Meditazioni, attraverso l'Oriente e l'Occidente
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Meditazioni, attraverso l'Oriente e l'Occidente

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Meditazioni, attraverso l'Oriente e l'Occidente

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Attraverso lo studio di alcune questioni fondamentali di tutte le grandi fedi è possibile tracciare un percorso spirituale. In questo libro il concetto di verità legato alle religioni semitiche viene messo a confronto con la saggezza orientale; è un tentativo di far dialogare sistemi di pensiero diversi ma che non mancano di punti di incontro. Alla luce dei fenomeni globalizzanti è dunque utile riflettere sulla possibilità di comprendere l'esperienza spirituale delle grandi religioni.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831609760

CAPITOLO 1

1.0 L’ORIENTE E L’OCCIDENTE
“Studiare senza meditare è inutile, meditare senza studiare è pericoloso” (Confucio)
Come detto, non mi concentro qui su approfonditi confronti tra oriente e occidente, che richiederebbero ben più spazio. I riferimenti che seguono hanno solo lo scopo di indicare alcuni punti centrali su cui si sviluppano le differenze, contestuali a diverse culture.
In primo luogo la concezione del tempo in oriente è tendenzialmente di natura ciclica; viene visto come eterno e increato. Anche se ciò non è vero dappertutto nei testi orientali, ad esempio, in alcune parti dei Veda più antichi si parla di una creazione. Tuttavia, da un punto di vista generale, possiamo affermare che per l’orientale ciò che acquista senso non è la creazione dell’universo e l’universo in sé, ma la coscienza che vive in esso, la quale può avere anche l’illusione (il velo di maya) del tempo. Nel corso della storia, verso il VI sec. a.C., nei paesi asiatici si è sviluppato anche il concetto di karman (il frutto, la “forza” delle azioni sia esse positive che negative), inscindibilmente legato a quello di samsara (il ciclo delle rinascite) e quindi alla dottrina della reincarnazione. In questo modo, l’obiettivo principale per l’orientale diventa quello “dell’illuminazione” e quindi della “liberazione” da tale ciclo. Una liberazione che, come si sa, vede il suo coronamento nel nirvana di matrice buddista. Tutto questo, cioè la credenza nella reincarnazione e l’importanza data al soggetto che con le sue forze è proteso a liberarsi, ha contribuito a indebolire, in modo più o meno significativo, l’idea di Dio. Il concetto di “provvidenza” divina e relativa “grazia” non si è affatto sviluppato in oriente, proprio perché la forza data all’idea di un ente personificato è parsa venire meno rispetto al peso della coscienza di un sé impegnato nella sua liberazione.
In occidente, all’opposto, la creazione del mondo ha un ruolo centrale, così l’esistenza dell’universo porta ad oggettivare, in un qualche modo, l’esistenza di Dio. Il tutto è proteso verso un fine: il giudizio; assume importanza l’escatologia. Il compito centrale che spetta all’uomo non è quello di liberarsi dalle sue illusioni e dalle apparenze del mondo, bensì giungere alla comunione con un assoluto personificato. Secondariamente, per arrivare a un tale stato, in cui l’io fa la volontà del Padre, c’è proprio quel lavoro che mira a spogliarsi di se stessi per rivestirsi di Dio.
Il percorso verso l’Unità è comune sia all’oriente che all’occidente, ma in quest’ultimo la sistematizzazione teorica di un simile obiettivo è venuto sbiadendo, specie in concomitanza con la poca attenzione alla riflessione mistica. Ciò è accaduto, tra le altre cose, probabilmente anche perché la contemplazione riflessiva è un percorso impegnativo (soprattutto oggi) e non sempre proponibile nella pastorale comunitaria, così invischiata dal suo sostrato dottrinale. Un percorso verso l’Unità ben sintetizzato nella citazione iniziale di Confucio, dove la meditazione, più di stampo orientale e introspettiva, si arricchisce della conoscenza, ovvero dello studio delle cose, più di stampo occidentale.
Alle precedenti osservazioni vi sono da aggiungere le implicazioni filosofiche che queste differenze di fondo veicolano: l’occidente è portato all’analisi del dato scientifico attraverso la logica (si pensi alla scolastica medioevale), l’oriente ripone attenzione particolare non verso lo studio oggettivo e analitico dell’universo, piuttosto all’oggettivo che si dispiega nello studio del sé e le sue relazioni. Soggetto e oggetto si fondono in una nuova sintesi mistica che trascende ogni dualismo. In questo modo la verità non è al di fuori della conoscenza che la percepisce, ma quella stessa coscienza è la verità. Addirittura si giunge, in questi casi, a un vero e proprio idealismo etico (il buddismo è un caso emblematico).
Sia chiaro, nessuna delle due prospettive, soggettivante o oggettivante, è, come si vedrà, esclusiva bensì si integrano perfettamente, proprio perché il fine è l’Unità.
Per questo, si può dire che il teista occidentale (cristiano, ebreo o mussulmano che sia) vede la verità come un concetto in sé (Dio-Ente rivelatosi nella storia), aldilà delle modalità per sé che la possono alterare, generando illusione. Tuttavia, la coincidenza di approcci sussiste proprio nelle modalità con cui la verità in sé si svela a partire dalle disillusioni di un per sé svelato e annientato. È in questo passaggio che ci possono venire incontro diversi approcci orientali. Non a caso la mistica occidentale in non pochi punti ha strette analogie con la meditazione orientale, zen in particolare.
1.1 L’ORIENTE CHE GUARDA L’OCCIDENTE
“Secondo me la vita è un processo spontaneo. Il termine cinese per "natura" è tzu-jan, che, significa "ciò che è spontaneamente quello che è", "ciò che accade". È ben curioso che sia proprio la nostra grammatica, la stessa che regola tutte le principali lingue europee, ad impedirci di immaginare un processo che accade spontaneamente. Ogni verbo deve avere un pronome per soggetto, deve avere un agente, e noi di norma pensiamo che una cosa non sia al proprio posto se non c'è qualcuno o qualcosa che le assegna quel posto, se non c'è un responsabile; di conseguenza l'idea di un processo che avviene totalmente da solo ci spaventa: ci sembra che manchi l'autorità. [....] Quello di cui sto parlando è il nostro senso d'identità, il nostro senso d'alienazione, e le complicazioni in cui ci cacciamo vedendo la nostra sopravvivenza come un dovere. [....] Sapere d'essere Dio è il marchio della follia. È assolutamente tabù, particolarmente nella religione cristiana. Per averlo saputo, Gesù fu crocifisso e i cristiani hanno detto: "D'accordo, Gesù era Dio, ma finiamola qui. Nessun altro". Il Vangelo è la rivelazione per noi tutti di qualcosa che gli indiani hanno sempre saputo: "Tat tvam asi", tu sei quello! Se Gesù fosse vissuto in India, si sarebbero congratulati con lui per aver scoperto d'essere Dio, anziché crocifiggerlo. Ci sono stati molti in India che hanno saputo d'essere Dio sotto mentite spoglie. Sri Ramakrishna, Srí Ramana Maharshi, Krishna e il Buddha: tutti costoro l'hanno scoperto, poiché non è una rivendicazione esclusiva che uno avanza per sé, d'essere quello, tutti sono quello, e nel momento in cui uno guarda negli occhi dell'altro vede l'universo che lo guarda a sua volta. Per cui siamo in una situazione in cui è tabù sapere d'essere Dio, e non dobbiamo ammettere che sappiamo chi siamo, in modo da avere l'emozione, l'effetto mozzafiato del sentirci perduti, sentirei alienati, sentirci soli, privi, d'appartenenza.”
(Allan Watts, Le Ossa dello Zen)
Queste considerazioni di Watts ben sintetizzano come non di rado si assiste all’occhio orientale che, contrapposto a quello occidentale, rivendica la sua libertà da concetti, credenze, dogmi: si tratta specialmente di buddisti, e ancora più di buddisti zen. Non solo, un altro tratto ricorrente è interpretare la vicenda di Gesù riconducendola a quella di un “illuminato” che ha preso lezioni dal Buddha. A fronte di tali semplificazioni, l’esegeta cristiano ammicca un sorriso come le statue del Buddha nell’atto di contemplare l’impermanenza delle cose.
Come si vedeva, prima di lanciarci in paragoni affrettati, occorre innanzitutto dire che le visioni filosofiche di fondo tra oriente e occidente sono per diversi aspetti divergenti. Così, l’approccio orientale è guidato dalla relazione e quindi dal “come” le cose sono nella loro interazione, quello occidentale parte dagli oggetti, dunque dal loro originario “cosa sono”. In questo modo l’oriente istituisce una pratica (l’analisi dell’esperienza), l’occidente fonda un pensiero teorico (un’analisi concettuale). Per questo, su un piano filosofico/discorsivo, confrontare le credenze occidentali con quelle orientali può essere fonte di incomprensioni e fraintendimenti; tanto quanto sul piano esperienziale profondo, scevro da determinate credenze di natura dottrinale, giungono a una perfetta commensurabilità. Ad esempio, Krishna ha tratti di evidente discontinuità con Gesù Cristo, in quanto, ancora prima, la differenza è su come si concepisce la salvezza/liberazione, quindi la dimensione del tempo. In questo senso è impossibile considerare Gesù un avatara, come Krishna o Rama. C’è poi da dire che, soprattutto da un punto di vista spirituale, l’essenza del vero cristiano sta nel farsi Uno con il Padre, così come Cristo. Una lettura del capitolo 15 di Giovanni è sufficiente per comprendere che l’intento dell’esperire spirituale è l’Unità “dell’in mistico”. A ogni modo, è ben diverso dire che l’uomo è Dio, piuttosto, nel percorso della santità, viene a imitare Gesù Cristo, quindi Dio. Per questo si dice che il passo tra il santo e l’indemoniato è così sottile (come ci ricorda la voce finale del film Il nome della rosa), perché un conto è identificarsi con l’altissimo riconoscendosene parte, altro è pensare di esserlo tout court. Il primo aspetto prevede la totale perdita di noi stessi nella volontà divina (il distacco), il secondo un desiderio di onnipotenza, un totale e pericoloso rafforzamento dell’ego, o, ancora, la possibilità di un generico panteismo che mette sullo stesso piano natura e Dio. Allo stesso modo, quando l’oriente parla di Atman - Brhaman, piuttosto che di illuminazione, non si riferisce all’esaltazione dell’ego quanto alla sua perdita come parte del Tutto (in qualità di relazione).
Dunque, sarebbe da pazzi in occidente gridare per strada che siamo tutti Dio, ma non da folli, quanto da mistici, dire che ci sentiamo Uno in Dio. Il vero problema in occidente è che se lo si grida troppo forte, spingendo la spiritualità talmente in là da dimostrare l’inutilità della dottrina, si rischia l’eresia; la storia ne è un esempio. Ciò a testimonianza del fatto che il sentiero dell’Unità è molto più tratteggiato in oriente che in occidente. Senz’altro, nella mentalità del levante, oltre alle osservazioni che si facevano in precedenza circa l’importanza della relazione più che sull’oggetto, gioca un ruolo centrale il fatto che non esiste una dottrina del “peccato originale”, e una conseguente, forte, idea/entità divina che separa (più che unire). Per sostenere o far decadere il dogma del peccato originale basta nel primo caso un po’ di fideismo, nel secondo un po’ di buon senso e apertura. Il paradosso del peccato originale, e di tutto l’occidente, nasce, non a caso, in colui che lo ha concettualizzato: Sant’Agostino. Proprio colui che per primo ha esplorato misticamente l’interiorità, facendo intravedere l’inutilità della dottrina al cospetto dell’essenzialità dello spirituale, è stato l’artefice di un certo anti-misticismo, in cui i dogmi e la loro difesa sono al centro. Questo è il rischio, tutto occidentale, di un Dio che diventa appropriazione, quindi potere. Anche qui, la storia della Chiesa ne è un esempio. In fondo, per quanto riguarda il “Dio debole” dell’oriente si può sollevare la questione se, per opposizione, non sia l’interiorità occidentale a essere tale. Le due cose di certo non si escludono, ma è evidente che se si dà peso all’onnipotenza divina si dà meno peso alla dimensione umana: dal libero arbitrio alla sua psiche.
Dunque, proprio alla luce delle suddette osservazioni, l’oriente vede il panorama concettuale occidentale dominato da divisioni, ovvero da troppi pensieri e concetti; religioni dogmatiche e speculazioni che imprigionano la mente. Certo, è vero che l’occidente ha smarrito il senso dell’Uno e del vuoto interiore, ma è pur vero che in origine tutti gli uomini vivono di tradizioni e preconcetti inevitabili. La verità si pone lì dove ne facciamo diretta esperienza, e le culture in genere hanno strumenti differenti per fare esperienza di verità, in un modo piuttosto che in un altro. L’interpretazione del reale viene da concetti e idee, questo è valido sempre e comunque. Ad esempio, dire che l’illuminazione è svuotarsi da ogni categoria mentale e dualismo è di per sé un pensiero che parte da un discorso. Il pensiero logico deduttivo, sebbene fonte di illusione perché linguaggio funzionale a questa realtà, ci è necessario proprio per il suo superamento. Se vista in questi termini, l’analisi concettuale dell’occidente può rafforzare l’esperienza spirituale orientale, facendoci al contempo riscoprire un’autentica mistica non sconosciuta alla filosofia greca e cristiana. Come notava Van Der Leeuw: “il mistero della vita non è un problema da risolvere ma una realtà da sperimentare”. Essendo la vita “un tutto” che entra in relazione, non possiamo tenere separata la parola e la sua speculazione dall’annullamento mistico che la verità richiede. Quindi, la vera ragione è quella che ben si adatta al suo superamento, non essendo “la verità di questo mondo”. Un lavoro sinergico e complementare in cui la parola, la sua “occidentale logica razionale”, è una indispensabile premessa per dimostrarne l’orientale insufficienza. Così come la matematica di Godel, restando in se stessa, non può provare la sua consistenza.
1.2 L’OCCIDENTE CHE GUARDA L’ORIENTE
“Le tradizioni orientali hanno il vantaggio di disporre l’uomo alla contemplazione in modo più naturale. […] Nello zen sembra non sia richiesto di sforzarsi per andare oltre l’io interiore. Nel cristianesimo, l’io interiore è solo un gradino sulla via della consapevolezza di Dio. L’uomo è immagine di Dio, e il suo io interiore è una sorta di specchio in cui Dio non solo vede se stesso, ma si rivela anche allo «specchio» in cui si riflette, e così, attraverso l’oscuro, trasparente mistero del nostro io interiore possiamo, per così dire, vedere Dio «attraverso un vetro». […] Gli scrittori zen potrebbero forse obiettare dicendo di essere interessati esclusivamente a ciò che effettivamente è «dato» nella loro esperienza, e che il cristianesimo sovrappone all’esperienza stessa un’interpretazione e un’estrapolazione teologiche. […] Per noi c’è un abisso metafisico infinito tra l’essere di Dio e l’essere dell’anima, tra l’«io» dell’Onnipotente e il nostro «io» interiore. Eppure paradossalmente il nostro «io» profondo esiste in Dio e Dio abita in esso. […] Dobbiamo sapere che lo specchio è distinto dall’immagine riflessa in esso. La differenza si fonda sulla fede teologica.”
(Thomas Merton, L’esperienza interiore note sulla contemplazione)
Da un lato c’è un diffuso pregiudizio che l’occidentale coltiva verso quelle “strane” ed “esoteriche” credenze orientali, dall’altro c’è un numero crescente di persone che si avvicinano a tali sistemi di pensiero: magari pensando che o si accettano totalmente (rifiutando le proprie categorie d’origine), o si rifiutano perché inconciliabili con la nostra (chiusa) nozione di verità. Proprio per la visione antispeculativa ed “esperienziale” che l’oriente ha della verità, in essa non vi è la preoccupazione di seguire un ragionamento dogmatico o razionalista (la ragione, a suo modo, può essere una dottrina più forte di quelle irrazionali). In altri termini, privilegiando l’aspetto pragmatico del “come” si è meno attaccati all’appartenenza fideistica del “cosa”, per cui possiamo assistere ad un taoismo che recepisce intuizioni confuciane che, a loro volta, si inseriscono in una cosmogonia buddista, se non addirittura cristiana. Le religioni orientali, avendo una dimensione dottrinale meno spiccata, si prestano maggiormente alla fluidità dei sistemi di pensiero filosofici.
A cosa è dovuto questo processo, al contempo, dicotomico e mistificatorio? In cui, si è affascinati e impauriti dal diverso (in quanto esotico); lo si recepisce ma mai fino in fondo, se non attraverso le proprie categorie. Non di rad...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. CAPITOLO 1
  3. CAPITOLO 2
  4. CAPITOLO 3
  5. CAPITOLO 4
  6. CAPITOLO 5
  7. CAPITOLO 6
  8. CONCLUSIONI
  9. BIBLIOGRAFIA MINIMA