Esistenza e significato
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La necessità di dare un significato alle cose segna, allo stesso tempo, l'impossibilità di avere certezze in merito. Così lì dove c'è l'interpretazione ermeneutica c'è il mistero, la possibilità della fede. Da qui l'intreccio e l'incontro con l'esperienza religiosa.
Nella natura stessa dell'argomento affrontato fa da sfondo il sovrapporsi di un piano votato alla ricerca dell'assoluto che si scontra spesso con la dimensione storica, relativa, che quella ricerca assume nel discorso umano. E' il paradosso del mediare tra i contesti e le sue forme con l'origine e il senso di tutti i contesti e di tutte le forme. Qui cerco di calare un simile paradosso, farlo mio e proporlo. Per questo ho trovato opportuno impostare una prima ricerca verso l'assoluto quando parlo della possibilità o meno di una metafisica, ed una verso l'analisi e la scelta di una forma relativa dell'assoluto nella storia, quando parlo dell'orizzonte cristiano.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831609784

PARTE PRIMA

L’ESPERIENZA INTERIORE
SUL DIALOGO “IO/MONDO”: DIO

Dio, se c’è, è nascosto. […] C’è da meravigliarsi e diffidare di coloro che affermano di non avere difficoltà a credere. Forse (com’è stato detto) è perché non hanno ben capito di che cosa si tratta.
(Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù)


IL SENTIMENTO COME ESPERIENZA,
ESPERIENZA COME REALTÀ

Carissimi, non prestate fede ad ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se vengono veramente da Dio.
(1 Gv 4,1 segg.)
La coscienza regna, ma non governa.
(Paul Valéry)
La verità, iniziata dalla mia esperienza sul mondo, parte da alcune emozioni che formano un sentimento di presenza: l’esserci. Sarebbe quindi interessante constatare la “rappresentatività”, se così si può dire, di questi sentimenti in relazione alla verità che cerchiamo.
La passione e la ragione sono due sentimenti che troppo spesso vengono isolati in un tutto o bianco o nero; in realtà sono le sfumature a comporre un simile rapporto. Come diversi studiosi fanno notare5, non è vero che la passione sia priva di legami con la ragione. La passione non è del tutto cieca, così come la ragione non è tutta fredda. Di certo, guidati dall’emotività si può andare contro il pensiero razionale, ma ogni passione contiene in sé un piccolo meccanismo che è composto anche da ragione. Senza sentimento probabilmente non vi sarebbe neanche ciò che di più razionale conosciamo, perché l’attitudine stessa del conoscere, attraverso lo stupore e la curiosità verso l’enigma del mondo, è primariamente un sentimento.
Se con il sentimentalismo si giunge solo ad un mero psicologismo, con il razionalismo si acquista una comprensione eccessivamente analitica della realtà, che si disperde nel contingente, facendo venire meno l’unità complessiva delle cose. A proposito è indicativo il passaggio che compie Miguel de Unamuno da un positivismo razionalista ad un atteggiamento più fideistico, anticipando alcuni temi esistenziali. Il filosofo spagnolo, subìto l’influsso di personaggi quali Schopenhauer e Kierkegaard, si allontanò dal razionalismo al quale contrappose la necessità di fede: “fede nella fede stessa”. Tutto questo per soddisfare il desiderio di immortalità, superare “l’agonia” interpretata come lotta per l’affermazione eterna dell’esistenza personale.
Non esiste una teoria sistematica sulle emozioni. Tra le prime abbozzate si può citare quella di James-Lange, secondo la quale l’emozione coincide con l’esperienza dell’alterazione somatica. Quando lo stimolo viene avvertito si ha una modificazione fisiologica che viene allora percepita come emozione. Cannon e Bard notavano che lo stimolo investe la sollecitazione del talamo, che invia impulsi al sistema nervoso simpatico, producendo successivamente la reazione fisiologica. D’altro canto per i comportamentisti l’emozione fa parte di una delle tante sequenze comportamentali apprese. Dunque, l’emozione come sentimento vivo sulla realtà è un nostro modo di essere in questa; non solo, il sentimento comporta uno stato d’animo che ci fornisce delle impressioni su come e dove viviamo. In definitiva ci troviamo davanti all’idea di sensibilità, ovvero l’emozione comporta uno stato d’animo che interpreta il reale in un certo modo, e il sentimento, in quanto modo di essere nella realtà, ne cerca la significazione. Sotto certi aspetti l’emozione è un modo di percepire la significatività dell’esistenza, si lascia trasportare dal desiderio d’immortalità. Pertanto il punto è: che tipo di comprensione, qual è la sua “validità”? Lo stato d’animo è innanzitutto indotto, nel senso che è un prodotto di alcuni fattori, conseguentemente non è una condizione permanente. Così, il primo pregio del sentimento è quello di mostrare l’attitudine a rendersi consapevoli, a comprendere il significato della propria presenza, denotandola. Il problema è che si tratta di una condizione temporanea, prodotta da una serie di circostanze. Il pericolo, in quanto stato d’animo momentaneo, è l’illusione della suggestione. Epistemologicamente quello che si chiede all’emozione è la sua “coerenza al percepire ordinario”, il non essere un eccesso di straordinarietà fine a se stessa: quanto sia conforme al reale, non assecondarla immediatamente, ma viverla in un secondo momento attraverso l’osservazione. Allora mi accorgerò che vivere l’emozione, essendovi in parte indifferente in contrasto con l’averla vissuta immediatamente, procura uno scarto, capace di delinearmi quanto potevo essere suggestionato dalla contingenza, influenzato dal momento. Ad esempio, vissuto un attimo di collera mi rendo conto solo dopo di quanto è stato futile assecondarlo, perché consapevole che non aveva presa sul reale. Cogliere lo scarto tra situazione contingente e sua riflessività permette di introdurre la ragione nei sentimenti, facendoli contribuire al processo conoscitivo.
In questo equilibrio, tra il sentimento e la sua osservazione, volendo nel rapporto, più occidentale, tra fede e intellezione, non occorre dimenticare la “funzionalità” dei ricordi per il sentimento di me nel mondo, per l’esperienza di re-legazione e il dialogo esistenziale. I ricordi lasciano e mutano gli stati d’animo passati e presenti; l’interpretazione dei ricordi somma sempre ciò che abbiamo vissuto con il momento in cui un’esperienza è divenuta ricordo. Lo stratificarsi del mio modo di vedere il mondo, la variabilità della soggettivizzazione del reale, modifica la mia immagine dei ricordi. I ricordi creano sentimenti, di vecchi e nuovi, e quelli nuovi uniti a quelli passati si fondono per astrarre nuovi desideri, creare rinnovati sogni.

LA POSSIBILITÀ DELL’ ESSERE COME CONDIZIONE

Spiegando Sartre, Pietro Prini, nel suo “l’esistenzialismo”, dice:
L’essere in sé è: non appartiene all’ordine della “possibilità”, perché il possibile è soltanto una struttura della coscienza che progetta: non appartiene all’ordine della “necessità”, perché la necessità concerne i rapporti tra le proposizioni ideali e non tra gli esistenti. L’essere è contingenza pura, realtà bruta.
In Sartre la realtà è affetta dalla mancanza, a causa della pienezza ideale “dell’in sé” in opposizione alla nullità del “per sé”. Al contrario, da un punto di vista esistenzialmente più pragmatico (l’esperienza), che cerca certezze e riferimenti, l’essere è solo una possibilità che non è di troppo. In questo senso l’incongruenza sartriana tra l’essere “in sé” dei fenomeni e quello “per sé” dell’uomo è tutta da dimostrare, visto che anche l’uomo da ciò che è altro da sé è comunque in parte un essere “in sé”, un fenomeno che “si fa accadere e che accade assieme ad altro/altri”. Sotto questo punto di vista l’uomo diventa addirittura una congiunzione, più che un’opposizione, tra “l’in sé” e il “per sé”, ovvero un fenomeno nel mondo (peraltro come gli altri animali) ma essere senziente, capace di ricerca e costruzione di significati, con la volontà di dispiegare l’essere in toto. Tale volontà di (di)spiegare l’essere può avvicinarsi o meno all’essere “in sé” ma è di per sé irrilevante perché, non sapendo cos’è effettivamente questo, per differenza non possiamo misurare la nostra costruzione del conoscere. Dire con Sartre che questo scarto, e la sua non piena intellegibilità, è motivo di opposizione tra il piano dell’essere e noi, per cui noi siamo agenti di nullificazione dell’essere, è non cogliere appieno nella sua accezione positiva il punto della relazione (che noi siamo anche essere). D’altra parte la certezza, nata dalla più alta probabilità, rifiuta la giustificazione dell’assurdo. Quest’ultimo consiste nel denotare di nullità e manchevolezza il mondo, allo stesso modo di un Heidegger, che vede nell’esistenza autentica quella che comprende la radicale nullità dell’esistenza, a causa della morte e della datità dell’essere che nullifica le possibilità umane di progettazione. Al contrario, la nullità alla quale pare spingerci la morte altro non è che il motore che ci porta a dare senso a tutto il tempo: sono così i significati dati all’identificazione di quel senso a divenire essere. Certo, se l’essere è tempo la morte interrompe tutto ma, all’interno dell’orizzonte dei significati che possiamo dare, vi rientra anche l’interpretazione della morte, conseguentemente del tempo e dell’essere, come parte di altro. In ultima istanza, di fronte a qualsiasi datità oggettiva tipo: morte = fine del tempo e dell’essere, quindi nullificazione del tutto, si pone l’esercizio della libertà attraverso l’interpretazione. Un’interpretazione che, come voleva Heidegger, si svela nel linguaggio, ma ancor prima direi nella cultura (e cultura come linguaggio), delle sue relative “forme di vita” (per dirla con Wittgenstein), delle sue strutture ideologiche e filosofiche.
Senza volerci addentrare troppo su un argomento così complesso e trattato quale “l’essere” e la sua storia filosofica, occorre però ribadire che da una prospettiva esperienziale la barriera del non-senso è impensabile e psicologicamente inaccettabile, non solo da rendere necessaria una ricerca di senso, ma siccome cerchiamo e parliamo inevitabilmente di verità (o non-verità), non possiamo negare a priori un senso. Semmai occorre interrogarci su quale significato darvi, la semantica, che fonda i discorsi, ci ricorda tale inevitabilità. Proprio perché il noumeno kantiano (la “cosa in sé”) è impossibile da conoscere e proprio perché non possiamo che provare a parlare anche di ciò che (ancora?) non possiamo sapere, la metafisica diventa il dominio del discorso e del conoscere che veicola. Insomma, è proprio dalle più minacciose e radicali decostruzioni metafisiche che quest’ultima si riscatta, dimostrandoci l’inevitabilità, quanto l’impossibilità, del fondamento. D’altra parte questa tensione non è che il cammino della conoscenza.
Il filosofo John Lesile ha elaborato una bella immagine per esprimere la perplessità che si può vivere trovandoci nell’universo, considerata la complessità con il quale è costituito. Supponete di essere di fronte a un plotone di esecuzione, cinquanta fucili vi sparano e scoprite che siete salvi: i proiettili vi hanno mancato. Ci stupiamo del fatto che un plotone di esecuzione abbia mancato un uomo, così come siamo stupiti del fatto che quest’universo abbia creato e/o sia frutto di una serie di ordinate leggi fisiche, le quali ci hanno permesso di esprimere consapevolezza. Quest’ultima è una condizione, anzi la condizione dell’essere. L’essere è possibile se risponde alla condizione del suo rendersi cosciente, perchè si pensa come essere mentre è (cogito ergo sum): il suo punto più elevato.
La significazione dell’essere (tanto più stringente quanto più diviene complesso) implica comunque una qualche forma di fiducia conoscitiva, perché è qualcosa che cade nella probabilità, non nella certezza: ha il peculiare carattere della problematicità, è lo scarto di cui si diceva, la mancata identificazione con la datità bruta dell’essere “in sé”. L’essere, più che in opposizione, è di sicuro problematico sotto questa accezione, in quanto, aldilà di ciò che è veramente, è per noi possibilità di interpretazione. Tale è la sua condizione, la possibilità di significare. Si tratta di una condizione di indeterminazione data dalla labilità della significazione, se così non fosse vi sarebbe l’assolutismo dell’identificazione. Sotto questo punto di vista significare ci fornisce un raggio di azione nel quale indirizzare la vita, quindi il nostro essere:
Se nel mondo non ci fosse senso, nemmeno potremmo attribuirglielo dall’esterno. Possiamo certo compiere azioni che hanno un significato all’interno del contesto creato dalle loro finalità, ma esse di per sé non producono senso esistenziale. Il senso c’è o non c’è. Da questo punto di vista non può essere un nostro prodotto. Ciò che produciamo può ispirarci per un istante un sentimento di sufficienza, ma non giustifica e non riempie di senso la totalità dell’esistenza.
Naturalmente in tutti i tempi e in tutti i luoghi ci si è interrogati sul senso della vita e così si continuerà a fare. E si potranno anche trovare brandelli di risposta. Ciò che di queste risposte rimarrà però valido, non sarà certo ciò che si è inventato ma solo ciò che si è rinvenuto, ciò che si è scoperto nella creatura umana. […] il senso è qualcosa che ci sostiene, che precede e va oltre i nostri pensieri e le nostre scoperte e solo così ha la forza di sorreggere la nostra vita6 [corsivo aggiunto].
Tuttavia, come facciamo a distinguere ciò che nei brandelli di risposta sul senso del mondo è “inventato” o “rinvenuto”? Tra l’altro ciò presuppone che un senso ci sia, perché è come l’essere parmenideo: “o c’è o non c’è”. All’opposto, la possibilità dell’essere come condizione (condizione di tutto: dell’essere sé, del dire, del pensare etc.) non identifica un senso “in sé” in quanto non lo può specificare, non è un’affermazione assoluta, appunto, è una possibilità di dare significati. Per capire se questi ultimi siano “inventati o rinvenuti” non abbiamo una ricetta se non la ragione dialettica (Hegel). Se siamo sottoposti all’indicibilità sul tema del senso dell’essere, quindi della sua verità, siamo però chiamati dalla condizione che questo sia possibile. Come sia possibile dipende dalle esperienze sul senso che facciamo e da come queste convergono nella dialettica della ragione. Tuttavia, prima ancora di addentrarci nella dimensione di che esperienza possiamo fare sul termine di senso, occorre approfondire una questione non secondaria in seno al termine di possibilità, per capirne l’ampiezza: la libertà.
  • L’INDECISIONE DELLA LIBERTÁ
La parola libertà è priva di senso
(Diderot)
Parlare della libertà comporta sempre un certo imbarazzo, tentare solo di circoscrivere questo concetto appare arduo, considerato che da sempre è stato terreno di riflessione. Il nesso che tale termine ha con altri è complesso, tant’è che non esiste un problema filosofico riconducibile alla libertà, ma una serie di implicazioni connesse alla sua questione. Pertanto qui mi propongo unicamente di spiegare e contestualizzare la preferenza per la libertà nell’interpretazione del reale, visto che andrò a implicare tale nozione in relazione al problema della teodicea. Ritengo importante problematizzare la questione della libertà all’interno del presente discorso, per evitarne un mero utilizzo strumentale, al solo fine di sottrarci dagli imbarazzi legati al problema del male. Occorre dare velocemente delle ragioni del perché la libertà è potenzialmente posta al centro degli eventi, d’altra parte come la nozione di possibilità che l’accompagna. Quindi non ho l’ambizione di interrogarmi direttamente se l’uomo è libero o meno davanti alla sua psiche, la società o la chimica del suo cervello, piuttosto chiederci se non possa esistere una libertà generale e casuale all’interno del corso degli eventi, seppure regolati da leggi fisiche determinate (un principio ordinatore). L’intento in prima istanza è naturalmente quello di screditate un concetto ormai obsoleto e secolarizzato, come il determinismo teologico, ovvero concezioni quali “il destino” o “la provvidenza”. Parallelamente sussistono diversi modi di parlare della libertà, attraverso lenti scientifiche, filosofiche, neuroscientifiche, per cui l’importante è circoscrivere l’ambito e dar conto della complessità.
Parlare di libertà comporta un chiarire la sua accezione all’interno di una diatriba ancora più generale, che è quella tra visioni deterministe e indeterministe. La prima interpreta il tutto (oggetti, proprietà, soggetti) come dominato da cause ed effetti necessari: ogni cosa ha una spiegazione (una determinazione), quindi un significato. Il campo di applicazione di una simile interpretazione è, come si può immaginare, stato enorme, andando dal determinismo naturale (dove il mondo è regolato da leggi universali e necessarie, quindi anche prevedibili), il determinismo teologico (lì dove la volontà divina regna sovrana), al determinismo antropologico (il quale ha, a sua volta, diverse sfaccettature: sociologico, psicologico, biologico). Le prime due tipologie di determinismo sono quelle più antiche, ma anche quelle, per così dire, “passate di moda”. Il principio di indeterminazione di Heisemberg e la teoria del caos hanno notevolmente screditato il determinismo naturale; l’umanesimo e l’illuminismo hanno screditato il determinismo teologico, conducendo contemporaneamente le società a prospettive più secolarizzate. Al contrario, il positivismo e, conseguentemente, una buona dose di scientismo, hanno contribuito a dare nuova credibilità alle forme di determinismo antropologico: dalla convinzione che le decisioni del singolo sono in realtà dettate dalla coercezione sociale, al dominio del complesso mondo della psiche (in cui non siamo più noi ad agire ma è l’inconscio e le stratificazioni che v...

Indice dei contenuti

  1. PARTE INTRODUTTIVA: POSSIBILITÀ DEL PENSIERO METAFISICO
  2. PARTE PRIMA - L’ESPERIENZA INTERIORE SUL DIALOGO “IO/MONDO”: DIO
  3. PARTE SECONDA - LA FORMA NELLA STORIA SUL DIALOGO “IO/MONDO”: GESÙ
  4. NOTE SULLA CHIESA
  5. EPILOGO
  6. BIBLIOGRAFIA MINIMA