Pensieri al margine
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L'esperienza della realtà si forma dalla relazione tra le cose, che creano confini (di definizione) tra le cose stesse. Senza confini non c'è differenza, senza differenza non c'è termine di paragone. E' un criterio epistemologicamente fondante che occorre esplorare, entrando nella differenza, studiandone i confini. Ecco la marginalità: il paradosso di centrali pensieri che tuttavia si trovano al margine. Tutto questo comporta l'inevitabile, quanto impossibile, ricerca di un senso e i conseguenti atti di fede che facciamo per portarla a termine.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831609753

PRIMA PARTE

____________________________

PENSARE:

LA DOMANDA DI SENSO

“Chiunque è dalla verità,
ascolta la mia voce”
(Giovanni 18, 37)

CAPITOLO 1:

LA DIMENSIONE SPIRITUALE

1.1 LA DIMENSIONE SPIRITUALE
Possiamo interpretare la nozione di “dimensione spirituale” a partire da due accezioni:
1) In modo circoscritto: è legata all’appartenenza a una religione, la quale, attraverso una serie di dogmi e riti espressi in una comunità, esplicita la propria domanda di senso sull’esistenza. Si vive del riconoscimento in un’identità.
2) In senso lato: s’intende una base di tendenze umane comuni, a prescindere da appartenenze varie. Il tratto di base è la ricerca di un senso, magari non sempre manifesta e comunque vissuta più o meno individualmente. Dare un significato alla propria vita attraverso: la famiglia, il lavoro, la conoscenza ecc. Si tratta di attività (a cui fanno da sfondo credenze) che significano la vita ma che non vengono necessariamente esplicitate in un riconoscimento identitario collettivo.
La differenza sostanziale risiede nel fatto che la prima accezione di “dimensione spirituale” è resa evidente a tutti attraverso una comunità: in una religione formalmente e praticamente circoscritta. In questo modo assumono centralità i dogmi, le convenzioni, i riti, e quant’altro che in genere privilegia l’aspetto autoritario del “dovere”, del sapere = potere, rispetto alla liquidità relativa dei “diritti”, ricondotti nei vissuti del singolo. In ogni caso, l’accezione di “dimensione spirituale in senso lato” non è poi così distante dai motivi originari per cui l’uomo si raccoglie in una comunità religiosa esplicita, l’elemento comune infatti è la domanda di senso. Condizione espressiva di una necessità umana fondamentale: cercare un senso all’esistenza, per attribuirle un significato, così da de-finire gli scopi che ci prefiggiamo. In questa progressione (senso, significato, scopo) è contenuta, a mio modo di vedere, l’esperienza esistenziale e simbolica dell’uomo. All’origine c’è la constatazione di trovarsi nell’esistenza come esistenza. Da qui la constatazione fondamentale di una domanda di senso, una ricerca significante che è mediata, più o meno secondo diverse sfumature, dal pensiero. Il prodotto di quest’ultimo è l’attribuzione di un significato per agire con un certo scopo; si ha così la parabola che porta dal pensiero all’azione. Una chiave di lettura che incarna aspetti quali: coscienza/consapevolezza, il pensiero, l’azione. Non a caso si esprime, come si vedrà, una forte relazione tra consapevolezza e domanda di senso. La coscienza di rendersi conto (in un certo modo piuttosto che in un altro) di questo mondo rende più o meno evidente la necessità intrinseca di cercare un significato per rispondere al bisogno di senso.
Se l’esperienza umana è caratterizzata da questa domanda di senso, la suddetta dimensione, “in senso lato e circoscritto”, diventa un aspetto centrale; forse in misura maggiore di quello che abbiamo spesso immaginato. La dinamica che rende esplicita la religione, con il suo attribuire un significato, è rappresentativa di una tensione sottostante a ogni uomo di ogni epoca. Si tratta di un elemento imprescindibile nella relazione coscienza-mondo. Cirese amava esprimere nei termini “segnicità e fabrilità”, la contrapposizione che costituisce la cultura umana. Lo studioso chiama fabrilità i processi culturali che si occupano prima di tutto di portare avanti azioni di appropriazione e trasformazione della natura per garantirsi la sopravvivenza (primum vivere); all’opposto, chiama segnicità quegli aspetti “immateriali” del vivere che sono le idee, i pensieri, le interpretazioni (deinde philosophan). Marvin Herris connoterà, in modo forse grossolano ma utile, il carattere della fabrilità con il “materialismo culturale”, quello della segnicità con “idealismo culturale”. Tuttavia, non vi sono gerarchie, non possiamo affermare che un aspetto predomini sull’altro, piuttosto sono aspetti complementari: così come la biologia ci costringe alla sopravvivenza del “fabrile”, per la coscienza è impossibile non condizionare, significando, i mezzi di produzione che mettiamo in atto per sfamarci. D’altra parte, su un versante tipicamente psicologico, Martin E.P. Seligman, nel suo Imparare l’ottimismo, nota l’importanza del darsi e dare un senso riferendosi al problema della depressione. Che dire di Wayne W. Dyer in Te stesso al cento per cento? in cui il capitolo VIII suona così: “Avere uno scopo e un significato”. Non solo, si potrebbero prendere anche in considerazione le statistiche sulla religiosità contemporanea nel mondo, constatando che in genere si crede lì dove si soffre di più; cioè dove la sopravvivenza è, per ragioni più o meno variabili e concomitanti (povertà, guerre ecc.), minacciata. Come a dire che più la sfera materiale è minacciata, e data meno per scontata, più vi è l’esigenza di dare ragione della propria speranza.
Le ragioni di tutto questo sono evidenti: l’uomo ha la “novità evolutiva” del pensiero; un pensiero che assume la sua caratteristica proprio nella possibilità di “guardare lontano”, distanziarsi, saper valutare e scegliere o meno questo mondo con la capacità di astrarre e riconoscere, imitare, inventare modelli, sistemi. Ebbene, tale problematicità, è indelebile dal pensiero, dunque dalla coscienza. Il problema è semmai in che misura tale problematicità si manifesta in noi, ma ciò non dipende solo dal soggetto bensì anche dal mondo che gli si presenta: l’intreccio. Qui subentra il ruolo della consapevolezza, ovvero non tanto del conoscere ma della profondità che assume. Perciò, il terreno della filosofia è quello della vita:
In un certo senso, abbiamo due cervelli, due menti, - e due diversi tipi di intelligenza: quella razionale e quella emotiva. Il nostro modo di comportarci nella vita è determinato da entrambe […] Quando questi partner interagiscono bene, l’intelligenza emotiva si sviluppa, e altrettanto fanno le capacità intellettuali.
(D. Goleman, 1995)
La domanda di senso si inserisce in questo intreccio, è un atto profondamente emotivo che nasce da un sentimento esistenziale. La domanda di senso mette in moto il pensiero, dando voce all’indicibile. Ma, come è possibile far interagire al meglio queste due capacità intellettuali, quella emotiva con quella razionale? Una risposta di lungo periodo la fornisce lo stesso Goleman in Intelligenza emotiva, proponendo un’educazione alle emozioni. Una risposta accattivante, come sanno essere quelle occulte di breve termine, la dà il matematico Alfred Nortth Whitehead parlando del buon senso o senso comune:
La scienza ha le sue radici nel pensiero del senso comune. È il punto fondamentale dal quale essa ha inizio e al quale deve ritornare. Il senso comune si può annientare, contraddire, sorprendere. Ma alla fine si deve soddisfare.
Il percorso della “dimensione spirituale” può essere meglio illustrato prendendo in considerazione un esempio ispirato all’atomismo greco. In particolare, Epicuro riprende l'ipotesi atomistica di Democrito e introduce due elementi di novità: il primo è quello del peso degli atomi (che spiegherebbe la causa per cui cadono dall'alto verso il basso). Questo aspetto, però, poneva anche un secondo quesito: se gli atomi pesano e cadono tutti allora non si incontreranno mai, per cui come si formano le aggregazioni? A questo inconveniente doveva far fronte la cosiddetta "teoria della declinazione"; quello che Lucrezio chiama il "clinamen". Questa teoria non è documentata direttamente nei testi di Epicuro, ma nella versione lucreziana è chiaramente espressa, dicendo che nelle loro traiettorie verticali gli atomi a un certo momento compiono dei “salti” intercettando altre traiettorie capaci di formare i composti atomici. Come mai si verifica questo "clinamen"? Si può benissimo pensare che sia una declinazione spontanea data dal caso; tant’è che l'epicureismo associava a questa dottrina la possibilità della libertà umana. Ora, si possono fare due interessanti osservazioni: per un verso, secondo alcuni autori, si sarebbe generato il mondo a partire da quel puro atto di casualità, da quell’insignificante declinazione che ha messo in moto un meccanismo a catena capace di originare il mondo (le aggregazioni di atomi). La seconda osservazione è l’ammissione della libertà umana, secondo l’epicureismo, che ha il fondamento proprio in quel “clinamen”. Per quanto riguarda la prima questione si tocca il problema centrale del senso, perché la grandezza che percepiamo del mondo che ci troviamo davanti potrebbe non farci vedere la casualità da cui proviene. Ad esempio, se si ipotizza che un uomo e una donna casualmente vanno a prendere un caffé al bar alla stessa ora (il “nulla” del “clinamen”), nessuno dei due immaginerebbe che dopo qualche anno si ritroveranno sposati e con dei figli. Se questi due soggetti dovessero ripensare al momento in cui si sono conosciuti, data l’importanza che ha avuto per loro quell’incontro, non lo riterrebbero frutto del caso bensì farebbero entrare in gioco con più probabilità il “destino”. Se, al contrario, quell’evento non fosse stato così centrale nelle loro vite, lo avrebbero ritenuto così marginale da considerarlo del tutto casuale. Lo stesso avviene per la creazione del mondo secondo gli atomisti, un nulla, il “clinamen”, quella piccola declinazione di atomi ha dato luogo a qualcosa di immenso che apparentemente non si può attribuire al caso, ecco che si fa intervenire Dio. Insomma, è la grandezza della realtà alla quale si è spinti a dare un senso che psicologicamente produce la ricerca di un’altra dimensione capace di significare il tutto.
Evidentemente la teoria della declinazione non dimostra l’inesistenza di Dio, tanto quanto la stringente volontà di senso nell’uomo non ne giustifica l’esistenza. Quello che ci interessa notare è il modo di interpretare le cose, perché con la teoria della declinazione l’uomo, che cerca di dare un significato al mondo, sembra essere così coinvolto da esso da non riuscire a sottrarsi a tale desiderio; messa in questi termini sembrerebbe una debolezza emotiva rispetto alla più ferma razionalità. D’altro canto, se si vedono le cose con la metafora di John Lesile, probabilmente saremmo colti da così tanto stupore da non poterci sottrarre dal dare una direzione compiuta alla grandezza di cui siamo parte. Supponete di essere di fronte a un plotone di esecuzione, cinquanta fucili vi sparano ma scoprite che siete salvi: i proiettili vi hanno mancato. Ci stupiamo del fatto che un plotone di esecuzione abbia mancato una persona, così come siamo stupiti del fatto che l’universo abbia creato una serie di ordinate leggi fisiche che ci hanno permesso di esprimere consapevolezza su di esso. Ecco, sotto quest’altro punto di vista, quasi opposto a quello atomistico, l’immensità del mondo rende legittima, anche come operazione razionale, il supporre un senso che non si fa più problemi nella possibilità di cadere nell’errore dei due coniugi precedenti, i quali sono preda della “superstizione” di credere nel destino di quell’incontro.
In ogni caso, l’essenza della causa di quel clinamen ci resta ignota, certo che a livello di probabilità siamo spinti (dalla sinergia tra sentimento e ragione) a dare un significato metafisico a quella declinazione atomica. Di una cosa siamo certi, esiste sempre nell’uomo e nel mondo un processo di causa-effetto, la questione è che se interpretassimo i sentimenti in questo modo li distruggeremmo. È vero che “tutto” può avere una spiegazione razionale, è solo che una parte del nostro cervello (emotivo) si rifiuta di farlo. Dunque, ridurre la vita a un semplice esercizio di ragione è riduttivo e di fatto impossibile, perché anche nel razionalismo, nel desiderio di conoscere attraverso la ragione, c’è un sentimento di piacere che lo fa sussistere in un certo modo. A questo proposito è interessante la chiave di lettura di Bruner, notando l’inconsistenza della classica dicotomia tra cultura logica e umanistica, tra scienze esatte e scienze interpretative, tra ragione e sentimento ecc. Individua nella narrativa, nel racconto, la modalità essenziale della costruzione del sé e del mondo; in questo modo le scienze esatte, come la matematica o la fisica, sono modalità di raccontare le cose e noi stessi in esse, di fatto non sono il mondo. Una “svolta narratologica” (che ha anche altre cause) risulta importante proprio per cercare una comunicazione nella tradizionale separazione occidentale: ragione / sentimento. Non solo, è interessante constatare come tutto il pensiero orientale, in particolare il pensiero cinese, abbia impostato il problema del rapporto: forma / apparenza, pensiero / azione, interiorità / esteriorità, come un problema vuoto di per sé. Il pensiero cinese è permeato da un forte legame tra vita e pensiero, attraverso il legame dello studio e non del puro astrarre. Se la filosofia greca ha posto l’accento sulla logica, sulle tesi e le antitesi, sulla consequenzialità e coerenza intrinseca del pensare; il pensiero orientale è votato al ritmo, all’azione, perché risponde alla domanda: “come posso fare a raggiungere la verità?”, non al più occidentale: “cos’è la verità?”. Converrà tornare su questo nella seconda parte, in cui trovo salutare valutare i vantaggi di un simile approccio orientale.
È utile comprendere tutto questo per cogliere il legame fondamentale tra pensiero e azione, attraverso una riflessione che sappia muoversi su una base concreta: l’esperienza della vita. Del resto, proprio da qui parte una domanda di senso. Sotto questo punto di vista non ha alcun interesse la questione che afferma o nega l’esistenza di Dio; se questo interesse c’è è indiretto. Ciò che conta è concepire quella “svolta narratologica” che indica la necessità di svelare la propria domanda di senso, condividendola, comunicarla, confrontarla e così arricchirla in vista di una migliore convivenza con l’alterità (intraculturale o no). Da un lato i sentimenti aiutano ad orientare la ragione, dall’altro la ragione aiuta a gestire i sentimenti, in questo lavorare reciproco risiede la forza del conoscere. Se per conoscere si intende anche dare un significato alle cose, è chiaro come l’implicazione di un sentimento sia necessario. Inoltre, anche da un solo punto di vista razionale ciò è giustificato, perché fermarsi per dare un significato alle proprie ricerche e conoscenze è ciò che lega le scienze esatte da quelle interpretative.
Il mondo ha un potenziale di “non-detto” in cui sussiste il mistero. Per questo un ateo e un credente possono parlare, con coerenza logica per anni, delle loro posizioni ed entrambi non cambieranno idea: perché lo spazio metaforico del “non-detto” è lo spazio, emotivamente implicato, dell’interpretazione. Lì dove c’è il mistero c’è la problematicità dell’interpretazione. C’è un potenziale costantemente inespresso che linguisticamente caratterizza l’uomo nel parlare metaforico. Se l’asse sintagmatico viene definito anche “asse in presenza”, la presenza di ciò che vuole intendere direttamente quella frase attenendosi al puro sintagma (il continum dell’espressione); l’asse paradigmatico (che caratterizza l’uomo) è “l’asse in assenza” dove più che capire il sintagma lo si “intende”, appunto, lo si intende metaforicamente. Tale è la doppia articolazione del linguaggio che trova nella metafora la peculiarità dell’uomo, stretto tra ciò che è e come viene inteso. Questo cenno al tono metaforico del parlare umano vuole essere un raccordo al tono metaforico della vita dal punto di vista umano; un potenziale “non-detto” che richiama il senso del mistero, e della possibilità dell’intendere attraverso la fede. Una fiducia che è un dare significato, sempre secondo quell’indissolubilità, nel parlare umano, tra razionale e sentimentale; lì dove anche il razionalismo è un provare emozione di essere tale. In una domanda di senso, tra cui la possibilità metafisica, non interessa tanto il suo esito particolare, bensì il suo realizzarsi e venire in dialogo. Ciò che interessa è la sua inevitabilità che implica la vita quotidiana di ogni giorno, al di là di affascinanti teologie o ateismi teorici. Se si caccia dalla porta la teoria per dedicarsi solo alla vita, prima o poi quest’ultima avrà bisogno del pensiero che ritorna di...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. PRIMA PARTE - PENSARE: LA DOMANDA DI SENSO
  3. SECONDA PARTE - VIVERE: LA SPIRITUALITÀ
  4. Bibliografia