: si fa forte della scienza (tramutata ormai in tecnica), creando così il legame di ovvietà con la natura. In questo modo il paradigma che lega crescimo e tecnica, fondendoli assieme, li rafforza reciprocamente. Allora, dietro il supercapitalismo (si veda la diagnosi contemporanea di Robert Reich) deve esserci, per l’appunto, una superideologia, caratterizzata dalla naturalità. Evoluzione e crescita sono due cose da non confondere. La nozione di “sviluppo” (così come quella di miglioramento) investe entrambi i concetti, nel primo caso in qualità di risposta a un contesto mutato, nel secondo in qualità di un riduzionismo capace di associare l’accumulo di ricchezza con il benessere. Se confutiamo questi legami aprioristici “crescere” non vuol dire necessariamente sviluppo, così come “miglioramento”, tantomeno si tratta di un processo evolutivo. L’appiattimento crescista consiste proprio nel ricondurre tutto, perfino la natura, a se stesso.
Come detto, sebbene la propensione naturale dell’essere umano sia quella di volere e sperare in “qualsiasi miglioramento” (delle positività), non va dimenticato che, come ricordava Kant, dietro alla promessa di felicità che accompagna ogni desiderio, vi si nasconde quella della sua distruzione: “Date pure a uomo tutto ciò che desidera, ma appena lo avrà sentirà che tutto non è tutto”. L’utopia ci guida letteralmente nel bene e nel male. La spinta positiva del “non avere limiti” cela la tensione negativa dell’infelicità, la condanna all’insoddisfazione permanente. È del tutto naturale pensare a una società in costante miglioramento ed esserne altrettanto delusi quando se ne parla. La questione però è di autoconsapevolezza e misure: capire di volta in volta le aspettative che ci guidano, cosa intendiamo per miglioramento e come possiamo gestirlo. Studiare un po’ meglio le dimensioni della delusione sottesa alle scelte che facciamo ci permette non di evitarla ma di essere più consapevoli. D’altra parte se ciò accade per il singolo vale anche per le società, lì dove la felicità è strettamente connessa alle aspettative, è sempre bene saper misurare queste ultime per salvaguardare la prima:
Il mondo che sto tentando di indagare in questo saggio è quello in cui gli individui pensano di desiderare una cosa, ma poi, non appena l’hanno ottenuta, scoprono con costernazione di non desiderarla affatto quanto pensavano o di non desiderarla per nulla, e che ciò che ora desiderano realmente è qualcos’altro, qualcosa di cui in precedenza erano ben poco coscienti. Noi non agiamo mai in relazione ad un’ampia gerarchia di desideri stabilita da qualche psicologo intento ad esaminare i molteplici obiettivi o “bisogni” dell’umanità, ma invece, in ogni momento della nostra esistenza reale – e questo è spesso vero anche per le società intere – perseguiamo alcuni obiettivi che poi sostituiamo con altri. (Hirschmn, Albert O., 1983, p. 39)
Ebbene, ecco i desideri moderni: crescere per svilupparsi, migliorare e progredire, sono tutti automatismi concettuali e nozioni che associamo generalmente alle cose senza darvi una reale direzione, a parte il fatto di vivere il tutto come delle cose buone e giuste in ogni caso, poiché queste costituiscono genericamente la direzione da seguire. A partire da questi presupposti l’affermarsi dell’uomo non può e non deve conoscere limiti, poiché egli si è ormai svincolato dalla soggezione dell’ambiente. Una volta controllato e dominato a proprio piacimento quest’ultimo tutto è possibile, in ogni campo del sapere e del fare. Tale antropocentrismo, che ha i suoi albori in Cartesio, è la giusta condizione per la nascita e il prosperare dell’interesse economico, il primo per definizione a non trovare limiti. Si gettano in questo modo le basi della scienza moderna, apportando di fatto un notevole passo in avanti nel sistema di pensiero. Tuttavia, nel dirompente fiume delle idee positive, si nascondono dei germi crescisti che saranno destinati a trovare terreno fertile. Siamo però sicuri che ciò che fino a poco tempo fa ci ha guidato verso un concreto benessere e felici idee di futuro, non possa essere la stessa cosa che minaccia ciò in cui speriamo? Occorre allora indagare quale idea di futuro ci guida, attraverso un ritorno alla storia delle idee.
FUTURI FRAINTESI
Oggi possiamo tranquillamente dire che gli economisti classici del XIX secolo sbagliarono le loro profezie in merito ai profondi mutamenti che stavano osservando nella nascente società industriale. Per primo non può che venirci in mente Malthus e le preoccupazioni legate all’incremento del fattore demografico, il quale sarebbe stato la causa di diffuse carestie, vista l’incapacità di sostenere la produzione per un fabbisogno sempre più grande. L’unica alternativa al rischio sovrappopolazione diventa il controllo della natalità. Cosa direbbe oggi Malthus vedendo il numero degli abitanti presenti sul pianeta? Anzi, cosa direbbe nel momento in cui, in alcune parti del mondo, siamo perfino arrivati a un eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda? Che dire poi di Ricardo, il quale un paio di decenni dopo il Saggio (1798) malthusiano pubblica i Principi dell’economia politica e dell’imposta (1817), in cui esprime tutta la paura a lungo termine riguardo alla rendita fondiaria e il prezzo della terra. Secondo questa visione la terra sarebbe diventata un bene sempre più raro nel momento in cui, anche qui, cresce la popolazione e il prodotto. Le dirette conseguenze di tali fenomeni sono una crescente disuguaglianza, in quanto sarà sempre più vasto il ricorso a terreni meno fertili con rendite più basse, facendo aumentare la "rendita differenziale" (la differenza tra la rendita dei terreni più fertili e quella dei terreni meno fertili). Non solo, il secondo fattore di sperequazione è dato dalla “legge ferrea dei salari”, secondo la quale, in base alla legge della domanda e dell'offerta, i salari tendono ad abbassarsi sempre più per attestarsi al mero limite di sopravvivenza del lavoratore. Infine, che dire di Marx, forse il più attuale e rappresentativo esempio di pensiero atto a interpretare le sperequazioni legate al capitale. La sua previsione vedeva o un calo progressivo del tasso di profitto (generando tensioni tra i capitalisti stessi, depredandosi a vicenda una ricchezza ormai più rara da ottenere), oppure un aumento senza misura della quota di capitale del reddito nazionale (portando la classe operaia a ribellarsi contro i detentori di capitale).
Senz’altro vi erano anche non pochi contemporanei a questi autori meno preoccupati dell’avvento di distruttive disuguaglianze. Lo scenario intellettuale si presentava più diversificato rispetto alle generazioni successive: c’era spazio sia per l’elogio all’infallibilità dei dogmi economici, così come per la professione di imminenti cataclismi, se non si fosse corso ai ripari. Al contrario di oggi, dove il coro economico pare perlopiù unanime, specie quando ci si cala all’interno delle prassi politiche; le uniche voci dissenzienti sono delle minoranze, denotate come ignoranti rispetto alla complessità della scienza economica. La svolta ottimista verso un futuro dominato dal benessere, anziché dalla sperequazione, verrà fornita dalla curva di Kuznets, in cui l'aumento dell'occupazione e della produttività porterebbero a un incremento dei salari e a una distribuzione più eguale del reddito. Una volta saldate le volontà e le impressioni a solide teorie, farcite con buona dose di tecnica matematica, l’idea di un futuro, dominato dai dogmi economici orientati al continuo benessere, è ormai compiuta. La nascita del ceto medio, il boom economico supportato dalla tecnologia, faranno il resto per confermare che questa è l’idea di felicità e di benessere che deve guidare le società, dunque le loro prassi politiche.
Gli autori classici sbagliarono le loro osservazioni perché ignorarono le innovazioni tecnologiche che hanno aumentato la produttività, livellando così più del passato il processo di accumulazione e il capitale privato. Ignorarono la sostenibilità della crescita demografica a fronte delle innovazioni tecniche (scongiurando i timori Maltusiani); una demografia che, assieme alle innovazioni tecnologiche, ha consentito anche un innalzamento del prodotto interno lordo, tra l’altro agevolato da contingenze storiche come le due guerre mondiali. Insomma, una congiuntura di fattori favorevoli per alti tassi di crescita, il momento storico ideale per l’emergere di una classe media che andò a distribuire le disuguaglianze, così forti in prossimità della prima guerra mondiale. Gli economisti del XIX secolo non valutarono tutte queste novità storiche perché avevano uno sguardo legato al loro passato e semplicemente perché molte previsioni erano nell’impossibilità storica di compierle. Di conseguenza, quando si valutano con occhi vecchi fenomeni nuovi si rischia di derivare in visioni apocalittiche o idilliache. Molti autori del XIX secolo sconfinarono nella prima visione, avendo però il pregio di focalizzarsi su prospettive fondamentali di lungo periodo, ponendo l’accento su ingiustizie e disuguaglianze. L’economia aveva una sua dimensione di preoccupazione sociale perché era più vicina alle origini, alle questioni sociali che l’hanno fatta sorgere. È con l’imporsi dei modelli semplicistici, autoesplicativi, in particolare con il crescente utilizzo di modelli matematici nulla più che “rappresentativi”, che l’economia mette da pare ogni preoccupazione per traghettarsi verso un illimitato ottimismo, la cui precondizione assoluta è la crescita economica. Crescere per svilupparsi: ricetta che ha fatto svanire i timori dei vecchi autori e che ci ha condotto nella deriva opposta, fatta di un semplice reitero dei suoi ingredienti per il successo a dolce esito. Il segno dell’ideologia è costituito dal fatto che oggi ci troviamo in una situazione diametralmente opposta: quello che dovrebbe farci venire dei dubbi è che così come il pessimismo apocalittico del XIX secolo ha fallito (per ora) nel prevedere il futuro, allo stesso modo il gemello speculare dell’ottimismo irriflessivo può fallire nel pensarsi sempre e comunque la ricetta di base del benessere. D’altra parte, almeno già da un decennio tutti i tassi di crescita nei paesi evoluti hanno subito un significativo decremento, facendo intravedere una dinamica inversa ormai di natura strutturale. Semmai, è stato eccezionale il boom economico della seconda metà del novecento, più che le contemporanee stagnazioni dei paesi industrializzati. A scongiurare nuove cupe visioni non ci resta che una maggiore coscienza storica di tali dinamiche, strette tra due opposte derive: apocalittica o idilliaca.
Come la natura umana ci insegna, pare che pre...